RASSEGNA STAMPA – 27 – a cura di Rita Bettaglio

dall’Italia, dal Mondo  –  17 luglio 2011

 

rassegna stampa

 

a cura di Rita Bettaglio

 

 

VATICANO – CINA: IN POCHI CONDIVIDONO “DOLORE E PREOCCUPAZIONE” DEL PAPA PER LA CHIESA IN CINA


Padre Bernardo Cervellera

Città del Vaticano (AsiaNews), 14/07/2011 – A poche ore dall’ordinazione illecita di p. Giuseppe Huang Bingzhang a vescovo (scomunicato) di Shantou , a cui hanno partecipato – costretti – otto vescovi in comunione col papa, il direttore della Sala stampa vaticana, p. Federico Lombardi, ha confidato ai giornalisti che in Vaticano questo avvenimento ”viene seguito e visto con dolore e preoccupazione”.
“La posizione e i sentimenti della Santa Sede e del Papa – ha sottolineato p. Lombardi – sono stati già espressi recentemente nelle precedenti circostanze” e nascono dal fatto che si sa che si tratta di “un atto che è contrario all’unità della Chiesa universale”.

Il “dolore e la preoccupazione” del papa erano ben noti nelle parole che egli ha espresso alla fine dell’udienza del 18 maggio scorso, quando ha chiesto ai cristiani di tutto il mondo di pregare per “i nostri fratelli vescovi” che “soffrono e sono sotto pressione nell’esercizio del loro ministero episcopale”. “A Maria – aveva aggiunto il pontefice – chiedo di illuminare quelli che sono nel dubbio, di richiamare gli smarriti, di consolare gli afflitti, di rafforzare quanti sono irretiti dalle lusinghe dell’opportunismo”.

Dal novembre scorso la Cina ha deciso di procedere all’elezione e all’ordinazione di candidati vescovi senza attendere il mandato del pontefice: p. Guo Jincai per Chengde (novembre 2010); p. Paolo Lei Shiyin per Leshan (29 giugno 2011); oggi p. Giuseppe Huang Bingzhang per Shantou; diversi altri per il futuro.

Le ordinazioni episcopali senza mandato della Santa Sede implicano la scomunica automatica per il candidato e per i vescovi ordinanti. Molti di questi – come oggi – sono stati costretti a partecipare alla funzione, per cui è possibile che essi non vengano scomunicati. Ma almeno una decina di loro si trovano in una situazione di scandalo che divide le comunità cinesi.

Il “dolore e preoccupazione” del papa sono dovuti al fatto che attraverso questi gesti di strapotere della Cina sulla Chiesa, si va sfilacciando il paziente lavoro di ricucitura fra Chiesa sotterranea e ufficiale che Giovanni Paolo II e poi Benedetto XVI avevano compiuto. Una Chiesa divisa rimane più impacciata nell’evangelizzazione della Cina e non riesce a garantirsi di fronte al Partito comunista cinese i giusti spazi di libertà religiosa che, in teoria, la stessa costituzione cinese ammette.

Va detto che proprio di fronte alle pretese assolutiste del governo cinese molti fedeli e vescovi sono divenuti più coraggiosi: nei siti internet si pubblicano i documenti vaticani, anche quelli critici verso Pechino; nelle ordinazioni illecite si trovano sempre più vescovi che dicono di no a causa della fede e del rapporto col pontefice.

Il “dolore e preoccupazione” sono anche per la vita di questi vescovi. Per l’ordinazione di Shantou, mons. Paolo Pei Junmin di Liaoning è riuscito a non muoversi dalla sua diocesi, aiutato da tutti i suoi sacerdoti che con lui sono rimasti a pregare per giorni, perché il vescovo non fosse sequestrato. Un altro pastore, mons. Cai Bingrui di Xiamen è riuscito a nascondersi. Ma ora è ricercato dalle autorità del governo. Nel dicembre scorso, un altro vescovo, mons. Li Lianghui di Cangzhou (Hebei), si era nascosto per non partecipare a un altro gesto contro il papa (l’Assemblea dei rappresentanti cattolici cinesi). La polizia lo ha ricercato per giorni come un “criminale” e dopo averlo trovato, lo ha costretto a tre mesi di isolamento e lavaggio del cervello, per convincerlo della “bontà” dei metodi del Partito verso la Chiesa. È possibile che anche mons. Pei e mons. Cai vengano sottoposti a isolamento e sessioni politiche, che li strappano dal loro ministero e li distruggono dal punto di vista psicologico.

