Rousseau, Dewey e la sovversione pedagogica della scuola

  1. La pedagogia selvaggia di Rousseau.

La pedagogia moderna ostenta disprezzo per il leggere, lo scrivere e il far di conto, aborre i libri e le nozioni, anzi il linguaggio stesso, contesta la centralità dell’insegnante. In fondo, rifiuta la scuola e sogna di rifondarne una interamente nuova. Il rifiuto si esaspera a volte in un odio parossistico: la celebre lettera della scuola di Barbiana dà sfogo a un risentimento incontenibile verso la classe intera degli insegnanti; nella sua «Pedagogia degli oppressi» Paulo Freire assimila il docente all’oppressore; in un’antologia adottata nei vecchi istituti magistrali si legge addirittura che «in senso tecnico la scuola si può considerare uno dei maggiori fallimenti realizzati dall’umanità nei propri confronti. È difficile trovare nella storia umana un’impresa che sia costata tante preoccupazioni, cure, spese riuscendo a produrre tanta stasi, tante probabilità di regresso, tanta deformazione intellettuale morale e civile»[1].

Il redattore di questa sentenza inappellabile, l’influente pedagogista Raffaele Laporta, ne deposita anche le motivazioni: «La causa prima di tutto ciò va individuata […] nel fatto che non è stato mai possibile, e non è possibile tuttora, far coincidere le procedure di insegnamento con i processi naturali di apprendimento umano e specificamente infantile»[2]. Secondo Laporta, l’uomo – sebbene sia uomo e non animale, dunque nel parlare, nel leggere, nello scrivere e nel calcolare dimostri un’abilità con i segni irreperibile nel resto della natura – deve apprendere tutto secondo un processo naturale, e la scuola fallisce perché non ha trovato la formula per risolvere un problema da sempre insolubile – di fatto un problema inesistente.

È Rousseau ad aver lasciato ai pedagogisti la dubbia eredità dell’odio della scuola. Per dimostrarlo è sufficiente osservare che egli ha ridotto la libertà dell’uomo all’impulso naturale, e solo per questo esige un’educazione che si rivolga alla vitalità fisica del bambino ed eviti per quanto possibile il linguaggio e la sua artificialità. Kant, che pure condivise con lui l’ansia di indipendenza, sulla valutazione dell’artificialità fu lontanissimo dal riduzionismo naturalistico: la libertà è al di là della natura, è il fondamento noumenico della legge morale; questa si manifesta nell’uomo non come impulso, ma come negazione dell’impulso, nel potere di padroneggiarlo fino a negarlo. L’io, l’autocoscienza, come negazione della naturalità, è dunque essenzialmente artificiale[3]. – Solo perché si rapporta negativamente alla natura, l’io può realizzare la sua libertà nello Stato di diritto: il potere artificiale delle leggi di limitare l’arbitrio del singolo è lo stesso potere con cui il singolo ha già limitato i suoi impulsi così da costituirsi come io artificiale; perciò l’io può riconoscerle come sue leggi. Invece, poiché Rousseau ha confuso la libertà con l’impulso, il suo io oscilla tra l’onnipotenza solipsistica naturale e l’annullamento del singolo nel collettivo artificiale; a causa del suo errore, egli riesce ambiguo perfino nei suoi momenti più alti, per esempio nel «Contratto sociale», che dalla negazione dell’impulso del singolo fa nascere non l’io singolo padrone di sé, ma lo Stato padrone dell’io singolo, con il risultato inquietante che lo Stato diventa l’unico io, entro cui i singoli sono assorbiti integralmente, proprio come accade nei regimi totalitari.

L’identità di impulso e libertà è ancora più letale per la sua pedagogia. Ciò che poteva essere una giusta riconsiderazione dell’innocenza naturale del bambino, un invito all’attenzione a quanto di implicitamente razionale è già in essa e un opportuno invito alla delicatezza nel reprimere quanto vi è di irrazionale, si trasforma in rifiuto dell’artificialità, in professione di primitivismo anticulturale, in disprezzo ostentato della conoscenza teorica e in sovversione della scuola che deve insegnarla. Da allora Rousseau ha rappresentato una tentazione fatale per la pedagogia, che quanto più lo ha seguito tanto più si è lasciata andare a sogni utopistici, perfino dopo le atroci rivoluzioni novecentesche, e ha perso la capacità di capire e accettare l’istruzione scolastica.

I pedagogisti non sono solo ciechi alle contraddizioni di Rousseau, le trasfigurano in saggezza superiore. In sé stessa la contraddizione non è assurda, racchiude anzi la categoria ben precisa del divenire; il divenire è infatti l’inseparabilità di essere e nulla. Ma formulare una contraddizione credendo di aver formulato un principio stabile, questo è certo un’assurdità. La pedagogia moderna ha trasformato le contraddizioni di Rousseau in principi, e ha perso dunque non solo la capacità di aiutare i docenti, ma anche la facoltà di pensare con coerenza. Qui documenteremo questi giudizi con uno tra i tanti testi disorientati della letteratura pedagogica, l’Introduzione di Andrea Potestio alla sua traduzione dell’Émile[4].

Vi leggiamo che Rousseau definisce l’Émile «un’opera di carattere filosofico intorno a un principio sostenuto dall’autore in altri suoi scritti, e cioè il principio che l’uomo è per natura buono»[5]. Commenta Potestio: «Il male, il negativo e la corruzione sono generati dall’uomo stesso e dai suoi limiti nel momento in cui si relaziona con gli altri e costruisce le regole sociali»[6]. L’uomo è buono, ma solo finché è isolato; uscito dall’isolamento, quando dovrebbe mostrarsi qual è, ecco, è già malvagio e corrotto. È buono quando non può nuocere, non buono appena lo può. Ne segue che l’uomo per natura è un divenire malvagio, un essere buono e non buono. – Il commentatore non doveva accettare come principio una simile contraddizione. Riflettendovi, avrebbe trovato che il termine stesso «natura» è equivoco, di fatto antitetico: significa 1) essenza, definizione, certo; ma nell’uomo, ed è dell’uomo che qui si parla, significa altrettanto 2) il lato istintivo, animale, ciò che Kant indica con l’aggettivo patologico. Nel primo significato, il principio di Rousseau equivale a dire che l’uomo deve essere libero: l’essenza dell’uomo è liberarsi, vivere secondo l’universalità della legge è la sua differenza specifica; nel secondo significato, il principio equivale a dire che l’uomo naturale, vale a dire il bambino, è innocente; non buono, ma buono e cattivo, perché solo la volontà umana cosciente, non la natura, può essere buona o cattiva.

Poiché non è consapevole, la natura è innocente; e l’uomo inconsapevole non è buono, come vuole Rousseau, ma innocente, buono e non buono insieme. L’innocenza è contraddittoria, dunque è un divenire; essa non è stabile, non è un’essenza, è piuttosto uno svanire nell’essenza dell’uomo, nella libertà, e l’educazione è l’aiuto che i liberi danno al movimento dello svanire dell’innocenza nella libertà. L’educazione non può limitarsi a preservare l’innocenza, come crede spesso Rousseau, perché l’innocenza non è la bontà e i bambini non sono soltanto delicati e compassionevoli, sono altrettanto rozzi e crudeli. La loro innocenza va rispettata fino a quando non sia lesiva e i loro errori vanno corretti con misura; in ogni caso essa si perde e l’educazione deve aiutare l’io a staccarsi dagli istinti. Come l’educazione non può limitarsi a preservare l’innocenza, la scuola non può attenersi ai «processi naturali di apprendimento umano e specificamente infantile» come crede Laporta, perché essa non insegna ai bambini ciò che imparano da soli, ma quello che è oltre la loro motivazione naturale e si può raggiungere soltanto con un salto intellettuale.

La contraddizione dell’innocenza fu viva esperienza dello stesso Rousseau, senza che egli ne traesse motivo per uscire dal suo errore. All’età di 28 anni, Jean Bonnot de Mably, un colto aristocratico lionese, lo assunse come precettore dei suoi due figli. Rousseau «definisce la sua attività di educatore come un fallimento…: ‘avevo pressappoco le nozioni indispensabili per un precettore e credevo di averne le capacità. Nell’anno che passai in casa del signor de Mably ebbi agio di ricredermi. La dolcezza della mia natura mi avrebbe reso adatto a quel mestiere, se la facilità a incollerirmi non vi avesse mischiato i suoi temporali’»[7]. Da questa esperienza Rousseau non trasse alcuno spunto di critica al suo principio della bontà naturale dell’uomo: ha esperito la propria natura come una dolcezza facile a trascendere nel vizio della collera, ma la sua interpretazione riflette solo sulla dolcezza, astrae dalla collera. La stessa incapacità di ritorno critico al suo dogma si manifesta nel passo delle «Confessioni» intorno alla stessa esperienza: «Mi balzavano agli occhi tutti i miei errori, li sentivo, studiavo l’indole dei miei allievi, li comprendevo benissimo, e non credo di essere stato mai, neppure una volta, vittima delle loro astuzie»[8]. Rousseau ha fatto esperienza di una natura infantile che non è solo fiducia e docilità, ma è altrettanto astuzia e caparbietà; esclude però questo secondo elemento dall’ambito della natura; e depurata dal negativo, l’innocenza diventa identica alla bontà.

L’esperienza di precettore ha mostrato a Rousseau che il suo carattere dolce è anche collerico, che la fiducia infantile è anche astuzia; ma egli non ha la forza di sopportare la contraddizione; dunque non riesce a smascherare l’insufficienza del suo dogma. Per lasciarlo intatto, deve abbandonare l’esperienza effettiva, ritrarsi nell’immaginazione e fingervi un’esperienza che lo soddisfi, che ne dia cioè una conferma allucinatoria. Il suo Émile è una lunga illusione che ha trascinato nel falso due secoli e mezzo di pedagogia occidentale.

Così si rapporta Potestio a questo procedimento illusionistico: «Rousseau ha sperimentato lo scacco e la distanza incolmabile tra l’esperienza diretta e la riflessione teorica. Vivendo il proprio fallimento come educatore…, ha iniziato a occuparsi dei problemi teorici dell’educazione e della riflessione pedagogica»[9]. Il tono pacato di queste frasi non dovrebbe nascondere l’abissalità del loro contenuto. La verità è adaequatio rei et intellectus, e nei termini di Potestio equivale all’accordo tra l’esperienza diretta e la riflessione teorica. Affermare che tra queste ci sia una «distanza incolmabile» significa rifiutare il concetto stesso di verità, dunque la conoscenza e la ragione, e professarsi irrazionalisti. Non si tratta di un gesto anticonformista. La zizzania dell’irrazionalismo è l’unica erba di cui ci sia abbondanza nei campi della pedagogia. Essa cresce rigogliosa, per esempio, nel Manuale di pedagogia e didattica, giunto alla gloria della settima edizione dopo appena un decennio dalla sua prima pubblicazione. Nell’Introduzione[10] gli autori formulano, come se fosse un’ovvietà, la nozione di scienza pedagogica, ma nel proseguire, presi forse da nostalgia del materialismo storico, prima ne individuano la specificità epistemologica nel suo connettersi all’utopia (un’osservazione esatta, come vedremo, ma che è incompatibile con la dichiarazione di scientificità della pedagogia), poi si professano adepti di un modello di scienza che sostituisce «a modelli di conoscenza univoci, esaustivi e totalizzanti, modelli ispirati e contraddistinti dai caratteri della rizomaticità [cioè dell’espansione imprevedibile], parzialità, provvisorietà, storicità»[11]. Di fatto, essi riferiscono in modo indiscriminato l’instabilità propria dei confini della scienza al suo nucleo consolidato, che è propriamente il contenuto dell’insegnamento scolastico, e così la mutano nel suo contrario. Avendo costruito e adorato un modello selvaggiamente precarizzato di scienza, la pedagogia si trasforma in una giungla in cui risuonano «alcune categorie chiave: pluralità e differenza, creatività e cambiamento», che la inducono a «riconoscere e collegare dialetticamente [!] tra loro dimensioni spesso disgiunte e contrapposte [certo!] e quindi di interconnettere storia e utopia, logica e immaginazione, ragione e desiderio, ma», come se gli opposti già elencati non bastassero, «anche mito e scienza, natura e tecnica, individuo e contesto, memoria e progetto»[12]. Come si vede, il sostantivo «categoria» qui sta per «suggestione» e l’avverbio «dialetticamente» sta per «arbitrariamente»; così dal suo apparire si spegne il lume della ragione e la scienza pedagogica finisce nel vuoto della chiacchiera.

Com’è costituita, secondo Potestio, la riflessione teorica staccata dall’esperienza diretta? «Partendo da questa esperienza» – di fatto, dandole l’addio – «Rousseau decide… di soffermarsi sugli aspetti teorici dell’educazione e di costruire un progetto che gli permette, in qualche modo [corsivo nostro], di oltrepassare i limiti della concretezza, le specificità dei casi particolari e le difficoltà presenti nelle infinite sfumature della realtà»[13]. Vale a dire: 1. la realtà non ha nessun diritto perché è fatta solo di limiti, di casi particolari e di difficoltà, dunque 2. Rousseau ha tutti i diritti ad avanzare un progetto la cui attuazione consiste nel violarla. Starobinski, citato da Potestio, esprime in maniera ancora più mistificata la contraddizione: «Jean-Jacques sceglie di essere assente e di scrivere»[14], cioè sceglie comodamente di fare a meno della realtà intorno alla quale scrive, di non preoccuparsi della verità della sua scrittura.

Essendosi reso assente dalla scena educativa fino al punto da avere abbandonato in orfanotrofio i suoi cinque figli, Rousseau ha il tempo di leggere «da autodidatta molti trattati educativi, osserva[re] con spirito critico le consuetudini formative del suo tempo e progetta[re] un’opera pedagogica»[15]. Per il suo germogliare dall’assenza, l’opera risulta interamente, per così dire, libresca. In sé, nulla di male, anzi: la bibliografia è il momento scolastico indispensabile alla scienza. Ma Rousseau odia i libri, al punto da tenerne lontano Emilio fino a dodici anni e da consentirgli in seguito la lettura del solo «Robinson Crusoe». La genesi libresca deve essere dunque cancellata, e con essa la forma metodica e la coerenza logica. Resta così solo la forma del romanzo: «… le regole che potevano avere bisogno di prove le ho tutte applicate al mio Emilio… e ho fatto vedere con ricchezza di particolari come le mie proposte si possono realizzare»[16], vale a dire la prova dell’efficacia delle sue regole pedagogiche è fornita dalla loro applicazione a un personaggio inventato. Il percorso di Rousseau è dunque 1) abbandonare l’esperienza ingrata, 2) darsi ai libri odiati, 3) occultarlo, 4) scrivere un romanzo come se fosse il racconto di un’esperienza effettiva, 5) spacciarvi l’esperimento della sua mente parossistica per un esperimento reale riuscito. La pedagogia moderna dominante è lo stupore davanti a questa finzione. Anche Potestio ne resta incantato, tanto da credere che Rousseau non abbia abbandonato l’esperienza: «L’esperienza concreta», cioè le vicende immaginarie dell’immaginario Emilio e del suo immaginario gouverneur, «costituisce la garanzia stessa del valore delle riflessioni teoriche e impedisce [!] che le teorie diventino fantasticherie di colui che scrive»[17]. Le fantasticherie spacciate come esperienze devono impedire che le teorie diventino fantastiche – è questo l’argomento sublime di Potestio.