Con tutto ciò, dobbiamo dire che a condividere il “dolore e preoccupazione” del papa sono troppo pochi.

E sono pochi anzitutto nella Chiesa. La Giornata mondiale di preghiera per la Chiesa in Cina, voluta da Benedetto XVI e implorata con l’appello dello scorso 18 maggio, ha trovato pochissime diocesi pronte a a pregare per la Chiesa in Cina, i vescovi perseguitati e quelli “opportunisti”.

Non parliamo poi della società civile. Ormai, il delfino bianco dello Yangtze, in estinzione a causa dell’inquinamento in Cina, strappa più lacrime dell’estinzione della libertà in un Paese che è destinato a dominare il mondo e che usa con tranquillità questi metodi polizieschi.

A dare man forte a questo strabismo vi sono fior di presidenti (anche quello italiano) e segretari di Stato, che visitando la Cina non fanno che elogiare “il cammino positivo” compiuto da Pechino sui diritti umani, mentre – oltre a vescovi e preti – migliaia di attivisti, portatori di petizioni, artisti, scrittori vengono imprigionati e ridotti al silenzio.

Come ebbe a confessare il segretario Usa Hillary Clinton nel suo primo viaggio in Cina, “con Pechino possiamo parlare di tutto, anche di diritti umani, ma senza mettere a rischio i nostri rapporti economici”.

Qui non si tratta di semplice avidità, di interesse al mercato cinese: è una questione di miopia nel non vedere che gli attentati alla libertà religiosa prima o poi sono attentati a tutte le libertà. Lo sanno bene gli operai cinesi, schiavizzati e pagati con poco; i contadini che vengono defraudati delle terre; i bambini e i disabili costretti a lavorare nelle fabbriche di mattoni e preferiti agli adulti perché “più docili”. Ma anche la libertà economica comincia a soffocare: ormai non c’è imprenditore che avendo investito in Cina, prima o poi non sia derubato dei suoi brevetti, o costretto a pagare bustarelle fino al 25 per cento del suo fatturato per riuscire a mettere piede nell’eldorado cinese.

C’è miopia anche nella leadership cinese che alla carenza di riforme politiche e di rispetto per i diritti umani, invece di rispondere col cambiamento, preferisce l’oppressione e lo Stato poliziesco e così si prepara a uno scontro sociale sempre più alto. Le 180 mila rivolte che ogni anno scoppiano nel Paese sono solo una goccia di quello che potrà succedere se la Cina e il mondo continuano ad accarezzarsi a vicenda per sfruttare insieme il popolo cinese e soffocarlo nei suoi diritti umani e religiosi.


RICORDO DEL VESCOVO MISSIONARIO CESARE MAZZOLARI: DA BRESCIA AL SUD SUDAN PER AMORE DEL VANGELO

Pubblichiamo ampi stralci tratti dal primo capitolo del libro, appena giunto in libreria, dedicato alla figura del vescovo di Rumbek, in Sud Sudan, morto improvvisamente, nella mattina di sabato 16 (Un Vangelo per lAfrica. Cesare Mazzolari, vescovo di una Chiesa crocifissa. Torino, Lindau, 2001, pagine 144, euro 12).