Gli abusi della forma portano con sé gli abusi del contenuto. Essi sono tanti e tali che dall’Émile si ritrassero inorriditi non solo la religione, ma anche il suo nemico, l’illuminismo. In fuga dalla civiltà, Rousseau animalizza il bambino, e nel secondo libro, in cui parla del bambino in età scolare, si legge questa dichiarazione di guerra alla scuola: «Ora dovrei parlare della scrittura? No, mi vergogno di soffermarmi su simili sciocchezze in un trattato sull’educazione»[18]; oppure questa: «La lettura è il flagello dell’infanzia… Prima dei dodici anni, Emilio non saprà che cos’è un libro»[19]. Dalla volontà di procrastinare l’alfabetizzazione, l’odio della civiltà avanza fino all’aperto disprezzo del linguaggio: il gouverneur non darà a Emilio lezioni verbali: «Mantenete il fanciullo nella sola dipendenza dalle cose; così avrete seguito l’ordine naturale nel progresso della sua educazione. Alle sue voglie indiscrete opponete soltanto ostacoli fisici o punizioni che nascano dalle azioni stesse e di cui si ricordi al momento opportuno: senza proibirgli di agire male, basta impedirglielo. L’esperienza o l’impotenza soltanto deve fargli da legge»[20]. Che qui parli l’odio della civiltà e non la preoccupazione pedagogica, è evidente per più ragioni. Anzitutto usare solo vie di fatto non garantisce la razionalità dell’uso. Inoltre è assurdo il pensiero che solo la dipendenza dagli uomini nuoccia alla loro libertà, che la dipendenza dalle cose la lasci intatta. Al contrario, la dipendenza dagli uomini può essere imposta solo mediante la dipendenza dalle cose: ci si piega alla volontà altrui solo in quanto non si può rinunciare a un bene (al proprio corpo vivente, alla sua integrità, alla propria donna, al proprio figlio, alla proprietà in generale) caduto sotto l’altrui potere. La dipendenza dalle cose è dunque l’unico motivo per cui la libertà può rinunciare a sé stessa. – Infine, poiché ha identificato libertà e impulso ed entro la condizione sociale l’impulso deve essere comunque limitato, Rousseau esaspera la tecnica dell’impedire per mezzo della predisposizione delle cose e senza proibire fino al delirio satanico di controllo totale del bambino: «Lasciategli credere di essere il padrone, ma in realtà siate sempre voi a guidarlo: non esiste assoggettamento tanto perfetto come quello che conserva l’apparenza della libertà perché, in questo modo, si riesce a controllare la sua stessa volontà»[21].

Rousseau paga così la moneta falsa del rispetto della spontaneità infantile con la moneta d’oro della libertà. L’uscita dall’innocenza e l’entrata nella libertà hanno invece bisogno della proibizione espressa linguisticamente. Non solo Aristotele ha rintracciato nel linguaggio degli uomini la premessa della giustizia e del vivere bene che lo Stato deve garantire, lo stesso Rousseau ha intuito che solo il dominio delle leggi consente la libertà: non si capisce come si possa educare, cioè educare alla libertà, rinunciando alle parole, unico medium in cui sono formulate le leggi che la tutelano. Le leggi sono universali e solo il linguaggio fatto di parole, cioè di universali, può esprimerle. L’universalità dei nomi è dunque un momento ineludibile della libertà. Rinunciandovi, Rousseau si avviluppa nel delirio: privato di ogni istruzione teorica, confinato allo sviluppo delle forze fisiche, Emilio svilupperà la facoltà speculativa dall’eccesso di energia fisica; il modello a cui il suo autore lo approssima è il selvaggio: «Non essendo mai stabilmente legato a nessun luogo, non avendo compiti prestabiliti, non dovendo obbedire a nessuno e senza altra legge che la sua volontà, è costretto a ragionare su ogni azione della sua vita e non fa un movimento, non muove un passo, senza averne valutato in anticipo le conseguenze. In questo modo, più il suo corpo si esercita, più la sua intelligenza si illumina; la forza e la ragione crescono insieme e l’una si sviluppa per mezzo dell’altra»[22].

La pedagogia selvaggia di Rousseau è stata ignorata nella scuola dell’Ottocento: le scuole pubbliche europee appena istituite si sono guardate bene dal distruggersi con il suo naturalismo. Ma a fine Ottocento l’Europa e gli Stati Uniti sono percorsi da spiriti democratici e socialisti che scambiano la centralità degli insegnanti e delle discipline teoriche nelle scuole per un’espressione di privilegio sociale e di oppressione. In virtù di John Dewey che se ne sente discepolo, torna in auge Rousseau e nasce così la pedagogia progressiva che per amore dell’uguaglianza e della spontaneità infantile abolisce ogni gerarchia scolastica, quella tra docente e discente e quella tra discipline teoriche ed esperienze pratiche. La teoresi è infatti sospetta alla mentalità egualitaria, che è indirizzata all’utopia e vorrebbe cambiare il mondo, più che conoscerlo: le teorie sono elaborazioni di menti esperte e sottostanno al principio della meritocrazia; esse non godono di uguaglianza di diritti in base alla loro semplice esistenza, ma devono acquistarsi il credito con l’argomentazione, l’esperimento e la risposta alle critiche, oppure svanire. Così nella scuola progressiva non si fa teoresi: i contenuti e le abilità sono omogeneizzati fino all’insignificanza così da poter essere disciolti in attività ludiche, il docente abbandona scienza e cultura, diventa un animatore degli alunni, a volte anche un bersaglio, e lascia che questi si attivino secondo i loro impulsi, convinto che l’esercizio spontaneo li premi con l’acquisizione di solide abilità. I risultati non possono che essere la regressione in un rozzo analfabetismo.

  • Dewey e la distorsione politica della pedagogia.

Dewey ammette che la didattica progressiva non può funzionare: «La debolezza di alcune scuole e alcuni insegnanti che rivendicano il nome di progressivi consiste nel fatto che, reagendo al metodo tradizionale di un’impostazione esterna e autoritaria, essi si arrestano al riconoscimento di concedere libero gioco alle capacità e agli interessi naturali. […] In molti ambienti è ancora diffusa l’idea che l’evoluzione e lo sviluppo rappresentino un semplice svolgimento dall’interno, che si effettua quasi automaticamente se non vi si interferisce»[23]. Egli vorrebbe correggere i difetti del progressivismo con una valorizzazione delle materie disciplinari. Ma non vi riesce, perché non ha compreso né le fasi della conoscenza né il fine del processo pedagogico.

Il rapporto di un soggetto con le cose estranee è ciò che si chiama sua esperienza; la scienza in senso proprio consiste nel comprenderla così da superare l’estraneità. L’apprendimento è il passaggio dall’estraneità alla familiarità, di cui la scienza è la forma definitiva. Dapprima l’apprendimento è imitazione; l’apprendere dall’esposizione discorsiva della scienza acquisita dagli altri è l’istruzione; essa deve portare alla capacità di acquisire scienza dal rapporto diretto con le cose estranee, cioè dall’esperienza stessa. – Appena nato, il bambino non ha esperienza, ma solo istinti: succhiare, ingoiare e poco altro, e la madre provvede a tutto il resto. Dapprima, spinto dal desiderio di indipendenza («Da solo!»), il bambino imita le abilità della madre, così da farle proprie e da iniziare a rapportarsi in modo autonomo alle cose. In seguito, l’apprendimento imitativo del linguaggio consente il grande salto pedagogico che all’imitazione aggiunge l’istruzione, l’esposizione discorsiva delle conoscenze, di cui la scuola è il teatro principale. Infine, diventa dominante il terzo modo di apprendimento, quello dall’esperienza diretta; esso è proprio dell’esperto, di chi cioè è padrone dell’arte, sa muoversi autonomamente e si confronta liberamente con gli altri esperti e con le cose. Queste sono le fasi pedagogiche e questo provvedere a sé stesso dell’individuo, la libertà, è il fine generale della pedagogia. – L’imitazione è l’apprendimento facile e istintivo, in cui ci si abbandona con fiducia all’oggetto fino a identificarsi con lui e da assimilarne la forma. L’istruzione è invece l’apprendimento del difficile che dipende dunque dagli esperti e dai libri; essa è facilitata dall’imitazione, ma non è pensabile senza disciplina, in particolare durante la fase adolescenziale che ha il tratto specifico di rifiutare l’atteggiamento imitativo nei confronti del mondo adulto, anzitutto dei genitori. L’apprendimento per esperienza, forma necessaria del progresso generale della conoscenza, pur conservando come suoi momenti l’imitazione e l’istruzione (la ricerca di solito si appassiona al suo oggetto e indica una bibliografia), rappresenta la raggiunta libertà, in quanto gli esperti seguono soltanto la disciplina che danno a sé stessi. Nel senso di questa libertà, Aristotele la identificò con la vita felice.

L’imitazione è rapida e piacevole, l’istruzione è uno sforzo dipendente dalla guida e dal controllo magistrali, l’apprendimento dall’esperienza, pur laborioso, lento e assoggettato ai capricci del caso nei suoi risultati, è libero. La didattica progressiva è l’illusione libertaria che lo sforzo diretto dall’autorità del maestro sia non solo sgradevole, ma anche inutile, perché tutto ciò che è degno di essere appreso può esserlo come se fosse l’imitazione spontanea, facile e piacevole. «Attività che induce ad ulteriore attività, senza cattiveria»[24] – è il motto di Kilpatrick. Dewey rifiuta lo spontaneismo indeterminato nello stile di Kilpatrick, ma non dispone di un quadro più affidabile dei fatti pedagogici elementari. Il suo pregiudizio pragmatista lo costringe a escludere l’istruzione e a sostuirla con l’apprendimento per esperienza, come se l’esperienza avesse la piacevolezza dell’imitazione e non avesse affinità etimologica con pericolo. È dunque fatale che, avendo rifiutato con sdegno la severità propria dell’istruzione come inutile crudeltà, ritorni a Rousseau e trasformi l’apprendimento scolastico in una sequenza di esperienze apparentemente spontanee, ma in realtà guidate dall’ambiente predisposto dall’insegnante. Che la scienza non sia riducibile alla sensata esperienza, ma abbia bisogno anche delle certe dimostrazioni, che abbia cioè un aspetto puramente teorico ineludibile, è osservazione metodica galileiana che dimostra la necessità dell’istruzione puramente teorica e l’estraneità della tecnica didattica di Dewey allo spirito della scienza. Vi torneremo con ampiezza più oltre. Dal punto di vista pedagogico va subito osservato che la falsa identità tra spontaneità ed esperienza induce negli alunni l’errore, ancora più madornale dello sterile spontaneismo progressivo, di identificare l’apprendimento per esperienza, che è lento e difficile, che necessita di infinita autodisciplina e diligenza per giungere, se è fortunato, alla gioia della scoperta, con il suo antipodo, con l’apprendimento spontaneo, il cui archetipo è l’imitazione, e che, proprio come l’uso degli strumenti digitali, concede subito la sua ricompensa. L’illusione di una facile conoscenza d’esperienza svia i giovani alla falsa conclusione che la verità sia a portata di mano e consista nell’opinione più comoda. Il dogma di Dewey per cui l’apprendimento è fecondo solo se nasce dall’esperienza semplificata e guidata, ha avuto un effetto ancora più grave sulla successiva pedagogia e sugli insegnanti. Dovendo predeterminare nei progetti didattici le esperienze degli alunni, essi si sono trovati nel dilemma di congiungere la piacevole spontaneità con la severità cognitiva. Il disprezzo di Dewey per la conoscenza discorsiva, così popolare nell’universo mondo, ha contagiato tutta la pedagogia, e si è diffuso di qui nelle scuole e nelle facoltà magistrali. È così che la severità cognitiva è affatto svanita dai progetti didattici e l’intera scuola occidentale si è attestata sull’insulso spontaneismo di Kilpatrick, quello capace solo di alimentare il dilettantismo nei casi migliori e i comportamenti devianti nei peggiori.

Privo di una visione dell’essenza e dello sviluppo della pedagogia, il primo articolo del Credo pedagogico di Dewey è una fuga dalla realtà. Egli immagina l’education come il processo per cui l’individuo si lascia plasmare dalla società e così acquista gradualmente il capitale di risorse intellettuali e morali che essa ha accumulato. In qualche misura si può concedere che il bambino sia dipendente dagli adulti e se ne lasci plasmare (ma già l’adolescente non rientra affatto nel quadro); ma l’altro estremo, quello delle risorse intellettuali e morali accumulate come un capitale dall’umanità, è indeterminato e occorre precisarlo con ipotesi. Forse con l’espressione «risorse intellettuali e morali» Dewey intendeva richiamare la nozione hegeliana di spirito assoluto, vale a dire le opere d’arte riuscite, le religioni e le scienze. Ma questa ipotesi è incompatibile con la pretesa espressa subito dopo che l’educazione sia inconsapevole; infatti non si può arrivare né a produrre né a fruire l’arte, la religione e le scienze senza accorgersene. Occorre allora una seconda ipotesi. Inconsapevolmente si possono assorbire solo i costumi, le abitudini sociali diffuse. Anche questo è in Hegel. Dunque le «risorse intellettuali e morali» accumulate dall’umanità potrebbero essere i costumi di un popolo. Ma proprio per l’inconsapevolezza, i costumi e le abitudini sociali non sono affatto qualificabili come «risorse intellettuali e morali»; essi contengono di tutto, dalle regole dell’araldica alle fogge degli abiti, dalla prostituzione sacra al cannibalismo. Vale a dire, in quanto sono acquisiti inconsapevolmente, i costumi umani non sono la realtà coerente e magnifica cui l’espressione «risorse intellettuali e morali» o la metafora «capitale» intende riferirsi, sono invece un coacervo di realtà diverse e spesso in attrito tra loro. Hegel non si è mai sognato di identificare lo spirito del popolo, intrappolato nella insuperabile finitezza storica, con lo spirito assoluto. Se è inconsapevole, l’educazione non può portare a condividere le risorse spirituali accumulate dall’umanità, ma solo a contrarre i pregiudizi condivisi dal gruppo di cui si è parte. Viceversa, poiché lo spirito assoluto non si costituisce inconsapevolmente, ma risulta dall’estremo sforzo conoscitivo e dalla critica libera, quella che nel confutare coglie il positivo nel confutato, l’educazione consente all’individuo di giungere a condividere le risorse spirituali dell’umanità se è data la condizione necessaria, ma non sufficiente, di essere consapevole. Aver fatto dell’inconsapevolezza la via verso lo spirito è un errore stupefacente e dalle conseguenze drammatiche. Poiché l’inconsapevolezza è il carattere dell’animale, sostenere la tesi che si giunga allo spirito assoluto inconsapevolmente equivale ad animalizzare l’uomo e lo spirito assoluto. Si genera forse di qui l’impressione costante che la pedagogia di Dewey sia incapace di riferirsi all’uomo e si adatti meglio alla domesticazione degli animali.

Uno spirito assoluto animalizzato che fagocita gradualmente gli individui è il ritorno dell’incubo rousseauiano di una società che si costituisce non sulla base della libertà individuale, ma della sua alienazione. Che Dewey sia in preda a questo incubo lo conferma il suo modo di rappresentare il processo educativo. Le situazioni sociali – scrive – stimolano il bambino ad agire per conformarsi, gli altri rispondono alle sue azioni e queste risposte sono il significato e il valore delle azioni infantili[25]. Dewey sembra dire che l’ambiente sociale susciti le imitazioni del bambino e con le sue reazioni ad esse ne confermi il significato. Di fatto, però, non dice questo. Dewey afferma invece la tesi avventata che le azioni del bambino stimolate dalle richieste sociali siano in sé stesse prive di significato e di valore, e che esse li assumano solo in quanto la società ve li immette. Secondo lui, non è il bambino a ricreare con l’imitazione gli atti e le parole significanti e a cercare conferma nelle risposte altrui, ma è la società a infilare un significato in atti e parole di per sé insignificanti. Questo schema, che Dewey pretende di applicare all’apprendimento del linguaggio sostenendo che esso nasce dall’attribuzione sociale di un significato ai balbettii infantili, si adatta, più che al bambino, al cane da tartufi per il quale il loro ritrovamento è un’azione richiesta e dapprima priva di significato, che acquisisce, immaginiamo, quello di «cibo gustoso» in quanto il padrone lo compensa con un pezzo di carne. Certo non si adatta alla pedagogia. Se ve la si forza, essa dimentica completamente l’io come essenza dell’uomo e il linguaggio come premessa dell’istruzione, e si perde in elucubrazioni per cui l’educatore deve osservare attentamente la presunta mobilità animale del bambino per trovarle un significato sociale, così da indirizzarlo alla cellula giusta dell’organismo società, con soddisfazione di tutti. Il disprezzo di Dewey per l’individualità non è restato latente; il suo credo pedagogico è risultato gradito quasi a tutti i totalitarismi del Novecento: negli anni ’20 Lunačarskij diffuse la scuola attiva in Unione Sovietica; negli anni ’30 il fascismo emarginò Gentile e si aprì al pragmatismo; perfino il tiranno più atroce, Mao, ebbe un’infatuazione per Dewey[26].

Trasformato il bambino in animale, si possono agevolmente trascurare le soluzioni di continuità che segnano lo sviluppo umano, il miracolo del linguaggio e il miracolo dell’io. La scuola di Dewey si affida così alla gradualità educativa[27] con l’intento di generalizzare il piacevole apprendimento imitativo domestico all’apprendimento scolastico apparentemente sperimentale e di escludere dalla scuola l’istruzione e la sua necessaria disciplina: «Violiamo la natura del fanciullo […] introducendolo troppo bruscamente a una quantità di studi speciali, come il leggere, lo scrivere, la geografia e altri […]»[28]. Il sogno di scivolare direttamente dal piacere imitativo all’apprendimento da esperienza edulcorata senza passare per le spine dell’istruzione, si ripercuote nel rifiuto del carattere preparatorio dell’infanzia. Accusando la scuola tradizionale, che vuole insegnare a leggere, a scrivere e a contare, di sacrificare il presente del bambino all’utilità futura, Dewey raccomanda alla scuola progressiva di fare dell’educazione «un processo di vita e non una preparazione a un vivere futuro»[29], vale a dire un’esperienza solo piacevole – come se nella vita non ci fossero anche la fatica e il dolore. Ma l’accusa alla scuola che insegna a leggere, a scrivere, a far di conto, è infondata; infatti trascura che il bambino non è solo un animale in rapporto fisico con l’ambiente, ma è anche immaginazione, e può appassionarsi alla lettura dei libri non meno che a qualunque altra attività. E la raccomandazione è evidentemente assurda, perché nell’uomo, e perfino in molti animali, il prepararsi al futuro, la previdenza, non è mai in antitesi alla vita presente, ma ne è parte essenziale.

All’insegnante resta pochissimo da fare. Dewey lo trasforma nel gouverneur fantasticato da Rousseau. Ignorando, sulla base del principio di gradualità, quanto sia necessario il salto all’istruzione; ignorando, sulla base della scuola come vita, che l’istruzione consiste proprio nell’offrire al bambino conoscenze e abilità universali, quindi astratte, che mai il bambino vorrebbe e potrebbe prendere da solo, Dewey sostiene che «l’insegnante non è nella scuola per imporre certe idee al fanciullo o per formare in lui certi abiti, ma è lì come membro della comunità per selezionare le influenze che agiranno sul fanciullo e per assisterlo convenientemente a reagire a queste influenze»[30]. Né gli è consentito imporre la disciplina, che invece «deve derivare dalla vita della scuola intesa come un tutto». Che il tutto scolastico sia giudice migliore dell’insegnante presuppone la fede nella bontà naturale dei fanciulli che lo compongono, cioè dall’incomprensione della natura duplice dell’innocenza già risultata fatale a Rousseau. Di fatto, dove il progressivismo di Dewey è stato attuato con più coerenza, non si è fatta valere l’ipotetica bontà naturale, ma il lato sgradevole dell’innocenza, e gli istituti scolastici sono diventati aree selvagge, pericolose per gli alunni e per gli insegnanti. Meno che mai Dewey consente all’insegnante di valutare le prestazioni effettive degli alunni: «Gli esami servono solo se vagliano l’attitudine del fanciullo alla vita sociale e rivelano il posto nel quale può essere massimamente utile e nel quale può ricevere il maggiore aiuto». L’ossessione ideologica di non lasciare nulla intatto spinge il pedagogista ad anticipare di un secolo l’attuale prosa ministeriale e a formulare proposizioni tanto vaghe quanto spaventose; infatti l’attitudine alla vita sociale può anche significare conformismo, l’utilità è la riduzione a strumento del fanciullo e il bisogno di aiuto contrasta con il fine della libertà dell’io.

Dopo aver fatto dell’insegnante un occulto organizzatore di ambienti di apprendimento, dopo averlo cioè umiliato a un ruolo marginale, Dewey prende improvvisamente a esaltarlo nel finale del Credo: «L’insegnante è impegnato non solo nell’educazione degli individui, ma nella formazione della corretta vita sociale. Ogni insegnante deve rendersi conto della dignità della sua vocazione. Egli è un uomo al servizio della società, preposto a mantenere il corretto ordine sociale e ad assicurare il giusto sviluppo sociale. In tal modo l’insegnante è sempre il profeta del Dio vero e l’inauguratore del vero regno di Dio»[31]. Dewey compensa l’umiliazione didattica dell’insegnante con la sua esaltazione politica, facendone un manipolatore delle coscienza, com’è accaduto nelle scuole dei regimi totalitari. La scuola che non insegna educa, vale a dire si dà alla propaganda ideologica. Quale sia l’ideologia a cui la vota, Dewey lo esprime apertamente. Egli vorrebbe riconciliare l’individuo con la società; ma a causa della sua allergia all’io e alle discontinuità in generale, la riconciliazione è piuttosto un sacrificio dell’individuo al collettivo. La sua concezione – scrive – «ha il dovuto riguardo sia per gli ideali individualisti sia per quelli socialisti.[32] Essa è debitamente individuale perché riconosce la formazione di un certo carattere come la sola base genuina del retto vivere. È socialista perché riconosce che questo retto carattere non si può formare con precetti, esempi ed esortazioni soltanto individuali, ma piuttosto con l’influenza di una certa forma di vita istituzionale o comunitaria sull’individuo, e che l’organismo sociale può determinare risultati etici attraverso la scuola come suo organo»[33]. Ma è immediatamente evidente che formare un certo carattere ai fini del retto vivere, anche quando si voglia tacere per imbarazzo l’aggettivo «sociale», è l’esatto contrario dell’individualismo. Per dare soddisfazione all’individuo, sarebbe stato necessario, non volerlo formare, che equivale a negarlo, ma lasciarlo fare e consentirgli tutto ciò che non sia espressamente proibito dalla legge, per quanto meschino ed egoistico possa sembrare dal punto di vista del retto vivere. Ma Dewey ha appena avuto parole di disprezzo per il vero presidio dell’individuo, ossia  la legge e il diritto[34], così la sua deriva verso un socialismo monolitico e pervasivo è inarrestabile: a quanto si legge, egli pensa il socialismo come l’autorizzazione dell’organismo sociale a influenzare gli individui in forma occulta evitando il linguaggio aperto, e a farlo attraverso la scuola, usando cioè l’insegnante come manipolatore per «plasmare […] le capacità umane e […] adattarle a beneficio [non degli uomini, certo, ma] della società».

La pedagogia di Dewey, tecnicamente così spericolata, può essere compresa solo in quanto compromessa dal settarismo politico, come frutto dell’ansia ugualitaria. Il mondo infantile è ingenuo, i bambini sembrano uguali e sono ancora lontani dalle vertiginose differenze che si sviluppano tra gli adulti. Nella scuola Dewey vede dunque confrontarsi il principio di uguaglianza infantile e il principio di differenza del mondo adulto rappresentato dall’insegnante[35]. La scelta tra scuola puerocentrica e scuola tradizionale è per lui non una scelta tecnica che risponde al criterio dell’efficacia dell’insegnamento, ma una decisione politica categorica tra uguaglianza e differenza: nella sua ottica, la scuola tradizionale, che ha nell’insegnante e nelle discipline il suo centro, non può che contaminare l’ugualitarismo infantile con la differenza propria del mondo degli adulti di cui l’insegnante e le discipline sono parte; invece quella puerocentrica, proprio perché considera il bambino un essere in atto, anziché un essere in potenza, può irraggiare l’uguaglianza infantile sul mondo adulto. Presa nella morsa del puerocentrismo, la valorizzazione delle materie disciplinari, con cui Dewey vorrebbe distinguersi dalle versioni solo polemiche della pedagogia progressiva, è subito vanificata: anche per lui l’alunno non deve sollevarsi all’altezza della materia disciplinare, ma è il docente che deve umiliarla fino al punto in cui la sua compattezza teorica, vale a dire il discorso dimostrativo, universale e necessario, verso il quale la scuola deve dare la spinta, si sfalda volatilizzandosi in un ambiente d’apprendimento contiguo all’esperienza quotidiana dell’alunno: «Il vero centro di correlazione tra le materie scolastiche […] sono le attività sociali del fanciullo stesso»[36].

La passione ugualitaria imprigiona Dewey nella pedagogia progressiva da cui vorrebbe distinguersi. Gli manca la lucidità con cui Gramsci seppe riconoscere, nei suoi momenti migliori, che la pedagogia progressiva non può in ogni caso favorire l’uguaglianza sociale: «Al proletariato è necessaria una scuola disinteressata. […] Una scuola umanistica, insomma, come la intendevano gli antichi e i più recenti uomini del Rinascimento»[37]; invece «nella scuola attuale, per la crisi profonda della tradizione culturale e della concezione della vita e dell’uomo, si verifica un processo di progressiva degenerazione: le scuole di tipo professionale, cioè preoccupate di soddisfare interessi pratici immediati, prendono il sopravvento sulla scuola formativa, immediatamente disinteressata. L’aspetto più paradossale è che questo nuovo tipo di scuola appare e viene predicata come democratica, mentre essa non solo è destinata a perpetuare le differenze sociali, ma a cristallizzarle in forme cinesi»[38]. Come Hirsch non si è stancato di ripetere nel suo testo ormai classico sulla scuola americana[39], un insegnamento scolastico privo di insegnamento diretto e di conoscenza teorica approfondisce la distanza tra i figli dei ricchi, che comunque li ricevono in famiglia, e i figli dei poveri, che potrebbero riceverli solo a scuola. A Dewey la scuola tradizionale appare invece mortificante, lo studio degli alunni non anche attivo ma soltanto passivo, il silenzio in classe, anziché requisito per la concentrazione, effetto dell’autoritarismo, l’ordine immoto dei banchi, anziché funzionale al moto delicato dell’occhio che legge e della mano che scrive, una camicia di forza. Ma la sua scuola, che si tiene nella comoda orbita dell’esperienza del bambino e procrastina il salto verso la scrittura e la teoresi, nell’inseguire l’intento ugualitario, ha effetti paradossalmente discriminatori proprio sul piano dell’uguaglianza sociale entro la società effettiva. Il pedagogista non ha compreso, come Gramsci, che «anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza»[40].

Altrettanto insostenibile è l’identità che Dewey stabilisce tra scuola tradizionale e ingiustizia sociale. È un sottile odio di classe, e non una considerazione spassionata, che lo spinge a condannare la didattica tradizionale: «La base del sistema educativo tradizionale è una società di classe; la possibilità dell’istruzione in certe materie, specialmente in quelle letterarie e nelle matematiche […], era riservata ai nobili e ai ricchi. A causa di ciò la conoscenza di queste materie divenne un’insegna di superiorità culturale e di dignità sociale. Per molti il possesso di questa conoscenza fu un mezzo di sfoggio, quasi di esibizionismo»[41]. Imprigionato nel famigerato «Discorso sulle scienze e sulle arti» di Rousseau, Dewey insinua che l’abuso classista della cultura ne invalidi l’essenza e ne renda auspicabile il rifiuto. Non vede che la scuola pubblica tradizionale, pur avendo per base una società di classe, ha l’espresso obiettivo di generalizzare «l’istruzione in certe materie» così da purificarle dal loro odioso connotato di privilegio e da elevare tutti, in particolare i capaci e i meritevoli qualunque sia la loro classe di origine, al mondo delle idee. Che l’educazione superiore fosse appannaggio di pochissimi, che la maggior parte degli alunni abbandonasse la scuola alla licenza elementare o prima, doveva indurlo non a volerla smantellare, ma a chiedere più mezzi per la scuola tradizionale, affinché sapesse valorizzare le capacità di ognuno e facesse di tutto per non escludere nessuno dal percorso. Alla scuola tradizionale non è affatto essenziale l’esclusivismo; lo può evitare senza essere disfatta, essendo anzi resa più fedele alla sua vocazione. Ma Dewey sogna l’organicità socialista. Così insinua falsamente che «nella maggior parte degli esseri umani il puro e semplice interesse intellettuale non è quello che domina»[42], ignorando che l’interesse intellettuale nasce dall’universalità dei nomi, a cui ogni essere umano, in quanto parlante, ha accesso, e che tutti, i bambini per primi, liberi dalle necessità, vogliono capire ciò di cui fanno esperienza. Dalla falsa insinuazione Dewey conclude rovinosamente che per combattere l’esclusività della scuola occorre distruggere la sua specificità, introducendo «nei processi educativi le attività che si indirizzano a coloro in cui predomina l’interesse per il fare e per il costruire»[43]. Condannando il nobile intento della scuola tradizionale di elevare tutti alla conoscenza disinteressata, Dewey dà al suo ugualitarismo i caratteri sgradevoli dell’invidia, e si fa paladino del pauperismo didattico: la rinuncia della scuola a insegnare cultura e scienza, perché solo l’ignoranza è compatibile con l’uguaglianza assoluta.

Solo perché è pungolato dallo sperone dell’odio di classe, Dewey, con un completo rovesciamento della realtà, taccia di egoismo, che è sinonimo di atteggiamento interessato, la conoscenza disinteressata: «La mera ingestione di fatti e di verità è un affare così esclusivamente individuale, che tende in modo molto naturale a diventare egoismo. Non c’è motivo sociale evidente nell’acquisto del puro sapere, non c’è chiaro beneficio sociale nel procurarselo»[44]. Ma è evidente il contrario: che ogni scelta razionale, individuale o politica, presuppone sia l’«ingestione» di fatti e di verità, vale a dire il dovere di documentarsi, sia il sapere puro, vale a dire la disciplina metodica che consente di elaborarli in modo imparziale. Disprezzando i fatti e il sapere puro, il pragmatismo si affida all’entusiasmo volontaristico, fiducioso che ai sognatori del socialismo tutto sarà dato nel sonno. Ma gli esperimenti non illuminati falliscono immancabilmente dopo aver ridotto a cavie interi popoli, e provocano le grandi catastrofi di cui il Novecento è stato testimone.

  • Società organica e pedagogia totalizzante in Dewey.

Nella prima delle tre conferenze tenute nel 1899 da Dewey a Chicago sulle sue esperienze nella scuola annessa all’università emerge come la sua rappresentazione della società oscilli tra la realtà e l’utopia[45]. Di solito, dichiara all’inizio, ci interessiamo alle esperienze e ai progressi scolastici dei nostri figli; ma «quello che il singolo desidera per suo figlio, la comunità lo deve desiderare per tutti i suoi ragazzi». La frase ha un’apparenza di ovvietà, ma una semplice riflessione mostra il suo rapporto difficile con l’idea di Stato. Anzitutto non il singolo, ma una ben precisa comunità, cioè la famiglia, si preoccupa dell’istruzione scolastica dei figli. Che poi «la comunità» debba desiderare per i «suoi ragazzi» ciò che la famiglia desidera per i suoi figli, assimila implicitamente la comunità a una grande famiglia, fa cioè l’assunzione problematica che la solidarietà familiare sia il modello dell’azione sociale. Nella realtà, però, famiglia e comunità non hanno il rapporto quantitativo di maggiore e minore, sono forme etiche opposte. La famiglia è la comunità unita dall’intimità sentimentale tra membri naturalmente complementari (maschio/femmina, bambino/adulto), e chiusa verso l’esterno. La porta di casa con la serratura testimonia che la sua unione è, nel contempo, esclusiva, dunque principio di atomizzazione esterna: le molte famiglie sono tutt’altro che una grande famiglia. Può dunque essere certo una buona intenzione chiedere, come fa Dewey, che tra i membri della comunità ci sia solidarietà come tra i membri della famiglia; ma è una buona intenzione senza base etica, perché la comunità, in ogni caso, non è composta di membri naturalmente complementari, ma di persone indipendenti, e l’indipendenza della persona non è un valore sacrificabile più di quanto lo sia la solidarietà.