Siamo seduti in un refettorio all’aperto al Pan Dor, letteralmente «casa della pace». Qui la diocesi di Rumbek accoglie i suoi visitatori, persone di passaggio, stranieri che cercano un alloggio momentaneo. Indossa, monsignor Mazzolari, una maglietta che è già un programma: I am a committed youth Catholic, «Appartengo alla gioventù cattolica impegnata». È la t-shirt ufficiale dei catechisti della Chiesa che Mazzolari guida dal 1990, prima come amministratore apostolico, poi dal ‘99 come vescovo. Tre milioni di abitanti, il 10 per cento cattolici: territorio immenso, bisogni enormi, difficoltà così vaste da farsi soffocare. Ma per capire qualcosa di quello che fa, e soprattutto è, questo facitore di Vangelo in terra d’Africa, bisogna tornare indietro con la memoria. E rievocare i tratti salienti dell’«atmosfera» comboniana che Brescia, la città di Mazzolari, vantava e possiede ancora oggi, avendo dato i natali all’apostolo della Nigrizia, san Daniele Comboni, bresciano di Limone sul Garda. «La grande casa comboniana di Brescia si animava moltissimo per la cerimonia dell’invio dei missionari. Conoscevamo tutti i padri comboniani. Quando sono entrato nel seminario minore a Crema (poi per due anni ho abitato in quello di Brescia), mi sembrava di essere cresciuto tra comboniani. Ho sempre avuto l’intenzione di diventare prete, un pensiero che mi veniva dalla mia famiglia, dalle preghiere di nostra mamma. Ogni sera recitavamo il rosario. I nostri genitori ci hanno insegnato a rivolgerci a Dio mattina e sera: guai se non dicevamo le preghiere!».

Ma il «trasloco» di vita, da casa Mazzolari a «casa Comboni», non è stato indolore. «Tutte le sere io e il papà ci fermavamo al bar Zilioli a Brescia: lui beveva un calice di vino bianco e mi comprava le caramelle che portavo a casa ai miei fratelli. Un giorno, rimontati in bicicletta, lui alla guida, io sulla canna, mi chiede: “Ma allora, è vero quello che hai detto alla mamma, che vuoi diventare sacerdote?”. Non avevo avuto il coraggio di dirlo a lui direttamente e così mi ero rivolto alla mamma. Risposi: “Sì, papà”. E ho sentito le sue lacrime bagnarmi la testa. Abbiamo fatto silenzio. In pochi minuti siamo arrivati a casa». Poi il racconto procede spedito: «Mio papà non mi ha mai detto: “Non puoi diventare prete”. Solo che, durante il primo mese di seminario, veniva ogni giorno a Crema con un plateau di mele. Mi portava anche dei soldi e mi diceva: “Perché non li prendi?”. E io: “Papà, cosa me ne faccio del denaro? Qui ho tutto”. Non l’ho mai dimenticato. Papà mi ha visto partire per gli Stati Uniti dove andavo a studiare: non avevo ancora 18 anni e mi serviva il permesso suo e della mamma. È venuto a Firenze a salutarmi prima della partenza, ricordo che mi disse: “Non ti vedrò più”. Quando frequentavo la prima teologia è morto a causa di uno sbaglio chirurgico: i medici che lo operarono di ernia non sapevano che soffriva di diabete, malattia scoperta troppo tardi. È spirato nel giro di tre giorni».

E la rievocazione di casa si fa più intensa: «Da piccolo mi emozionavo parecchio ascoltando i missionari che passavano da casa nostra: quello è stato il mio primo incontro con la missione. Non avevo mai visto l’Africa, ma avevo conosciuto tanti padri e suore che lì avevano trascorso la loro vita, al punto che mi pareva di esserci andato di persona. In famiglia respiravamo aria di missione: mia nonna e mia mamma cucivano i vestiti dei comboniani! Così mi è nata e rimasta dentro questa apertura missionaria. Non ho mai avuto la minima intenzione di fare il prete in Italia. In me c’è stato sempre il pensiero dell’Africa».