La comunità effettiva è il mondo del lavoro e dello scambio mercantile per la soddisfazione dei bisogni, che Hegel ha chiamato società civile. Atomizzata in persone e nelle loro classi con interessi particolari in competizione, essa è tenuta parzialmente insieme dal fatto che entro il quadro del mercato i propri interessi particolari possono essere soddisfatti solo se si conoscono e si soddisfano gli altrui interessi particolari. Anziché solidale, la società effettiva è dunque unita solo esternamente e a volte contro le intenzioni immediate delle persone. D’altro canto l’estraniarsi dell’unità familiare nell’atomismo della società civile non va inteso come se l’indipendenza tra gli individui e la differenza tra le classi fossero necessariamente un conflitto violento, un male a cui dover rimediare con un’ultima violenza definitiva[46]. Le classi non sono caste chiuse e si conciliano con il principio di uguaglianza della persona in quanto consentono la mobilità sociale in base al merito degli individui. La società civile articolata in classi sociali aperte sulla base del merito consente quell’indipendenza della persona che, come non solo il concetto ma anche la storia del Novecento mostrano, è necessaria allo sviluppo della libertà nello Stato autentico. Solo in quanto la differenziazione propria della società civile, nell’essere ricondotta alla solidarietà dallo Stato, è anche conservata, la solidarietà dello Stato è pubblica, non ha cioè natura sentimentale come nella famiglia, non riguarda individui parziali e complementari, ma ha natura giuridica, conserva il momento della libera personalità degli individui senza immergerli nella notte indistinta dell’organicità totalitaria.

Esigendo una società che deve essere una grande famiglia e preoccuparsi dei suoi ragazzi come la famiglia si preoccupa dei suoi figli, Dewey non può distinguere tra l’unità sentimentale della famiglia, l’atomismo della società civile e l’unità giuridica dello Stato. Egli confonde le tre sfere, senza la cui differenziazione non si dà libertà, in un’unità informe, in una società indeterminata che è direttamente anche famiglia e Stato, e nella quale l’indipendenza della persona è condannata come egoismo[47]. Ed essendo strumento per realizzare l’utopia della società indeterminata, la sua stessa pedagogia perde ogni distinzione interna. Ma la pedagogia è divisa in quattro parti, tutte ugualmente indispensabili, nondimeno da tenere ben distinte se si ha a cuore la libertà:

1) l’allevamento – la salute fisica dei bambini, la cui cura spetta ai familiari: genitori, nonni, fratelli;

2) l’educazione in senso stretto (non nel significato anglosassone che tende a coprire tutte le competenze della pedagogia) – la liberazione del bambino dalla sua istintività e il suo elevarsi a io in grado di riconoscersi nella libertà esistente. Essa rientra nell’ambito etico, ha forma dapprima implicita, dunque dogmatica, nasce cioè dall’imitazione dell’esempio offerto dagli adulti e dalla loro autorità personale, e spetta soprattutto ai genitori;

3) l’addestramento l’imparare un mestiere o una professione utile alla società, così da diventare produttore e poter partecipare al sistema economico. Nelle società pre-industriali il mestiere non presupponeva una preparazione teorica; era sufficiente il sapere empirico, così l’addestramento avveniva in famiglia o sul luogo di lavoro; da tempo il sapere teorico, già la semplice alfabetizzazione, è un presupposto di ogni mestiere e professione; l’addestramento è dunque associato all’istruzione ed è dato nelle scuole tecnico-professionali e, nei suoi gradi superiori, nelle università.

4) l’istruzione essendo libero (a differenza degli animali con cui condivide almeno le tracce delle precedenti forme pedagogiche), l’uomo lascia libero l’oggetto, che così gli diventa estraneo, ma poi si sforza di conoscerlo, e infine vi si riconosce e gode della corrispondenza tra la sua libertà e quella dell’oggetto, vale a dire della verità. La conoscenza oggettiva e il relativo godimento costituiscono la teoresi, che per la sua libertà è fine a sé stessa, non alla produzione e al consumo come l’addestramento, e per la sua oggettività è universale, dimostrativa, non dogmatica come l’educazione. Legata, per la sua universalità, al segno e alla scrittura, la teoresi è il compito proprio della scuola. Questa non ha dunque un fine diretto di igiene, di educazione etica o di utilità materiale, ha il compito di elevare la gioventù dalla particolarità della loro esperienza all’universalità dell’arte e della scienza e quello complementare di assicurare a queste la conservazione e il rinnovamento – in termini negativi, il compito di impedire la barbarie. Solo mettendosi al servizio della cultura, la scuola può essere anche utile; la cultura è infatti anche l’imparzialità dello spirito conoscitivo, la forza di accettare le antitesi, che consente l’azione razionale. – Su questo punto la Costituzione italiana è limpida: l’insegnamento è connesso non al miglioramento sociale o individuale, ma all’arte e alla scienza libere, e su tale base gli è garantita la stessa loro libertà.

Sulla scia della pedagogia progressiva, Dewey ignora queste differenze, priva la scuola del compito di elevare i discenti alla teoresi e la limita alla socializzazione e all’attività pratica, dunque all’educazione inconsapevole[48]. La conseguenza della sua indistinzione è duplice. Anzitutto la scuola che si modella sulla famiglia e sul lavoro, la scuola educativa, usurpa le competenze della famiglia, che deve dunque subire l’intrusione della scuola e dello Stato nell’allevamento e nell’educazione dei figli, come era previsto nella teoria politica platonica ed è accaduto nei regimi totalitari; in questo senso, nell’Introduzione Lamberto Borghi arriva a parlare di «emotività disturbante… della famiglia»[49]. Inoltre, la scuola educativa, neldisattendere la cultura e nello squalificare le pratiche didattiche legate ai segni e alla civiltà rinuncia all’oggettività scientifica e all’equidistanza tra i partiti opposti. La sua esigenza di radicale rinnovamento produce una confusione babelica degli ambiti per cui la scuola diventa un’istituzione totale votata all’indottrinamento.

  • L’equivoco di Dewey sulla scienza moderna e l’esclusivismo empiristico.

Sempre nella conferenza citata, Dewey osserva che la società ha vissuto una grande trasformazione: «Il cambiamento […] che eclissa […] tutti gli altri, è quello industriale – l’applicazione della scienza che ha dato luogo a grandi invenzioni[50], in grado di utilizzare le forze della natura su scala vasta ed economica: il sorgere di un mercato mondiale come sbocco della produzione, di vasti centri manufatturieri per approvvigionare questo mercato, di mezzi di comunicazione e di distribuzione economici e rapidi fra tutte queste parti»[51]. Dewey dichiara esplicitamente che l’applicazione della scienza dà luogo al progresso tecnico che anima l’industrializzazione; poiché concepisce però la scienza in modo inadeguato, da questa sua dichiarazione trae prescrizioni didattiche rovinose.

La scienza che alimenta il progresso tecnico e rafforza il dominio dell’uomo sulla natura, nasce non dall’empirismo di Bacone, ma dal metodo delle sensate esperienza e delle certe dimostrazioni di Galilei. Essa è una scienza matematizzata. Pur suscettibile di applicazione empirica come ogni scienza, la matematica non è una descrizione empirica, ma una disciplina ipotetico-deduttiva, che, con più insistenza di altre scienze, esige un contegno puramente teoretico, vale a dire l’amore per la conoscenza, lo sforzo intellettuale disinteressato, quello che secondo Aristotele nasce dalla meraviglia per l’inaspettato ed è diretto soltanto a capire. È l’evidente natura ipotetico-deduttiva della matematica, la sua capacità di dimostrare le conoscenze e non soltanto di usarle, ad aver imposto a Platone la teoria delle idee e a Kant l’idea della conoscenza universale e necessaria.

Il riconoscimento del ruolo primario della scienza della natura nell’impetuoso progresso industriale doveva indurre Dewey a riconoscere l’importanza del pensiero puro e a superare l’angustia empirista o pragmatista. Sebbene la grande filosofia ellenica abbia concepito la teoresi solo come σχολή, otium, vita autosufficiente e felice sottratta all’impegno pubblico, infine la rivoluzione industriale ha mostrato che la ricerca disinteressata della verità è anche la base indispensabile del progresso tecnico e dell’incremento della produttività; che la teoresi è non solo l’attività fine a sé stessa della vita felice, quale la considerarono gli antichi, non solo ha la massima utilità, quella della libertà di spirito, ma è anche .necessaria al progresso materiale. Né poteva essere diversamente: solo il contegno teoretico ha la libertà di rinunciare all’interesse particolare e alle rigidezze e alle illusioni che ogni particolarità implica, per lasciare all’oggetto la sua libertà, per conoscerlo come tale.

La conseguenza didattica di questo fatto è che la scuola occidentale, basata sulla grammatica e sulla matematica, esce confermata, non smentita, dalla scoperta dell’importanza materiale della scienza. Proprio perché immerge i discenti nelle più sottili distinzioni logiche delle lingue classiche e della matematica assiomatizzata da Euclide, proprio perché li allontana dall’esperienza e dall’utilità immediata, la scuola occidentale è in grado di offrire la base universale per le indagini sofisticate in cui si impegnano la scienza e la tecnica[52]. Nella precedenza storica dell’umanesimo sulla rivoluzione scientifica è racchiuso un sillogismo: la scuola della disciplina logico-grammaticale e della matematica euclidea, essendo fondamento immediato della scienza, è fondamento mediato del progresso tecnico e industriale che la scienza consente. La scuola che impegna i suoi discenti nelle discipline logico-grammaticali e nelle matematiche, apparentemente astratte e artificiali, proprio per questo li sa formare al valore dell’oggettività, proprio per questo forgia, non soltanto retori, come stupidamente le si rinfaccia, ma filosofi, matematici, scienziati e ingegneri.

Dewey non comprende tutto ciò. Così, mentre i sostenitori dell’importanza scientifica dell’a priori non hanno mai avuto difficoltà a riconoscere l’importanza dell’a posteriori, egli si è perso nella velleità di derivare la scienza teorica dall’esperienza quotidiana. Per questo scrive che «nella storia delle razze le scienze sono nate gradualmente dalle occupazioni utili»[53], laddove una minima informazione storica attesta proprio il contrario, che le scienze non sono nate gradualmente, non sono nate in tutte le razze, ma solo in quella ellenica, e non sono nate dalle occupazioni utili, ma dalla logica e dalla matematica coltivate per sé e poi applicate all’esperienza. La matematica lo mette in grave imbarazzo: «La matematica è ora [!] una scienza molto astratta. Geometria, però, significa letteralmente misurazione della terra»[54]. Dewey ignora che la matematica è «molto astratta» non da ora, ma dalla sua nascita al tempo dei greci, quando è uscita dalla sua preistoria empirica e ha iniziato a essere dimostrativa, senza nondimeno perdere la sua utilità pratica, anzi accrescendola in misura infinita, come dimostrò la scienza ellenistica. Anziché concepire la sostanza teoretica della scuola dell’occidente come la causa ultima del successo tecnico, Dewey la ritiene, senza alcuna ragione e con toni quasi diffamatori, estranea all’industrializzazione, una landa infestata di inutile verbalismo, che occorre bonificare e mettere a coltura. All’istruzione scolastica basata sugli studi classici e sulla matematica è negato il merito di essere artefice della rivoluzione tecnica; essa è condannata come un’istituzione estranea alla vita, da adeguare al mondo nuovo che l’avrebbe resa obsoleta: «È inconcepibile che questa rivoluzione [tecnica] non debba influire sull’educazione in modo non soltanto formale e superficiale»[55]. L’errore diagnostico di trascurare la parte che la teoresi pura ha nel progresso tecnico, porta con sé l’errore terapeutico di voler distruggere la scuola occidentale per sostituirla con una triste parodia.

Prosegue infatti Dewey: «Il sistema di fabbrica è stato preceduto dall’organizzazione familiare e di vicinato»; nel mondo pre-industriale «la famiglia era praticamente il centro intorno a cui confluivano e intorno al quale si raccoglievano tutte le forme tipiche di attività industriale»[56]. Nell’espressione trascritta in corsivo c’è un equivoco che consente il non sequitur alla radice di ogni pedagogia progressiva: l’espressione «tutte le forme tipiche di attività industriale» può indicare 1) tutte le forme tipiche della produzione familiare; ma può anche indicare 2) tutte le forme tipiche della produzione industriale in generale, non solo quelle familiari, ma anche quelle dell’industria moderna. Dewey dovrebbe escludere questo secondo senso, anzitutto perché contrasta con quanto ha scritto in precedenza: che tutte le attività industriali fossero già praticate nelle famiglie pre-industriali, contraddice che l’industrializzazione sia stata una svolta nella civiltà umana; poi perché è falso in sé stesso: i villaggi contadini disponevano di un esiguo sapere empirico e ignoravano la teoria meccanica, chimica, elettromagnetica, atomica, informatica, quindi nel mondo pre-industriale erano del tutto assenti i relativi settori industriali. Ma Dewey non è molto accurato nella determinatezza dei concetti, la sua coerenza logica non sa resistere alla sua intenzionalità ideologica; perciò intende la sua espressione nel secondo senso: egli sostiene che l’organizzazione familiare e di vicinato praticava tutte le forme di attività industriale in generale.

Da questa incoerenza segue la catastrofe della sua pedagogia: poiché considera la teoresi un ozioso ornamento dei ricchi e dei nobili, egli attribuisce i presupposti cognitivi e sociali della produzione industriale al sapere empirico della famiglia contadina e artigiana e del suo vicinato. Ne segue che per lui la propedeutica scolastica alla grande industria non è data dall’istruzione classica, base di ogni raffinamento teorico, ma deve essere fornita da un ritorno al clima morale e al sapere empirico della civiltà pre-industriale. È il contadino di Emerson, non il selvaggio di Rousseau, il modello della pedagogia di Dewey. Se la scienza nasce dall’empirismo familiare e di vicinato, l’umiliazione della teoria e dell’insegnante a scuola e la riesumazione delle attività «concrete» dissimulano la loro essenza nostalgica e possono essere spacciate come adeguamento dell’istruzione al mondo industriale: se nel villaggio pre-industriale si produceva non tutto ciò di cui si aveva bisogno e che era possibile produrre con i mezzi del tempo, ma tutto ciò che l’industria in generale produce, allora non occorre estendere e intensificare l’istruzione teorica nelle scuole, al contrario, basta ricrearvi il villaggio tradizionale per adeguare i bambini e i giovani al mondo nuovo.

Benché assuma volentieri un linguaggio scientista, il cuore del progressismo pedagogico è dunque, come ha mostrato Hirsch, romantico-reazionario. Scrivendo: «Le lezioni oggettive impartite come lezioni oggettive… non potranno sostituire, neppur da lontano, le conoscenze sulle piante e sugli animali dell’orto o del giardino che si ottengono effettivamente fra essi, accudendo ad essi»[57], Dewey echeggia l’encomio della cultura analfabeta di Emerson: «Siamo rinchiusi nelle scuole e nelle aule di recitazione dei college per dieci o quindici anni, ne usciamo infine con una scorpacciata di parole e non conosciamo una cosa reale… La fattoria, la fattoria è la scuola giusta. La ragione del mio profondo rispetto per il contadino è che lui è un realista, non un dizionario»[58]. Poi però Dewey va oltre il romanticismo nostalgico; attribuendo una falsa origine al mondo industriale intende non fuggirlo, ma mutarne la natura, correggerne l’individualismo. Poiché si illude che la teoria scientifica derivi dal comunitarismo della famiglia e del vicinato, egli trasforma il ranocchio della vita contadina nel principe di una propedeutica educativa in grado di umanizzare il mondo industriale, una via pedagogica al socialismo. E per meglio accreditare la prima magia, con una seconda magia rende sterile la fatica scolastica sui segni e sulle discipline teoriche: «La memoria verbale può essere addestrata mediante compiti assegnati, una certa disciplina dei poteri raziocinativi può essere conseguita con lezioni di scienza e matematica; ma alla fin fine, tutto questo è alcunché di remoto, un’ombra, se lo si paragona con l’educazione dell’attenzione e del giudizio che si acquista col fare qualcosa di effettivo per un motivo reale e per una reale finalità da raggiungere»[59] – come se proprio questo intreccio con la realtà, ossia con fini particolari, non disturbasse la conoscenza oggettiva e non dovesse essere sciolto dalla facoltà d’astrazione. Infine, per intimidire i dubbiosi, accusa di asocialità la didattica orientata alla teoresi estendendo alla totalità dei suoi momenti ciò che è caratteristico delle sole verifiche sommative; di qui la calunnia che nella scuola tradizionale la competizione «domina talmente che l’aiutare un compagno nel suo compito diventa un delitto scolastico»[60]. Invece, «dove fa capolino il lavoro attivo, tutto questo cambia»[61]. Sedotto dal principio rousseauiano della bontà naturale dell’uomo, Dewey attribuisce agli alunni «l’interesse per la conversazione o la comunicazione; per l’indagine o la scoperta delle cose; e per l’espressione artistica»[62], e dimentica, come il suo maestro, che gli alunni sono animati anche dall’impulso a offendere, da quello a distruggere e da quello a vandalizzare. È per questa dimenticanza che le scuole anglosassoni votate all’attivismo non soltanto non riescono a insegnare nulla ai loro alunni, ma ne mettono a continuo repentaglio l’integrità fisica.

La fiducia di Dewey nella fecondità pedagogica dell’attività concreta con un fine reale, di cui l’alunno è protagonista, quella che il suo allievo Kilpatrick chiamò «progetto», ha origine nel naturalismo pedagogico. Questa concezione nasce dall’illusione di poter dissolvere la specificità dell’apprendimento secondario dominato dal linguaggio nell’apprendimento primario dominato dall’imitazione, vale a dire dall’illusione di poter generalizzare l’apprendimento imitativo del movimento e del linguaggio orale a ogni successivo apprendimento. L’errore inizia dall’osservare correttamente che i bambini imparano a muoversi e a parlare non attraverso lezioni ed esercitazioni di ginnastica e di grammatica, ma per intima motivazione, con piacere e imitando gli adulti; dall’osservazione iniziale trae la conclusione del tutto ingiustificata che ogni apprendimento, se vuole essere effettivo, deve essere un piacevole apprendimento spontaneo. Per quanto sia un sogno romantico che sorride al cuore di tutti, questa concezione è evidentemente infondata: la generalizzazione del modo di apprendimento del movimento e del linguaggio agli altri apprendimenti è scorretta e inopportuna. Tutti imparano a muoversi e a parlare senza fatica e per imitazione spontanea degli adulti. Ma l’imitazione facile e spontanea, sufficiente ad apprendere il movimento e il linguaggio, è un’abilità segnata da un rapido decadimento: mentre il bambino può apprendere senza fatica e perfettamente due lingue insieme, apprendere una nuova lingua da adulti significa apprenderla con un accento estraneo e comporta difficoltà. Né l’imitazione facile e spontanea vale per l’apprendimento di tutte le altre abilità umane; queste, infatti, hanno sempre a che fare non con il corpo umano, ma con oggetti artificiali esterni, con strumenti determinati – perfino la geometria euclidea risulta dalla riga e dal compasso. In particolare, la padronanza delle lettere e dei numeri, che è il fine elementare dell’insegnamento scolastico, è un’abilità che, per il carattere evidentemente artificiale del suo oggetto, ha bisogno di una precisa didattica (oggi in via di estinzione) e non può essere sviluppata da nessuna occupazione concreta. Infatti non c’è nessun momento nello sviluppo naturale umano in cui si inizi spontaneamente a scrivere e a calcolare, così che sia sufficiente fornire un ambiente favorevole e qualche imbeccata perché spuntino dalla mente la letteratura e la matematica. Delirare che quel momento esista implica un rifiuto rousseauiano dell’artificialità dell’uomo, significa dimenticare che l’artificialità è una manifestazione della sua libertà, dunque un privilegio. Attendere quel momento comporta necessariamente il ritardo indefinito dell’alfabetizzazione e la rinuncia al contegno teoretico – e questa animalizzazione è il risultato effettivo della scuola progressiva.

L’uomo non solo sa gettare becchime alle galline e raccogliere uova, sa anche capire un teorema matematico, è non solo riferimento all’empirico e all’utile, è anche bisogno di conoscenze universali in forma universale, è anche bisogno di essere convinto con la dimostrazione. L’universalità non è un oggetto materiale che possa essere indicato con un’immagine, ma è la regolarità nella vicenda degli oggetti materiali, che può essere indicata solo dai segni e può essere dimostrata solo dalle loro connessioni. Trattare l’esigenza di universalità e necessità come remota e come ombra equivale a concepire l’uomo come il bruco che restringe il suo intero mondo alla foglia su cui è posato e che divora. Il contegno teoretico, per quanto esista in una forma che all’evidenza sensibile appare un’ombra remota[63], dà la ricompensa più preziosa, permette cioè di capire la realtà, di muoversi in essa sentendola familiare, in una parola, di essere al tempo stesso oggettivi e liberi.

In definitiva, Dewey riconosce che «nelle attuali condizioni qualsiasi attività, per avere successo, deve essere diretta […] da chi è esperto di scienza»[64]; poi però rovina tutto, immaginando che sia il lavoro manuale a offrire l’occasione di diventare esperti di scienza, a conferire l’abito scientifico come strumento di partecipazione alla società moderna, a eliminare gran parte del disagio del lavoro industriale e a guarire i malanni sociali[65]. Dopo aver constatato che l’industria ha fatto scomparire «le occupazioni che si svolgevano nell’ambito della casa e del vicinato»[66], dopo aver mostrato rassegnazione all’estinguersi di quel mondo e apertura al mondo nuovo, Dewey ha ceduto al romanticismo, si è afferrato al ricordo del mondo pre-industriale, e ha sognato una scuola che, nel ricreare il villaggio rurale, facesse miracoli teorici con la bacchetta magica dell’occupazione concreta. Egli si chiede: «Come possiamo trarre profitto da questi benefici [quelli dell’industrializzazione], e pure introdurre nella scuola qualche cosa che rappresenta l’altro aspetto della vita – occupazioni che esigono precise responsabilità personali e mettono il ragazzo a contatto con le realtà fisiche della vita?»[67] È evidente però che la famiglia e il vicinato pre-industriali e il loro empirismo non rappresentano affatto «l’altro aspetto della vita», ma sono una forma di civiltà estinta, che appare idilliaca soltanto alla nostalgia di chi vi ha trascorso la giovinezza.

Poiché ignorano la congiunzione di naturalismo e utopia in Rousseau, in Dewey e nei loro seguaci, alcuni tendono ad attribuire il disastro delle riforme progressive della scuola alla mentalità imprenditoriale. In effetti, questa chiede una scuola pragmatica, finalizzata solo all’addestramento dei lavoratori; dunque sembra essere all’origine delle riforme che escludono la teoresi dalla scuola e cercano di ridurla a formazione professionale. Tuttavia, nella civiltà industriale il lavoro ha assunto forma tecnologica, presuppone dunque la conoscenza scientifica; se la teoresi vi appare fine a sé stessa come nel mondo greco, nondimeno vi è condizione necessaria di sviluppo economico. Ne segue che la mentalità imprenditoriale, se può aver favorito con una certa sua miopia lo scempio della scuola come pure il disinteresse per la ricerca di base, se negli Stati Uniti può aver reagito al degrado dell’istruzione limitandosi a importare le intelligenze che le scuole rovinate dalla pedagogia progressiva non sono in grado di offrire, non può averlo né progettato né perseguito. Che la scuola, destinata all’istruzione, sia privata dell’istruzione, è una contraddizione così profonda, che può sorgere solo dalla convinzione palingenetica che la civiltà, a causa delle sue differenze, sia il male, che dunque il compito dell’uomo sia rovesciarla, non più interpretarla. La pedagogia progressiva obbedisce a questi impulsi: selvaggia o romantica, essa è da sempre disprezzo dell’oggetto, esaltazione del cambiamento, dunque rifiuto radicale della conoscenza.

Ignorando ciò che l’ansia palingenetica ha provocato nel Novecento, i suoi seguaci attuali continuano a esserne divorati[68], a rifiutare ciò che disprezzano come «scolastico» e «libresco», e a trovare loro sempre nuovi sostituti, meno rurali di quelli di Dewey, ma tanto più inafferrabili. Il metodo dei progetti che essi prescrivono alla scuola, non usa più il giardinaggio, la tessitura, la costruzione in legno, la manipolazione dei metalli, la cucina ecc.[69] (anche se non manca l’imposizione della scuola/lavoro ai liceali), ma la tecnologia digitale, che pure si è rivelata non solo dannosa per l’apprendimento, ma addirittura disastrosa per lo sviluppo della personalità[70]. Dal progetto concreto si attendono la levitazione degli alunni fino al culmine dell’astrazione. La volontà di raggiungere lo scopo della raffinatezza cognitiva dall’esperienza concreta e privandosi delle conoscenze si chiama oggi didattica per competenze. Essa opina che la conoscenza sia memorizzata nella rete e accessibile con una leggera pressione dell’indice, che dunque non occorra più che l’alunno si affatichi a memorizzare; e non comprende che la mente è una, che dunque nel memorizzare la conoscenza essa la comprende e nel comprenderla la memorizza, e avendo compreso e memorizzato una conoscenza ne gode e desidera acquisirne di nuova, ed esaudendo questo desiderio impara i modi di rendersi familiare l’estraneo, fino a quando lo ricerca volentieri pregustandone la familiarità. E ignora che secondo le neuroscienze il cervello non è un computer di cui occorre svuotare la memoria di informazioni per accoglierne di nuove; al contrario: le conoscenza già acquisite formano ex novo le connessioni neurali per accogliere nuove conoscenze, mentre l’ignoranza comporta l’atrofizzazione della parte. La didattica per competenze crede invece che la mente sia una cassettiera e che si possano aprire i cassetti superiori, a portata di mano, risparmiandosi la fatica di aprire i cassetti inferiori: essa crede che si possa raggiungere l’abilità conoscitiva escludendo la conoscenza. Così tenta di diffondere il pensiero critico tra gli alunni ancora ignoranti, col solo risultato di renderli scettici; tenta di esercitarli nelle abilità metacognitive, prerogativa degli esperti, quando sono principianti privi di ogni abilità cognitiva, con il solo risultato di sovraccaricare la loro memoria di lavoro; tenta di metterli di fronte ai problemi empirici quando non sanno ancora distinguere l’essenziale dall’accessorio, con il solo risultato di disorientarli. Essa spera che imparino a imparare, anziché con il molto imparare, senza imparare né poco né molto, con il risultato che non imparano e non imparano a imparare – proprio come chi spera di acquisire la lettura a prima vista delle partiture senza perdere tempo e fatica a solfeggiare[71]. Il progressivismo pedagogico che nasce dal disprezzo dell’oggettività e della teoresi che vi ha accesso non può che spegnersi nella magia.

  • Il significato filosofico dell’astrazione.

Se la distruzione della conoscenza teorica della scuola ha incontrato molte perplessità e suscitato critiche acute, ma non un’opposizione veramente efficace, si può sospettare che l’ostilità alla teoresi e l’insofferenza dell’oggetto trovino un sottile consenso generale. È dunque opportuno difendere la conoscenza teoretica non solo menzionando il fatto che essa permette il dominio tecnico sulla natura, ma precisando il significato e il valore intrinseco dell’universalità, dell’astrazione e del segno.

Nella conferenza in esame, Dewey ribadisce più volte la sua profonda diffidenza verso i segni: «Unicamente quello che impariamo dall’esperienza (e dai libri e dai detti altrui solo in quanto siano suffragati dall’esperienza) non si risolve in mere parole»[72]. Qui è disprezzata l’intera dimensione linguistica, l’oralità e la scrittura: le parole sono rumori della bocca, pallide imitazioni di una vera realtà, non è contemplata la possibilità che entrino in ragionamenti esplicativi o che offrano materia all’espressione poetica. Più sotto, con un ragionamento stupefacente, ripetuto poi dai suoi seguaci fino alla nausea, Dewey liquida la necessità dello sforzo intellettuale: nella società pre-industriale la diffusione della cultura era limitata a una casta sacerdotale del sapere, non solo per la mancanza della stampa, ma anche perché «solo una lunga e accurata preparazione poteva mettere in grado di scoprire quel che [le sorgenti intellettuali] contenevano»[73]; poi, con la rivoluzione industriale, con la stampa, con la locomotiva, con il telegrafo, le comunicazioni si moltiplicano, «la conoscenza non è più un corpo immobile; è stata liquefatta. Essa circola attivamente in tutte le correnti della società stessa»[74]. Dewey indica due cause che un tempo limitavano la diffusione della cultura: la rarità dei libri e la difficoltà della cultura. Ma il discorso prosegue come se le due cause fossero una stessa causa; così con il cadere della prima cade anche la seconda, e dall’abbondanza di informazione che caratterizza il mondo industriale Dewey non deduce semplicemente che possiamo informarci di più, ma qualcosa di affatto disparato – l’immediata accessibilità della conoscenza teorica. Sembra, cioè, che da quando le edicole traboccano di giornali e rotocalchi, da quando possiamo navigare su internet, la fatica intellettuale non sia più necessaria e che in realtà non lo sia mai stata, che le difficoltà di un tempo fossero soltanto un ostacolo artificiale con cui la «casta sacerdotale del sapere» si garantiva il suo monopolio invidioso, e che sia sufficiente essere stati impegnati in occupazioni concrete per essere in grado di accedere senz’altro a ogni teoria. Dalla liquefazione della conoscenza, dal buffo assunto che l’arte, le scienze o la filosofia siano divenute facili perché c’è abbondante disponibilità di libri, giornali e riviste («Stimoli di natura intellettuale [!] si rovesciano su di noi per le vie più diverse»[75]), Dewey, che, pure, è professore universitario, si compiace di concludere che «la vita meramente intellettuale, l’imparare e lo studiare accademico hanno perduto molto del loro valore. Accademico e scolastico non sono più titoli d’onore, sono diventati termini di riprovazione.»[76] Questo disprezzo degli intellettuali forse rivela qualcosa della delusione per il suo lavoro, ma in ogni caso non fa onore all’intellettuale, ancor meno la sua incauta vicinanza a chi in Europa qualche decennio più in là avrebbe perpetrato il loro annientamento o avrebbe bruciato i loro libri.

Così la pedagogia antiscolastica di Dewey può essere nobilitata come tappa dell’evoluzione sociale: «L’introduzione dell’attività manuale, dello studio della natura, della scienza elementare, dell’arte, della storia, la relegazione in secondo piano dell’elemento puramente simbolico e formale; il cambiamento dell’atmosfera morale della scuola, nelle relazioni fra scolari e maestri, cioè nella disciplina; il dare maggior peso all’attività, all’espressione, all’autogoverno; – tutti questi non sono meri accidenti, sono necessità dell’evoluzione sociale più progredita»[77]. Se la teoresi non è l’essenza dell’umanità, ma un’attività legata a una fase ormai in corso di liquidazione, allora a scuola sono sufficienti occupazioni concrete e non occorre più la padronanza dell’elemento puramente simbolico e formale, meno che mai occorre l’universale che sembra così astratto dalla realtà e lontano dalla verità, che è sì un’identità immobile ed eterna, ma, rispetto alla fluida e variopinta ricchezza del concreto da cui è stato separato, appare un’ombra grigia, priva di essere proprio ed esistente solo per il pensiero astraente. Come le anime degli eroi omerici, gli universali sembrano rimpiangere la vitalità spesa per acquistare l’eternità.