Per i destini della vita questo «chiodo fisso» impiantatosi nell’animo dell’adolescente Cesare assume le fattezze del Nuovo Mondo, gli Stati Uniti d’America. En passant: quanti missionari ho conosciuto che, desiderosi di essere inviati in Asia o Africa, sono stati poi assegnati ad «altre» missioni, nel ricco e scristianizzato Occidente, per impegni pastorali, di gestione e formazione nel loro istituto! Un martirio «di impegno» che ha di certo purificato e temprato il loro ardente anelito all’annuncio di Cristo. Così avviene anche per il non ancora diciottenne Mazzolari: «Già da seminarista volevo venire in Sudan, la terra dove Comboni fu missionario. Ero novizio quando i miei superiori a Brescia mi presero in disparte e mi comunicarono che volevano mandarmi negli Stati Uniti. L’incarico sarebbe stato quello di formare giovani futuri missionari. Avrei dovuto accompagnare nella formazione studenti e seminaristi americani, facendo comunità con loro, condividendo lo spirito comboniano così come l’avevamo conosciuto noi in Italia. Ne ho parlato con i miei genitori e abbiamo risposto di sì».

L’America, dunque, prima destinazione del futuro vescovo «africano»: «Sono partito in nave nel 1955 da Napoli appena dopo Natale. Nove giorni di navigazione, destinazione New York». Nel 1962, in pieno concilio Vaticano II, Cesare Mazzolari viene ordinato prete a San Diego. «Subito ho ricevuto l’incarico di padre spirituale del seminario minore comboniano a Cincinnati. Ci sono rimasto quattro anni e intanto, per un biennio, ho studiato inglese nella locale università dei gesuiti». A metà degli anni ‘60 viene inviato a Los Angeles: «Qui ho lavorato con gli immigrati messicani. Ce l’ho messa tutta: ho ricostruito la chiesa, ha lavorato con i contadini poveri, imparando anche lo spagnolo. Quegli anni sono stati il fior fiore della mia missione. Ero molto legato ai ragazzi: facevamo grandi gite, io guidavo la corriera e realizzavamo un sacco di attività». Dal ‘74 Mazzolari viene trasferito di nuovo a Cincinnati, dove lavora in una parrocchia abitata per lo più da afroamericani e immigrati ispanici: «Ho marciato in strada contro lo sfruttamento dei braceros. Andavo in comune e in tribunale a difendere le loro donne. Non avevo paura di niente: ho messo in piedi una scuola popolare nella nostra parrocchia di San Pio X. Avevamo inventato i “bingo”, tombole parrocchiali utili per finanziare la scuola. Ho conosciuto la maledizione del razzismo contro i neri».

Pensava di non essere «in missione», il poco più che ventenne padre Cesare. E invece, nella terra dei grattacieli e della libertà, il giovane prete scopre di essere giunto in una terra di autentico annuncio: «Vedere la povertà e il razzismo verso i neri mi fece capire che stavo facendo evangelizzazione e promozione umana con la difesa dei diritti umani. Ho scoperto che anche negli Stati Uniti esiste la possibilità di fare missione e far penetrare il Vangelo, in particolare tra gli afroamericani. Molte volte sono andato negli uffici del Governo per difendere i diritti di questa gente, perché potessero conservare la propria abitazione e venissero loro garantite acqua e elettricità. Lavorando in America ho scoperto il contrasto enorme tra i più ricchi, la classe media e la povertà più assoluta: gente dimenticata, calpestata, senza diritti. Persone che vivevano miserabilmente e scomparivano».

Nel 1981, finalmente, l’agognata meta di una vita diventa realtà. A padre Cesare viene comunicato che potrà partire per il Sudan. «Sono arrivato in Sudan dopo aver chiesto molte volte di venire: l’istinto naturale di un comboniano della mia età era di poter raggiungere l’Africa» ribadisce Mazzolari. E questa «consacrazione totale» alla Nigrizia di Comboni («Sudan» in lingua araba significa proprio «terra dei negri», in latino Nigritia) è confermata da più di un comboniano qui presente. «Una volta arrivato in Sudan, subito qualcosa mi lasciò perplesso, soprattutto a causa del contrasto con il resto del mondo, in particolare venendo dai più sviluppati Stati Uniti. Ma una volta che ci si stabilisce in questa terra, si trova qualcosa che te ne fa innamorare. Se mi chiedessero “Vuoi morire negli Stati Uniti, in Italia o in Africa?”, io risponderei: “Lasciatemi in Sudan”. La mia famiglia lo sa e lo ha accettato. Ora il mio attaccamento all’Africa non costituisce solo un’emozione: il Signore mi sprona e mi aiuta. Questo innamoramento fa parte di un Suo piano, non sempre lo capisco e a volte mi lascia dubbioso. Spesso mi sembra di sbagliare, ma poi sento che qualcosa sta accadendo. Penso che sia il lavoro della grazia di Dio, altrimenti non esiste spiegazione. La missione non rappresenta una scelta strettamente umana, è qualcosa in più».

Non è questione di superomismo, di voler andare all’estremo per il gusto di potersene vantare. Monsignor Mazzolari ha quasi 75 anni, non deve dimostrare a chi gli sta davanti un’imprecisata superiorità. La voce si fa più intensa e racconta un esempio emblematico: «Qui a Rumbek ho avuto dei preti argentini che si sono lasciati traumatizzare dalla situazione; dopo poche settimane uno ha scritto ai superiori a Roma per poter andare via. Noi comboniani non ne saremmo stati capaci, avremmo abbracciato la croce di quella situazione. È questione di determinazione: Comboni parlava di martirio, una dimensione che fa parte della mistica della croce. Penso che questo mi sia stato donato durante la guerra, quando le cose erano difficili da gestire, quando non avevamo nulla da dare alla gente se non noi stessi».

Dopo i primi quattro anni come missionario «normale», arriva per Mazzolari il primo incarico: 1985, provinciale dei comboniani. «Il mio lavoro consisteva nel gettare le fondamenta della nostra provincia: dovevamo avere un numero sufficiente di membri, una casa di formazione (il postulantato che costruimmo a Juba, proprio sulla riva del Nilo); ho fondato un centro per il clero, chiamato “la casa di Emmaus”; ho lavorato con un gesuita per formare l’associazione dei religiosi approvata da Propaganda Fide in modo che tutti i missionari avessero più unità e coerenza nel loro impegno e buone relazioni con la Chiesa locale».

La sera ormai è tarda, l’ora del sonno sopraggiunge. Un’ultima confidenza arriva da questo roccioso missionario con la croce da vescovo al collo: «Vediamo cosa succederà quando andrò in pensione, se restare qui o recarmi altrove. Alcuni pensano che partire sia una soluzione giusta, per togliersi dai piedi e non impicciare il vescovo che verrà dopo. Però, se il mio successore mi chiederà di restare comunque e di offrire il mio appoggio, ad esempio andando in giro con il cappello in mano per domandare aiuti per la nostra diocesi, lo farò. Vedremo…».

17 luglio 2011

(Fonte: Osservatore Romano)


INDIA: ABERRANTE CHIRURGIA SU BAMBINE NEONATE

Bhopal, 12/07/2011. Severa condanna della Chiesa su un fenomeno aberrante, che, purtroppo, si sta diffondendo nello Stato del Madhya Pradesh (India centrale). Si moltiplicano i casi in cui i medici praticano la chirurgia per cambiare sesso a bambine neonate, su richiesta dei genitori che privilegiano i maschi per una radicata cultura di disparità di genere. «Abbiamo stigmatizzato con forza, come vescovi indiani — sottolinea padre Charles Irudayam, segretario della commissione per la Giustizia, la pace e lo sviluppo della Conferenza episcopale dell’India — questa pratica orribile. È frutto di una mentalità che privilegia il maschio come fonte di profitto e come figlio di maggior valore, mortificando la dignità femminile». I presuli indiani da tempo conoscevano il fenomeno dell’aborto selettivo che, secondo alcuni studi, negli ultimi 20 anni ha riguardato oltre 5 milioni di bambine. Il Governo ha tentato di arginarlo con provvedimenti ad hoc, e infatti si registra un decremento. Ora emerge l’operazione chirurgica. «Credo che la responsabilità — spiega il segretario della commissione — sia prima di tutto dei genitori, che la chiedono, poi dei medici che la compiono. Occorre lavorare sempre di più, come sta facendo la Chiesa, per diffonde una cultura di uguaglianza di genere e per promuovere la dignità e i diritti della donna nella società. Ma ci troviamo a dover combattere una mentalità radicata, ed è dunque un’opera che richiede tempo». La Chiesa cattolica, ricorda padre Irudayam, ha la cura di migliaia di strutture sanitarie, «apprezzate per la loro opera eccellente, che diffondono una mentalità e una pratica di rispetto della vita e della dignità umana. Bisogna proseguire nell’opera di educazione delle coscienze».