Non si tratta tanto di sostenere con una confessione di fede platonica la superiorità dell’universale rispetto al concreto; in effetti il concreto è l’essere in atto a cui l’universale deve la sua realtà. Si può però mostrare 1) che l’astrazione non è soltanto un procedimento arbitrario del soggetto, ma corrisponde ai moti essenziali delle cose stesse, cioè alle leggi che le governano; 2) che l’universale, pur essendo semplificato, non è mai un vuoto indeterminato, ma ha una sua musica, una sua vitalità – una concretezza di secondo grado che si acuisce fino alla singolarità.

Quanto al primo punto, l’astrazione non è un atto arbitrario, senza corrispettivo fattuale. Astrarre è propriamente conservare l’essenziale eliminando l’inessenziale, ossia ciò che per la sua inconsistenza è pura variabilità. Sono però le cose stesse che si conservano in quanto resistono alla propria variabilità. In quanto si oppone alla temporalità, la fissità delle cose non è però un essere immediato, ma è un essere riflesso, un positivo che nasce dal negare il negativo, dall’annullare l’inquietudine; è dunque un interno, una legge che dà forma identica alla variabilità delle cose. L’universale, nella sua apparente astrazione, esprime questa regolarità che domina il variabile e in questo senso non è un semplice fantasma della mente ma ha una compatta consistenza ontologica. Tutto ciò resta precluso a Dewey. Istigato dal rifiuto dell’oggettività teoretica, egli constata che l’essere si perde nel divenire, e ne è indotto ad abbracciare una metafisica del progresso infinito. Gli manca dunque la riflessione che è stata già di Eraclito, per cui, come l’essere si perde nel divenire, così il divenire stesso si perde, e con il perdersi del divenire si restaura l’essere, ma non più quello sensoriale, bensì l’essere essenziale, l’universale, il λόγος come legge immutabile che domina la variabilità empirica ed è accessibile solo all’astrazione. Per Dewey l’universale resta invece una penombra torbida che dovrebbe svanire alla luce dell’empiria, di cui egli ha però già riconosciuto la variabilità.

Quanto al secondo punto, il giungere da un concreto empirico a un universale implica certo l’astrazione da molti caratteri, dunque una semplificazione. Ma ciò che si usa considerare ricchezza empirica di un singolo è in realtà la sfera della sua accidentalità. Nel metterla da parte, una corretta astrazione non elimina l’essenziale, al contrario, lo esalta eliminando il rumore di fondo. Il corretto astrarre, anziché un impoverire, è l’abilità di scoprire il gioiello tra i sassi, il saper andare al sodo senza lasciarsi distrarre dai particolari secondari, che è proprio del pensiero esperto. D’altro canto, per quanto semplificato dall’astrazione, l’universale non è il semplice, è anzi una determinazione. Di questa Spinoza ha rivelato, con una formula indimenticabile, l’intima complessità: omnis determinatio negatio est, ogni determinazione è una negazione, rappresenta cioè non solo l’essere dell’individuo di cui è predicabile, ma ne contiene al tempo stesso il limite, e, in questo limite, il suo riferimento ad altro. Poiché è riferito, l’universale è anche particolare. A differenza dei riferimenti empirici che, posti nell’esteriorità di spazio e tempo, sono casuali, il riferimento tra le universalità particolari è logico, necessario. Per questa necessità, il riferimento tra i particolari è una intima sintesi, un’unità concreta di determinazioni. Questa concretezza è l’universalità in forma singolare. È dunque massima superficialità considerare l’universale come vuoto e il singolare come una congerie illogica di determinazioni particolari. Poiché non è vuoto ma determinato, l’universale è anche particolare e il nesso necessario degli universali particolarizzati è la concretezza della singolarità.

Ne segue che l’astrazione semplifica la concretezza empirica, ma non abolisce la concretezza in generale; essa inaugura anzi una concretezza di secondo grado, apre cioè l’ambito dei riferimenti necessari delle particolarità e dà l’accesso alla singolarità come concretezza interna. Essendo la descrizione dei nessi necessari tra gli universali in cui sono espresse le essenze delle cose empiriche, la scienza non è descrizione dell’empirico, ma la risposta dimostrativa alle sue domande. Se l’empiria affascina con la sua ricchezza e la sua vivacità, tanto più deve affascinare la scienza che consente di capirla.

Mentre la concretezza empirica e la sua variabilità sono immediate, cioè si impongono direttamente ai sensi, l’universale, come si è visto, si genera dal perdersi dell’essere sensibile nel variabile e dal perdersi del variabile nell’identità. Il divenire stesso diviene; il fiume che trascina le cose è momento di un ciclo, e in esso si formano nuovi vortici che trattengono l’acqua intorno al proprio centro. Gli universali sono i centri che dominano il divenire e lo riducono al materiale della loro essenzialità. Poiché sono le leggi di ciò che è tangibile, essi stessi non sono tangibili e si manifestano sensibilmente prendendo corpo nei segni.

Il primo segno, da cui dipendono tutti gli altri, è il nome. L’evanescenza della sua corporeità e la sua convenzionalità hanno spinto a volte al rozzo disprezzo del linguaggio e alla regressione nella cosa. Tuttavia proprio l’evanescenza del nome, peraltro corretta dalla scrittura, ne consente la trasparenza; e la convenzionalità non contrasta affatto con il suo potere di manifestare l’oggettività. Poiché infatti le lingue sono traducibili l’una nell’altra, la convenzionalità non si estende ai significati: i diversi significanti nelle diverse lingue veicolano gli stessi universali, che dunque hanno una consistenza ben maggiore di quanto possano averla le sensazioni soggettive delle cose sensibili che sono estinte dal divenire. Pur generati nella libertà, i nomi non sono dunque convenzioni momentanee tra soggetti, ma un rimando alla legalità dell’esperienza, esprimono ciò che vi è di costante nella sua variabilità. L’esperienza stessa cessa di essere un’eterna inquietudine ed è dominata solo dalla forza dei segni.

Al pragmatista Dewey manca la comprensione della natura degli universali e dei nomi. Egli non riesce a riconoscerli come espressioni della legalità naturale, e finisce in una concezione primitiva, che lui stesso etichetterebbe come «medievale»: gli universali e i nomi gli appaiono copie sbiadite degli oggetti tangibili; non come compendi delle vicende necessarie delle cose, ma come cose morte accanto a cose vive. Questa debolezza filosofica è fatale alla sua pedagogia. Infastidito dall’obiezione che introdurre il lavoro manuale tenda «a fare degli specialisti, ad allontanare dal nostro sistema attuale di cultura generosa, liberale», ribatte che ad essere «specializzata, limitata e angusta» è la scuola «tradizionale» limitata a certi simboli del sapere, al leggere, allo scrivere e al far di conto[78].

Ancora oggi, dopo che la pedagogia progressiva ha creato una generazione che non sa tenere la penna in mano e soffre di dislessia, disgrafia e discalculia, si usa parlare del «leggere, scrivere e far di conto» con un sorriso di superiorità. Ma la scrittura e il calcolo non sono attività banali di cui vergognarsi; tutt’altro che limitati e angusti, sono il privilegio della civiltà: disprezzarli è un’insensata volontà di primitivismo. Lo stesso facile rovesciamento dell’accusa operato da Dewey è insensato: la cultura liberale non è una concezione medievale, ma ellenica; il «lato» intellettuale non è affatto un lato, ma un compendio di lati sensibili; i simboli non sono cose accanto ad altre cose, così che occuparsi di essi escluda l’occuparsi del resto, ma sono indicazioni delle leggi che dominano la realtà e occuparsi di essi significa occuparsi dell’essenza delle infinite cose. Per questo, mentre la scuola che relega in «secondo piano l’elemento puramente simbolico e formale»[79] perde l’essenziale e lascia gli alunni ignoranti e demoralizzati, la scuola che si occupa anzitutto del leggere, dello scrivere e del far di conto è sempre stata feconda di risultati e aperta al tutto.

NOTE


[1] Queste espressioni sono proposte senza dichiarazioni di distanza critica a p. 348 dell’antologia John Dewey e il problema pedagogico nel pensiero contemporaneo da Pestalozzi a Laporta, a cura di Vincenzo Carbotti, Casa editrice G. D’Anna, Messina-Firenze 1974.

[2] Ibidem.

[3] Nel sistematizzare Kant, Fichte ha ribadito con energia l’irriducibile artificialità dell’io: l’io è solo in quanto è per sé stesso, il suo essere è il suo sapersi e non può essergli presupposto.

[4] Pubblicata da Edizioni Studium, Roma 2016, pp. 7-15.

[5] Ibidem,p. 13

[6] Ibidem.

[7] Ibidem,p. 8

[8] Ibidem,p. 8.

[9] Ibidem,p. 8.

[10] Frabboni, Pinto Minerva, Manuale di pedagogia e didattica, Laterza, Bari-Roma 2013, p. XI.

[11] Ibidem,p. XIII.

[12] Ibidem,p. 5.

[13] Introduzione a Rousseau, Emilio o dell’educazione, cit., p. 8.

[14] Ibidem.

[15] Ibidem, cit., pp. 9-10.

[16] Ibidem.

[17] Ibidem.

[18] Ibidem, p. 199. L’attuale disgrazia della grafia è una lontana eco di questa frase.

[19] Ibidem, p. 197.

[20] Ibidem, pp. 148-9. Traduzione modificata.

[21] Ibidem, p. 203.

[22] Ibidem, p. 201. Neanche Rousseau crede alle proprie parole: il rapporto tra corpo e intelligenza è determinato prima come causalità, poi come azione reciproca.

[23] John Dewey e il problema pedagogico nel pensiero contemporaneo da Pestalozzi a Laporta, cit., p. 97.

[24] Citato in E. D. Hirsch, Jr., The schools we need and why we don’t have them, Anchor Books Edition, New York 1999, p. 120.

[25] Cfr. l’art. I del Credo, reperibile un po’ ovunque, per esempio nell’antologia citata John Dewey e il problema pedagogico nel pensiero contemporaneo da Pestalozzi a Laporta, nella traduzione piuttosto scorretta di Lamberto Borghi: «L’unica vera educazione giunge attraverso la stimolazione delle facoltà del bambino da parte delle richieste delle situazioni sociali in cui si trova. Attraverso queste richieste egli è stimolato ad agire come un membro di un’unità, ad emergere dalla sua iniziale ristrettezza di azione e di sentimento e a immaginarsi dal punto di vista del benessere del gruppo a cui appartiene. Attraverso le risposte che gli altri danno alle sue attività, egli giunge a conoscere che cosa queste significhino in termini sociali. Il valore che hanno è riflesso indietro in esse. Per esempio, attraverso la risposta data ai suoi balbettii istintivi il bambino giunge a conoscere che cosa significano questi balbettii; sono trasformati in linguaggio articolato e così il bambino è introdotto nella ricchezza consolidata di idee ed emozioni che ora sono compendiate nel linguaggio» [Traduzione e corsivo modificati]. Come si vede, il bambino agisce e parla alla cieca, il valore e il significato sono un’imposizione sociale ai suoi atti e ai suoi balbettii.

[26] Cfr. https://ojs.lib.uwo.ca/index.php/cie-eci/article/view/9017/7203 pp. 63-64: «Mao prese lezioni di pragmatismo da Yang Changji, un amico intimo di Hu Shih, il rappresentante di John Dewey in Cina. Presentato a Hu Shih nel 1918 all’università di Pechino, Mao frequentò le sue lezioni su filosofia cinese tradizionale e pragmatismo, e giunse a sostenere con ardore il punto di vista di Dewey. Quando nel 1919 andò a Pechino per la seconda volta, partecipò alla conferenza di Dewey sui «Tre filosofi contemporanei» (William James, Henri Bergson e Bertrand Russel), e fu così incantato dalle sue idee che decise di studiare la filosofia occidentale usando «Tre filosofi contemporanei» come libro di testo. Egli credeva che il pragmatismo costituisse un’arma efficace per combattere il feudalesimo. Si può scorgere l’influenza filosofica di Dewey su Mao nell’importanza che questi attribuisce all’insegnamento centrato sull’alunno e all’apprendimento dalla pratica». Non è un caso che il maoismo sessantottino, infiltratosi nelle burocrazie, abbia imposto nelle scuole l’attivismo puerocentrico.

[27] Credo, p. 85: «La materia del programma scolastico deve differenziarsi gradualmente dall’inconsapevole unità originaria della vita sociale» .

[28] John Dewey e il problema pedagogico nel pensiero contemporaneo da Pestalozzi a Laporta, cit., p. 85. Traduzione modificata. È stupefacente la qualifica di studio speciale per il leggere e lo scrivere.

[29] Ibidem, p. 82.

[30] Ibidem, p. 84.

[31] Cfr. l’art. V del Credo, pp. 90-91.

[32] Ibidem, p. 90. Molto sospetta la scorrettezza della traduzione di Borghi che rende «individualistic and socialistic» con «individuali e sociali».

[33] Ibidem, p. 90.

[34] Ibidem: «Tutte le riforme che poggiano semplicemente sull’emanazione di leggi o sulla minaccia di certe penalità, o su mutamenti di dispositivi meccanici e esterni sono transitorie e futili».

[35] Paulo Freire non si vergognerà di porre l’alunno tra gli oppressi e l’insegnante tra gli oppressori.

[36] Ibidem, p. 85.

[37] Ibidem, p. 278.

[38] Ibidem, p. 280. Dewey protesterebbe che le attività professionali nella sua scuola non hanno un fine utilitario; ma è protesta vana: esse non le hanno neanche nelle scuole professionali, perché queste non sono aziende.

[39] Cfr. D. E. Hirsch, jr., cit., passim.

[40] A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Gli intellettuali, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 146.

[41] John Dewey e il problema pedagogico nel pensiero contemporaneo da Pestalozzi a Laporta, cit., p. 101 .

[42] J. Dewey, La scuola e il progresso sociale, in Il mio credo pedagogico. Antologia di scritti sull’educazione, La Nuova Italia, Firenze 1954, p. 56.

[43] Ibidem.

[44] J. Dewey, La scuola e il progresso sociale…, cit., p. 42.

[45] J. Dewey La scuola e il progresso sociale, in Il mio credo pedagogico. Antologia di scritti sull’educazione, cit., pp. 32-58.

[46] Un preciso episodio storico falsifica l’assunto marxista della storia come lotta di classe: la sconfitta dell’Armata Rossa a Varsavia nell’agosto del 1920, quando, come Lenin riconobbe, il popolo polacco si schierò con i suoi capi contro i rivoluzionari russi che intendevano liberarlo dal giogo di classe.

[47] L’indistinzione tra le forme etiche è un tratto tipico non solo di Dewey, ma della mentalità statunitense, per una precisa causa storica: la società civile statunitense non solo presenta i normali contrasti tra le classi, ma manca di omogeneità naturale, divisa com’è sul piano etnico, linguistico e religioso, e sembra sempre sul punto di disgregarsi, tanto più che la sfera pubblica è a sua volta divisa tra il potere federale e quello dei singoli Stati. È il timore della disgregazione che induce i suoi intellettuali più sensibili a sottolineare l’importanza dell’unità e i suoi pedagogisti a preoccuparsi soprattutto dell’obiettivo della socializzazione. Importando questo timore in un contesto di preesistente omogeneità sociale, la pedagogia europea assume un tratto totalitario.

[48] Cfr. l’inizio di «Il mio credo pedagogico» in cui Dewey scrive assurdamente che il modello dell’educazione inconsapevole vale anche per l’acquisizione di scienza e arte: «Mediante questa educazione inconsapevole l’individuo giunge gradualmente a condividere le risorse intellettuali e morali che l’umanità è riuscita ad accumulare.» In J. Dewey e il problema pedagogico…, cit., p. 80. I corsivo sono nostri.