Padre Anand Muttungal, portavoce del Consiglio dei vescovi del Madhya Pradesh, commenta: «La preferenza al maschio è un fattore ancora forte nelle famiglie di fede indù, per la credenza che, per avere la salvezza, ci sia bisogno di un figlio maschio. Con il fattore religioso, il problema diventa di ampie dimensioni. Come Chiesa del Madhya Pradesh abbiamo espresso la nostra preoccupazione e cerchiamo di essere vicini ai problemi e ai bisogni della gente».

Attivisti e organizzazioni per i diritti umani hanno definito la pratica «scioccante» e la commissione per la protezione dell’infanzia ha chiesto al Governo severe misure per bloccarla. Le istituzioni hanno avviato un’indagine per bloccare la pratica, nota come «genitoplastica», che ha già riscontrato 300 casi di bambine di età inferiore a un anno operate nella città di Indore.

(Fonte: Osservatore Romano)


IL CARD. ARINZE CRITICA I GIOCHI DI PAROLE NEL DIBATTITO SULL’ABORTO


FRONT ROYAL (Virginia, Stati Uniti), giovedì, 14 luglio 2011 (ZENIT.org).- Il Presidente emerito della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti sostiene che nel dibattito sull’aborto bisognerebbe parlare chiaro.

Il Cardinale Francis Arinze lo ha affermato sabato scorso durante una conferenza sulla bioetica ospitata dal Christendom College di Front Royal alla quale hanno partecipato, oltre al porporato, anche il Vescovo Robert Morlino di Madison (Wisconsin), l’autrice Janet Smith e padre Tadeusz Pacholczyk.

Il Cardinal Arinze ha osservato quanto i diritti umani fondamentali siano inviolabili perché sono dati da Dio e sono inerenti alla persona umana.

“Se una persona viene uccisa, a che le servono tutti gli altri diritti?”, ha chiesto. “Alcuni dicono ‘Personalmente sono contro l’aborto, ma non imporrò la mia visione agli altri’. E’ come dire ‘Alcuni vogliono sparare a tutti voi al Senato e alla Camera dei Rappresentanti, ma io non imporrò loro i miei punti di vista’”.

“Non è altamente illogico per alcune persone parlare di balene, scimpanzè e alberi come ‘specie in pericolo’ che devono essere preservate – e se si tortura un cane in certi Paesi si viene portati in tribunale per crudeltà verso gli animali – mentre l’assassinio di bambini non nati viene definito ‘pro-choice’ anziché ciò che è, ovvero un omicidio? Bisogna dire pane al pane e vino al vino”.

L’autrice Janet Smith ha affrontato invece la questione della contraccezione. Usando la filosofia del personalismo contenuta nella teologia del corpo del beato Giovanni Paolo II, ha spiegato gli effetti dannosi della contraccezione sulla relazione sponsale.

“Avere relazioni sponsali con una persona e non essere aperti ad avere un figlio con quella persona negherebbe la realtà per cui il rapporto sessuale porta a relazioni che durano una vita”, ha detto. “Dovrebbe essere qualcosa per cui si gioisce, non una cosa vista come una punizione per il fatto di avere rapporti sponsali”.

Padre Tadeusz Pacholczyk, del National Catholic Bioethics Center, ha invece parlato della ricerca sulle cellule staminali embrionali.

La pubblicità di Hollywood, la curiosità scientifica e la ricerca di lucro sono gli elementi che fanno sì che la distruzione di embrioni per ottenere cellule staminali sia finanziata e attiva, ha affermato.

Il sacerdote ha sottolineato l’ironia di una legge statunitense del 1940 che difende non solo l’aquila di mare dalla testa bianca, ma anche il suo uovo.

“Se riteniamo che distruggere un uovo d’aquila sia un male come distruggere un’aquila, perché non riusciamo a pensare lo stesso quando si tratta di vita umana?”, ha chiesto.

Il Vescovo Morlino ha poi proseguito la discussione con una presentazione sul diritto naturale e le discussioni sul fine vita.

“Ogni caso di malattia terminale o di una persona moribonda è unico”, ha dichiarato.

“Le valutazioni non sono difficili da fare, è la comunicazione pastorale ad essere difficile. Se la persona non si sente un peso per gli altri e non lo è, l’approccio pastorale alla comunicazione della verità è molto più semplice”.

Lorna Cvetkovich, del Tepeyac Family Center, ha quindi discusso le sfide che devono affrontare i cattolici che praticano la medicina.

“Nella nostra società, l’80% delle donne ha usato pillole anticoncezionali. Se si hanno più di 35 anni  e si ha un figlio, c’è una possibilità del 50%-60% che si sia stati sterilizzati, e la percentuale di gravidanze con la fecondazione in vitro aumenta ogni anno”, ha sottolineato. “Dobbiamo affrontare molte cose”.

I professionisti medici cattolici, ha indicato, devono preoccuparsi non solo delle questioni relative alla salute riproduttiva, ma anche delle pratiche della ricerca. Una sfida per la professione medica è capire e riconoscere quando l’ideologia ha battuto l’ideale scientifico.

“Molti dati e varie ricerche hanno mostrato che l’aborto aumenta il rischio di cancro al seno”, ha commentato. “Perché lo si nasconde? In passato potevammo confidare nel fatto che la gente avesse la volontà di compiere ricerche positive”.

Concludendo, la Cvetkovich ha confessato di temere per il futuro della medicina cattolica:  “Dovremo scegliere tra praticare una medicina anti-ippocratica e pro-choice e praticarne una ippocratica, cattolica, pro-vita e perdere il nostro lavoro”.

LA CHIESA CELEBRA LA FESTA DELLA BEATA KATERI TEKAKWITHA

CNA STAFF, 14/07/2011 – Il 14 luglio la Chiesa ha celebrato la festa della beata Kateri Tekakwitha, la prima nativa americana ad essere beatificata. Nota come il “Giglio degli Mohawks,” Kateri visse una vita di solitudine e virtù, nonostante gli ostacoli e l’opposizione della sua tribù.

Riportiamo di seguito una breve biografia della beata.

La devozione a Kateri iniziò subito dopo la sua morte e il suo corpo, custodito a Caughnawaga, viene visitato da molti pellegrini. Dopo la beatificazione, avvenuta nel 1980 ad opera di Giovanni Paolo II, è in corso la causa di canonizzazione.