[49] Borghi, ebreo e costretto dalle leggi razziali ad emigrare negli Stati Uniti, avrebbe dovuto essere più guardingo nei confronti dell’utopia; ma, come tanti, ha temuto solo il totalitarismo in veste nera. La sua espressione è a p. XVII di Il mio credo pedagogico. Antologia di scritti sull’educazione, cit.

[50] Qui, come nelle altre citazioni, il corsivo è nostro.

[51] Dewey, La scuola e il progresso sociale…, cit., p. 36. Correggo la traduzione di Borghi che, tra l’altro, non intende «object of production» e lo rende con «oggetto di produzione».

[52] È nota la dichiarazione di Luca Cavalli-Sforza: «Posso dire che, fra tutte le mie esperienze scolastiche, la traduzione dal latino è stata l’attività più vicina alla ricerca scientifica, cioè alla comprensione di ciò che è sconosciuto.» Citato in Lucio Russo, Segmenti e bastoncini,  Milano 2016, p. 85.

[53] John Dewey e il problema pedagogico nel pensiero contemporaneo da Pestalozzi a Laporta, cit., p. 121

[54] Ibidem, p. 122.

[55] Dewey, La scuola e il progresso sociale…, cit.,p. 36.

[56] Ibidem, pp. 36-37.

[57] Ibidem. Il corsivo è di Dewey.

[58] Citate in Hirsch, The schools we need…, cit., p. 108.

[59] Dewey, La scuola e il progresso sociale…, cit., p. 38.

[60] John Dewey e il problema pedagogico nel pensiero contemporaneo…, cit., p. 118.

[61] Ibidem.

[62] Ibidem, p. 116.

[63] Alla fine dell’Introduzione ai «Lineamenti di filosofia del diritto» Hegel paragona la filosofia alla pittura a grisaglia.

[64] Dewey, La scuola e il progresso sociale…, cit., p. 50.

[65] Cfr. ibidem, pp. 50-51.

[66] Ibidem,p. 38.

[67] Ibidem, p. 39

[68] Cfr. Frabboni-Pinto Minerva, Manuale di pedagogia e didattica, cit.: «Gli anni Settanta del Novecento – con la loro carica critica e contestativa – indicarono, spesso, nell’utopia l’idea guida del progetto di rinnovamento sociale e civile. Fra gli slogan che campeggiavano sui muri delle città universitarie, «l’immaginazione al potere» testimoniava la volontà di riportare in primo piano un’istanza – quella, appunto, utopica – troppo a lungo ignorata e soffocata, come allora si diceva, dal realismo utilitaristico e borghese della cultura dominante». Gli autori ignorano che il Sessantotto contestava anche il filosovietico PCI che, nonostante il suo utopismo, si era infiltrato ampiamente nella cultura dominante, e che esso simpatizzava con il maoismo, nel quale utopismo e antiintellettualismo hanno raggiunto la forma sconvolgente dei più grandi stermini di massa. Richiamarsi a questi miti barbarici è un segno di grave arretratezza culturale.

[69] John Dewey e il problema pedagogico nel pensiero contemporaneo…, cit., p. 120.

[70] Cfr. tra gli altri Spitzer, Solitudine digitale, Corbaccio, Milano 2016, Cangini; Cocaweb. Una generazione da salvare, Minerva, Bologna 2021; Iotti, 8 secondi, Il Saggiatore, Milano 2020; Maffei, Elogio della lentezza, Il Mulino, Bologna 2014.

[71] La critica della psicologia cognitiva alle illusioni della didattica per competenze è contenuta nel Capitolo 5. La rivincita della realtà del libro già citato di Hirsch.

[72] Dewey, La scuola e il progresso sociale…, cit.,p. 44, con qualche modifica.

[73] Ibidem, p. 53.

[74] Ibidem.

[75] Ibidem, p. 54.

[76] Ibidem.

[77] Ibidem, p. 57.

[78] Ibidem, p. 55.

[79] Ibidem, p. 57.

Rousseau, Dewey e la sovversione pedagogica della scuola

  1. La pedagogia selvaggia di Rousseau.

La pedagogia moderna ostenta disprezzo per il leggere, lo scrivere e il far di conto, aborre i libri e le nozioni, anzi il linguaggio stesso, contesta la centralità dell’insegnante. In fondo, rifiuta la scuola e sogna di rifondarne una interamente nuova. Il rifiuto si esaspera a volte in un odio parossistico: la celebre lettera della scuola di Barbiana dà sfogo a un risentimento incontenibile verso la classe intera degli insegnanti; nella sua «Pedagogia degli oppressi» Paulo Freire assimila il docente all’oppressore; in un’antologia adottata nei vecchi istituti magistrali si legge addirittura che «in senso tecnico la scuola si può considerare uno dei maggiori fallimenti realizzati dall’umanità nei propri confronti. È difficile trovare nella storia umana un’impresa che sia costata tante preoccupazioni, cure, spese riuscendo a produrre tanta stasi, tante probabilità di regresso, tanta deformazione intellettuale morale e civile»[1].

Il redattore di questa sentenza inappellabile, l’influente pedagogista Raffaele Laporta, ne deposita anche le motivazioni: «La causa prima di tutto ciò va individuata […] nel fatto che non è stato mai possibile, e non è possibile tuttora, far coincidere le procedure di insegnamento con i processi naturali di apprendimento umano e specificamente infantile»[2]. Secondo Laporta, l’uomo – sebbene sia uomo e non animale, dunque nel parlare, nel leggere, nello scrivere e nel calcolare dimostri un’abilità con i segni irreperibile nel resto della natura – deve apprendere tutto secondo un processo naturale, e la scuola fallisce perché non ha trovato la formula per risolvere un problema da sempre insolubile – di fatto un problema inesistente.

È Rousseau ad aver lasciato ai pedagogisti la dubbia eredità dell’odio della scuola. Per dimostrarlo è sufficiente osservare che egli ha ridotto la libertà dell’uomo all’impulso naturale, e solo per questo esige un’educazione che si rivolga alla vitalità fisica del bambino ed eviti per quanto possibile il linguaggio e la sua artificialità. Kant, che pure condivise con lui l’ansia di indipendenza, sulla valutazione dell’artificialità fu lontanissimo dal riduzionismo naturalistico: la libertà è al di là della natura, è il fondamento noumenico della legge morale; questa si manifesta nell’uomo non come impulso, ma come negazione dell’impulso, nel potere di padroneggiarlo fino a negarlo. L’io, l’autocoscienza, come negazione della naturalità, è dunque essenzialmente artificiale[3]. – Solo perché si rapporta negativamente alla natura, l’io può realizzare la sua libertà nello Stato di diritto: il potere artificiale delle leggi di limitare l’arbitrio del singolo è lo stesso potere con cui il singolo ha già limitato i suoi impulsi così da costituirsi come io artificiale; perciò l’io può riconoscerle come sue leggi. Invece, poiché Rousseau ha confuso la libertà con l’impulso, il suo io oscilla tra l’onnipotenza solipsistica naturale e l’annullamento del singolo nel collettivo artificiale; a causa del suo errore, egli riesce ambiguo perfino nei suoi momenti più alti, per esempio nel «Contratto sociale», che dalla negazione dell’impulso del singolo fa nascere non l’io singolo padrone di sé, ma lo Stato padrone dell’io singolo, con il risultato inquietante che lo Stato diventa l’unico io, entro cui i singoli sono assorbiti integralmente, proprio come accade nei regimi totalitari.

L’identità di impulso e libertà è ancora più letale per la sua pedagogia. Ciò che poteva essere una giusta riconsiderazione dell’innocenza naturale del bambino, un invito all’attenzione a quanto di implicitamente razionale è già in essa e un opportuno invito alla delicatezza nel reprimere quanto vi è di irrazionale, si trasforma in rifiuto dell’artificialità, in professione di primitivismo anticulturale, in disprezzo ostentato della conoscenza teorica e in sovversione della scuola che deve insegnarla. Da allora Rousseau ha rappresentato una tentazione fatale per la pedagogia, che quanto più lo ha seguito tanto più si è lasciata andare a sogni utopistici, perfino dopo le atroci rivoluzioni novecentesche, e ha perso la capacità di capire e accettare l’istruzione scolastica.

I pedagogisti non sono solo ciechi alle contraddizioni di Rousseau, le trasfigurano in saggezza superiore. In sé stessa la contraddizione non è assurda, racchiude anzi la categoria ben precisa del divenire; il divenire è infatti l’inseparabilità di essere e nulla. Ma formulare una contraddizione credendo di aver formulato un principio stabile, questo è certo un’assurdità. La pedagogia moderna ha trasformato le contraddizioni di Rousseau in principi, e ha perso dunque non solo la capacità di aiutare i docenti, ma anche la facoltà di pensare con coerenza. Qui documenteremo questi giudizi con uno tra i tanti testi disorientati della letteratura pedagogica, l’Introduzione di Andrea Potestio alla sua traduzione dell’Émile[4].

Vi leggiamo che Rousseau definisce l’Émile «un’opera di carattere filosofico intorno a un principio sostenuto dall’autore in altri suoi scritti, e cioè il principio che l’uomo è per natura buono»[5]. Commenta Potestio: «Il male, il negativo e la corruzione sono generati dall’uomo stesso e dai suoi limiti nel momento in cui si relaziona con gli altri e costruisce le regole sociali»[6]. L’uomo è buono, ma solo finché è isolato; uscito dall’isolamento, quando dovrebbe mostrarsi qual è, ecco, è già malvagio e corrotto. È buono quando non può nuocere, non buono appena lo può. Ne segue che l’uomo per natura è un divenire malvagio, un essere buono e non buono. – Il commentatore non doveva accettare come principio una simile contraddizione. Riflettendovi, avrebbe trovato che il termine stesso «natura» è equivoco, di fatto antitetico: significa 1) essenza, definizione, certo; ma nell’uomo, ed è dell’uomo che qui si parla, significa altrettanto 2) il lato istintivo, animale, ciò che Kant indica con l’aggettivo patologico. Nel primo significato, il principio di Rousseau equivale a dire che l’uomo deve essere libero: l’essenza dell’uomo è liberarsi, vivere secondo l’universalità della legge è la sua differenza specifica; nel secondo significato, il principio equivale a dire che l’uomo naturale, vale a dire il bambino, è innocente; non buono, ma buono e cattivo, perché solo la volontà umana cosciente, non la natura, può essere buona o cattiva.

Poiché non è consapevole, la natura è innocente; e l’uomo inconsapevole non è buono, come vuole Rousseau, ma innocente, buono e non buono insieme. L’innocenza è contraddittoria, dunque è un divenire; essa non è stabile, non è un’essenza, è piuttosto uno svanire nell’essenza dell’uomo, nella libertà, e l’educazione è l’aiuto che i liberi danno al movimento dello svanire dell’innocenza nella libertà. L’educazione non può limitarsi a preservare l’innocenza, come crede spesso Rousseau, perché l’innocenza non è la bontà e i bambini non sono soltanto delicati e compassionevoli, sono altrettanto rozzi e crudeli. La loro innocenza va rispettata fino a quando non sia lesiva e i loro errori vanno corretti con misura; in ogni caso essa si perde e l’educazione deve aiutare l’io a staccarsi dagli istinti. Come l’educazione non può limitarsi a preservare l’innocenza, la scuola non può attenersi ai «processi naturali di apprendimento umano e specificamente infantile» come crede Laporta, perché essa non insegna ai bambini ciò che imparano da soli, ma quello che è oltre la loro motivazione naturale e si può raggiungere soltanto con un salto intellettuale.

La contraddizione dell’innocenza fu viva esperienza dello stesso Rousseau, senza che egli ne traesse motivo per uscire dal suo errore. All’età di 28 anni, Jean Bonnot de Mably, un colto aristocratico lionese, lo assunse come precettore dei suoi due figli. Rousseau «definisce la sua attività di educatore come un fallimento…: ‘avevo pressappoco le nozioni indispensabili per un precettore e credevo di averne le capacità. Nell’anno che passai in casa del signor de Mably ebbi agio di ricredermi. La dolcezza della mia natura mi avrebbe reso adatto a quel mestiere, se la facilità a incollerirmi non vi avesse mischiato i suoi temporali’»[7]. Da questa esperienza Rousseau non trasse alcuno spunto di critica al suo principio della bontà naturale dell’uomo: ha esperito la propria natura come una dolcezza facile a trascendere nel vizio della collera, ma la sua interpretazione riflette solo sulla dolcezza, astrae dalla collera. La stessa incapacità di ritorno critico al suo dogma si manifesta nel passo delle «Confessioni» intorno alla stessa esperienza: «Mi balzavano agli occhi tutti i miei errori, li sentivo, studiavo l’indole dei miei allievi, li comprendevo benissimo, e non credo di essere stato mai, neppure una volta, vittima delle loro astuzie»[8]. Rousseau ha fatto esperienza di una natura infantile che non è solo fiducia e docilità, ma è altrettanto astuzia e caparbietà; esclude però questo secondo elemento dall’ambito della natura; e depurata dal negativo, l’innocenza diventa identica alla bontà.

L’esperienza di precettore ha mostrato a Rousseau che il suo carattere dolce è anche collerico, che la fiducia infantile è anche astuzia; ma egli non ha la forza di sopportare la contraddizione; dunque non riesce a smascherare l’insufficienza del suo dogma. Per lasciarlo intatto, deve abbandonare l’esperienza effettiva, ritrarsi nell’immaginazione e fingervi un’esperienza che lo soddisfi, che ne dia cioè una conferma allucinatoria. Il suo Émile è una lunga illusione che ha trascinato nel falso due secoli e mezzo di pedagogia occidentale.

Così si rapporta Potestio a questo procedimento illusionistico: «Rousseau ha sperimentato lo scacco e la distanza incolmabile tra l’esperienza diretta e la riflessione teorica. Vivendo il proprio fallimento come educatore…, ha iniziato a occuparsi dei problemi teorici dell’educazione e della riflessione pedagogica»[9]. Il tono pacato di queste frasi non dovrebbe nascondere l’abissalità del loro contenuto. La verità è adaequatio rei et intellectus, e nei termini di Potestio equivale all’accordo tra l’esperienza diretta e la riflessione teorica. Affermare che tra queste ci sia una «distanza incolmabile» significa rifiutare il concetto stesso di verità, dunque la conoscenza e la ragione, e professarsi irrazionalisti. Non si tratta di un gesto anticonformista. La zizzania dell’irrazionalismo è l’unica erba di cui ci sia abbondanza nei campi della pedagogia. Essa cresce rigogliosa, per esempio, nel Manuale di pedagogia e didattica, giunto alla gloria della settima edizione dopo appena un decennio dalla sua prima pubblicazione. Nell’Introduzione[10] gli autori formulano, come se fosse un’ovvietà, la nozione di scienza pedagogica, ma nel proseguire, presi forse da nostalgia del materialismo storico, prima ne individuano la specificità epistemologica nel suo connettersi all’utopia (un’osservazione esatta, come vedremo, ma che è incompatibile con la dichiarazione di scientificità della pedagogia), poi si professano adepti di un modello di scienza che sostituisce «a modelli di conoscenza univoci, esaustivi e totalizzanti, modelli ispirati e contraddistinti dai caratteri della rizomaticità [cioè dell’espansione imprevedibile], parzialità, provvisorietà, storicità»[11]. Di fatto, essi riferiscono in modo indiscriminato l’instabilità propria dei confini della scienza al suo nucleo consolidato, che è propriamente il contenuto dell’insegnamento scolastico, e così la mutano nel suo contrario. Avendo costruito e adorato un modello selvaggiamente precarizzato di scienza, la pedagogia si trasforma in una giungla in cui risuonano «alcune categorie chiave: pluralità e differenza, creatività e cambiamento», che la inducono a «riconoscere e collegare dialetticamente [!] tra loro dimensioni spesso disgiunte e contrapposte [certo!] e quindi di interconnettere storia e utopia, logica e immaginazione, ragione e desiderio, ma», come se gli opposti già elencati non bastassero, «anche mito e scienza, natura e tecnica, individuo e contesto, memoria e progetto»[12]. Come si vede, il sostantivo «categoria» qui sta per «suggestione» e l’avverbio «dialetticamente» sta per «arbitrariamente»; così dal suo apparire si spegne il lume della ragione e la scienza pedagogica finisce nel vuoto della chiacchiera.