BREVE BIOGRAFIA DELLA BEATA

Tekakwitha (letteralmente:”colei che mette le cose a postoo, secondo altre interpretazioni, “colei che cammina mettendo le mani avanti“) nacque nel 1656 ad Osserneon, (attualmente Auriesville, nello Stato di New York), da madre Algonquina, cattolica, e padre Mohawk, di fede tradizionale, capo del villaggio Osserneon, lungo il fiume di Mohawk. La madre di Kateri, Kahenta, venne presa in sposa dal capo Mohawk in seguito ad un’incursione nel suo villaggio algonquino durante le guerre tra Uroni ed Algonquini. Ella era stata convertita al cattolicesimo dai gesuiti francesi e si mantenne ferma nella sua nuova fede pur con il dolore di non potere battezzare i suoi figlioletti a causa dell’ostilità del marito verso i “vestenera” cioè i gesuiti.
Un’epidemia di vaiolo decimò il villaggio e tra le vittime ci furono i genitori ed il fratellino minore di Tekakwitha. Si racconta che Kahenta sopravvisse al marito quel poco tempo che le consentì di battezzarlo. La piccola Tekakwitha sopravvisse fragile, indebolita nella vista, segnata in volto da cicatrici. Orfana a quattro anni, fu adottata dagli zii, che non avevano figli.
Ella si dimostrò sempre laboriosa, seria, riservata, senza alcun interesse nell’adornarsi o nel pensare al matrimonio. Amava cantare i vecchi inni religiosi che aveva sentito da sua madre e capiva di essere alla ricerca di qualcosa che ancora non sapeva definire ma che trovava nella meditazione, nel silenzio, nella solenne bellezza della natura. Quando gli zii cercarono di unirla in matrimonio con l’inganno ad un giovane guerriero, Kateri arrivò al punto di fuggire. L’immotivato rifiuto alle nozze con il giovane a cui era stata promessa a soli otto anni le causò severi giudizi, aspre e dolorose critiche e l’assegnazione di lavori pesanti e gravosi. In quegli anni, precisamente nel 1670, i Missionari Gesuiti fondarono la Missione di San Pietro a Caughuawaga ovviamente raggiungendo i villaggi vicini per diffondere il Vangelo. Fu da padre Jacques de Lamberville, nuovo responsabile della Missione, che Tekakwitha udì presentare il messaggio cristiano nella stessa abitazione dello zio che, come di costume, doveva ospitare gli stranieri, seppure mascherando la sua ostilità per timore di una guerra con i “bianchi”. L’annuncio del Cristianesimo illuminò Tekakwitha: finalmente la sua anima aveva trovato ciò che la rendeva davvero felice.

Tekakwitha, costretta a casa da una ferita al piede e quindi impossibilitata a recarsi al lavoro, espresse segretamente il desiderio del Battesimo, durante una visita di padre de Lamberville. Sebbene il sacerdote l’avesse ripetutamente messa in guardia contro la furia dello zio, Tekakwitha non volle recedere dal suo proposito. Il sacramento le fu amministrato il 5 aprile 1676, e le venne imposto il nome di Kateri, cioè Caterina in lingua locale.
Le prolungate soste nella casa di preghiera dei cristiani e l’osservanza del riposo domenicale le procurarono non poche sofferenze fisiche e morali da parte della sua famiglia. Lo stesso padre De Lamberville si rese conto della gravità della situazione e organizzò la fuga di Kateri. Accompagnata da amici fidati si portò al lontano villaggio di Sault St. Louis, alla missione S. Francesco Saverio, vicino a Montreal in Canada. Grazie ad Anastasie Tegonhatsihongo, una donna dalle ottime capacità di insegnante e che aveva conosciuto sua madre, Kateri potè immediatamente apprendere tutto ciò che le serviva per vivere come una buona cristiana. Il giorno di Natale del 1677 Kateri ricevette la Prima Comunione e il 25 marzo del 1679 pronunciò i voti privati non potendoli emettere in un istituto religioso.
Colma di gioia spirituale, particolarmente devota alla Madre di Dio, spese tutte le energie insegnando preghiere cristiane ai fanciulli, nell’assistenza agli anziani e malati, accompagnando ogni attività con preghiera e severe penitenze. La sua salute cagionevole non resse a lungo e morì il 17 aprile 1680, a soli ventiquattro anni. Le sue ultime parole: “Jesos Konoronkwa” (“Gesù ti amo“) rivelarono il segreto del suo cuore agli amici ed al sacerdote che l’assisteva. Pochi minuti dopo la morte il volto di Kateri si trasformò in una luce sorprendente e le cicatrici scomparvero.

Il 3 gennaio 1943 fu dichiarata venerabile da papa Pio XII; il 22 giugno 1980 fu beatificata a Roma da papa Giovanni Paolo II. E’ patrona dell’ambiente e dell’ecologia insieme a San Francesco d’Assisi.

(Fonte: http://kateri.altervista.org/)

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