Com’è costituita, secondo Potestio, la riflessione teorica staccata dall’esperienza diretta? «Partendo da questa esperienza» – di fatto, dandole l’addio – «Rousseau decide… di soffermarsi sugli aspetti teorici dell’educazione e di costruire un progetto che gli permette, in qualche modo [corsivo nostro], di oltrepassare i limiti della concretezza, le specificità dei casi particolari e le difficoltà presenti nelle infinite sfumature della realtà»[13]. Vale a dire: 1. la realtà non ha nessun diritto perché è fatta solo di limiti, di casi particolari e di difficoltà, dunque 2. Rousseau ha tutti i diritti ad avanzare un progetto la cui attuazione consiste nel violarla. Starobinski, citato da Potestio, esprime in maniera ancora più mistificata la contraddizione: «Jean-Jacques sceglie di essere assente e di scrivere»[14], cioè sceglie comodamente di fare a meno della realtà intorno alla quale scrive, di non preoccuparsi della verità della sua scrittura.

Essendosi reso assente dalla scena educativa fino al punto da avere abbandonato in orfanotrofio i suoi cinque figli, Rousseau ha il tempo di leggere «da autodidatta molti trattati educativi, osserva[re] con spirito critico le consuetudini formative del suo tempo e progetta[re] un’opera pedagogica»[15]. Per il suo germogliare dall’assenza, l’opera risulta interamente, per così dire, libresca. In sé, nulla di male, anzi: la bibliografia è il momento scolastico indispensabile alla scienza. Ma Rousseau odia i libri, al punto da tenerne lontano Emilio fino a dodici anni e da consentirgli in seguito la lettura del solo «Robinson Crusoe». La genesi libresca deve essere dunque cancellata, e con essa la forma metodica e la coerenza logica. Resta così solo la forma del romanzo: «… le regole che potevano avere bisogno di prove le ho tutte applicate al mio Emilio… e ho fatto vedere con ricchezza di particolari come le mie proposte si possono realizzare»[16], vale a dire la prova dell’efficacia delle sue regole pedagogiche è fornita dalla loro applicazione a un personaggio inventato. Il percorso di Rousseau è dunque 1) abbandonare l’esperienza ingrata, 2) darsi ai libri odiati, 3) occultarlo, 4) scrivere un romanzo come se fosse il racconto di un’esperienza effettiva, 5) spacciarvi l’esperimento della sua mente parossistica per un esperimento reale riuscito. La pedagogia moderna dominante è lo stupore davanti a questa finzione. Anche Potestio ne resta incantato, tanto da credere che Rousseau non abbia abbandonato l’esperienza: «L’esperienza concreta», cioè le vicende immaginarie dell’immaginario Emilio e del suo immaginario gouverneur, «costituisce la garanzia stessa del valore delle riflessioni teoriche e impedisce [!] che le teorie diventino fantasticherie di colui che scrive»[17]. Le fantasticherie spacciate come esperienze devono impedire che le teorie diventino fantastiche – è questo l’argomento sublime di Potestio.

Gli abusi della forma portano con sé gli abusi del contenuto. Essi sono tanti e tali che dall’Émile si ritrassero inorriditi non solo la religione, ma anche il suo nemico, l’illuminismo. In fuga dalla civiltà, Rousseau animalizza il bambino, e nel secondo libro, in cui parla del bambino in età scolare, si legge questa dichiarazione di guerra alla scuola: «Ora dovrei parlare della scrittura? No, mi vergogno di soffermarmi su simili sciocchezze in un trattato sull’educazione»[18]; oppure questa: «La lettura è il flagello dell’infanzia… Prima dei dodici anni, Emilio non saprà che cos’è un libro»[19]. Dalla volontà di procrastinare l’alfabetizzazione, l’odio della civiltà avanza fino all’aperto disprezzo del linguaggio: il gouverneur non darà a Emilio lezioni verbali: «Mantenete il fanciullo nella sola dipendenza dalle cose; così avrete seguito l’ordine naturale nel progresso della sua educazione. Alle sue voglie indiscrete opponete soltanto ostacoli fisici o punizioni che nascano dalle azioni stesse e di cui si ricordi al momento opportuno: senza proibirgli di agire male, basta impedirglielo. L’esperienza o l’impotenza soltanto deve fargli da legge»[20]. Che qui parli l’odio della civiltà e non la preoccupazione pedagogica, è evidente per più ragioni. Anzitutto usare solo vie di fatto non garantisce la razionalità dell’uso. Inoltre è assurdo il pensiero che solo la dipendenza dagli uomini nuoccia alla loro libertà, che la dipendenza dalle cose la lasci intatta. Al contrario, la dipendenza dagli uomini può essere imposta solo mediante la dipendenza dalle cose: ci si piega alla volontà altrui solo in quanto non si può rinunciare a un bene (al proprio corpo vivente, alla sua integrità, alla propria donna, al proprio figlio, alla proprietà in generale) caduto sotto l’altrui potere. La dipendenza dalle cose è dunque l’unico motivo per cui la libertà può rinunciare a sé stessa. – Infine, poiché ha identificato libertà e impulso ed entro la condizione sociale l’impulso deve essere comunque limitato, Rousseau esaspera la tecnica dell’impedire per mezzo della predisposizione delle cose e senza proibire fino al delirio satanico di controllo totale del bambino: «Lasciategli credere di essere il padrone, ma in realtà siate sempre voi a guidarlo: non esiste assoggettamento tanto perfetto come quello che conserva l’apparenza della libertà perché, in questo modo, si riesce a controllare la sua stessa volontà»[21].

Rousseau paga così la moneta falsa del rispetto della spontaneità infantile con la moneta d’oro della libertà. L’uscita dall’innocenza e l’entrata nella libertà hanno invece bisogno della proibizione espressa linguisticamente. Non solo Aristotele ha rintracciato nel linguaggio degli uomini la premessa della giustizia e del vivere bene che lo Stato deve garantire, lo stesso Rousseau ha intuito che solo il dominio delle leggi consente la libertà: non si capisce come si possa educare, cioè educare alla libertà, rinunciando alle parole, unico medium in cui sono formulate le leggi che la tutelano. Le leggi sono universali e solo il linguaggio fatto di parole, cioè di universali, può esprimerle. L’universalità dei nomi è dunque un momento ineludibile della libertà. Rinunciandovi, Rousseau si avviluppa nel delirio: privato di ogni istruzione teorica, confinato allo sviluppo delle forze fisiche, Emilio svilupperà la facoltà speculativa dall’eccesso di energia fisica; il modello a cui il suo autore lo approssima è il selvaggio: «Non essendo mai stabilmente legato a nessun luogo, non avendo compiti prestabiliti, non dovendo obbedire a nessuno e senza altra legge che la sua volontà, è costretto a ragionare su ogni azione della sua vita e non fa un movimento, non muove un passo, senza averne valutato in anticipo le conseguenze. In questo modo, più il suo corpo si esercita, più la sua intelligenza si illumina; la forza e la ragione crescono insieme e l’una si sviluppa per mezzo dell’altra»[22].

La pedagogia selvaggia di Rousseau è stata ignorata nella scuola dell’Ottocento: le scuole pubbliche europee appena istituite si sono guardate bene dal distruggersi con il suo naturalismo. Ma a fine Ottocento l’Europa e gli Stati Uniti sono percorsi da spiriti democratici e socialisti che scambiano la centralità degli insegnanti e delle discipline teoriche nelle scuole per un’espressione di privilegio sociale e di oppressione. In virtù di John Dewey che se ne sente discepolo, torna in auge Rousseau e nasce così la pedagogia progressiva che per amore dell’uguaglianza e della spontaneità infantile abolisce ogni gerarchia scolastica, quella tra docente e discente e quella tra discipline teoriche ed esperienze pratiche. La teoresi è infatti sospetta alla mentalità egualitaria, che è indirizzata all’utopia e vorrebbe cambiare il mondo, più che conoscerlo: le teorie sono elaborazioni di menti esperte e sottostanno al principio della meritocrazia; esse non godono di uguaglianza di diritti in base alla loro semplice esistenza, ma devono acquistarsi il credito con l’argomentazione, l’esperimento e la risposta alle critiche, oppure svanire. Così nella scuola progressiva non si fa teoresi: i contenuti e le abilità sono omogeneizzati fino all’insignificanza così da poter essere disciolti in attività ludiche, il docente abbandona scienza e cultura, diventa un animatore degli alunni, a volte anche un bersaglio, e lascia che questi si attivino secondo i loro impulsi, convinto che l’esercizio spontaneo li premi con l’acquisizione di solide abilità. I risultati non possono che essere la regressione in un rozzo analfabetismo.

  • Dewey e la distorsione politica della pedagogia.

Dewey ammette che la didattica progressiva non può funzionare: «La debolezza di alcune scuole e alcuni insegnanti che rivendicano il nome di progressivi consiste nel fatto che, reagendo al metodo tradizionale di un’impostazione esterna e autoritaria, essi si arrestano al riconoscimento di concedere libero gioco alle capacità e agli interessi naturali. […] In molti ambienti è ancora diffusa l’idea che l’evoluzione e lo sviluppo rappresentino un semplice svolgimento dall’interno, che si effettua quasi automaticamente se non vi si interferisce»[23]. Egli vorrebbe correggere i difetti del progressivismo con una valorizzazione delle materie disciplinari. Ma non vi riesce, perché non ha compreso né le fasi della conoscenza né il fine del processo pedagogico.

Il rapporto di un soggetto con le cose estranee è ciò che si chiama sua esperienza; la scienza in senso proprio consiste nel comprenderla così da superare l’estraneità. L’apprendimento è il passaggio dall’estraneità alla familiarità, di cui la scienza è la forma definitiva. Dapprima l’apprendimento è imitazione; l’apprendere dall’esposizione discorsiva della scienza acquisita dagli altri è l’istruzione; essa deve portare alla capacità di acquisire scienza dal rapporto diretto con le cose estranee, cioè dall’esperienza stessa. – Appena nato, il bambino non ha esperienza, ma solo istinti: succhiare, ingoiare e poco altro, e la madre provvede a tutto il resto. Dapprima, spinto dal desiderio di indipendenza («Da solo!»), il bambino imita le abilità della madre, così da farle proprie e da iniziare a rapportarsi in modo autonomo alle cose. In seguito, l’apprendimento imitativo del linguaggio consente il grande salto pedagogico che all’imitazione aggiunge l’istruzione, l’esposizione discorsiva delle conoscenze, di cui la scuola è il teatro principale. Infine, diventa dominante il terzo modo di apprendimento, quello dall’esperienza diretta; esso è proprio dell’esperto, di chi cioè è padrone dell’arte, sa muoversi autonomamente e si confronta liberamente con gli altri esperti e con le cose. Queste sono le fasi pedagogiche e questo provvedere a sé stesso dell’individuo, la libertà, è il fine generale della pedagogia. – L’imitazione è l’apprendimento facile e istintivo, in cui ci si abbandona con fiducia all’oggetto fino a identificarsi con lui e da assimilarne la forma. L’istruzione è invece l’apprendimento del difficile che dipende dunque dagli esperti e dai libri; essa è facilitata dall’imitazione, ma non è pensabile senza disciplina, in particolare durante la fase adolescenziale che ha il tratto specifico di rifiutare l’atteggiamento imitativo nei confronti del mondo adulto, anzitutto dei genitori. L’apprendimento per esperienza, forma necessaria del progresso generale della conoscenza, pur conservando come suoi momenti l’imitazione e l’istruzione (la ricerca di solito si appassiona al suo oggetto e indica una bibliografia), rappresenta la raggiunta libertà, in quanto gli esperti seguono soltanto la disciplina che danno a sé stessi. Nel senso di questa libertà, Aristotele la identificò con la vita felice.

L’imitazione è rapida e piacevole, l’istruzione è uno sforzo dipendente dalla guida e dal controllo magistrali, l’apprendimento dall’esperienza, pur laborioso, lento e assoggettato ai capricci del caso nei suoi risultati, è libero. La didattica progressiva è l’illusione libertaria che lo sforzo diretto dall’autorità del maestro sia non solo sgradevole, ma anche inutile, perché tutto ciò che è degno di essere appreso può esserlo come se fosse l’imitazione spontanea, facile e piacevole. «Attività che induce ad ulteriore attività, senza cattiveria»[24] – è il motto di Kilpatrick. Dewey rifiuta lo spontaneismo indeterminato nello stile di Kilpatrick, ma non dispone di un quadro più affidabile dei fatti pedagogici elementari. Il suo pregiudizio pragmatista lo costringe a escludere l’istruzione e a sostuirla con l’apprendimento per esperienza, come se l’esperienza avesse la piacevolezza dell’imitazione e non avesse affinità etimologica con pericolo. È dunque fatale che, avendo rifiutato con sdegno la severità propria dell’istruzione come inutile crudeltà, ritorni a Rousseau e trasformi l’apprendimento scolastico in una sequenza di esperienze apparentemente spontanee, ma in realtà guidate dall’ambiente predisposto dall’insegnante. Che la scienza non sia riducibile alla sensata esperienza, ma abbia bisogno anche delle certe dimostrazioni, che abbia cioè un aspetto puramente teorico ineludibile, è osservazione metodica galileiana che dimostra la necessità dell’istruzione puramente teorica e l’estraneità della tecnica didattica di Dewey allo spirito della scienza. Vi torneremo con ampiezza più oltre. Dal punto di vista pedagogico va subito osservato che la falsa identità tra spontaneità ed esperienza induce negli alunni l’errore, ancora più madornale dello sterile spontaneismo progressivo, di identificare l’apprendimento per esperienza, che è lento e difficile, che necessita di infinita autodisciplina e diligenza per giungere, se è fortunato, alla gioia della scoperta, con il suo antipodo, con l’apprendimento spontaneo, il cui archetipo è l’imitazione, e che, proprio come l’uso degli strumenti digitali, concede subito la sua ricompensa. L’illusione di una facile conoscenza d’esperienza svia i giovani alla falsa conclusione che la verità sia a portata di mano e consista nell’opinione più comoda. Il dogma di Dewey per cui l’apprendimento è fecondo solo se nasce dall’esperienza semplificata e guidata, ha avuto un effetto ancora più grave sulla successiva pedagogia e sugli insegnanti. Dovendo predeterminare nei progetti didattici le esperienze degli alunni, essi si sono trovati nel dilemma di congiungere la piacevole spontaneità con la severità cognitiva. Il disprezzo di Dewey per la conoscenza discorsiva, così popolare nell’universo mondo, ha contagiato tutta la pedagogia, e si è diffuso di qui nelle scuole e nelle facoltà magistrali. È così che la severità cognitiva è affatto svanita dai progetti didattici e l’intera scuola occidentale si è attestata sull’insulso spontaneismo di Kilpatrick, quello capace solo di alimentare il dilettantismo nei casi migliori e i comportamenti devianti nei peggiori.

Privo di una visione dell’essenza e dello sviluppo della pedagogia, il primo articolo del Credo pedagogico di Dewey è una fuga dalla realtà. Egli immagina l’education come il processo per cui l’individuo si lascia plasmare dalla società e così acquista gradualmente il capitale di risorse intellettuali e morali che essa ha accumulato. In qualche misura si può concedere che il bambino sia dipendente dagli adulti e se ne lasci plasmare (ma già l’adolescente non rientra affatto nel quadro); ma l’altro estremo, quello delle risorse intellettuali e morali accumulate come un capitale dall’umanità, è indeterminato e occorre precisarlo con ipotesi. Forse con l’espressione «risorse intellettuali e morali» Dewey intendeva richiamare la nozione hegeliana di spirito assoluto, vale a dire le opere d’arte riuscite, le religioni e le scienze. Ma questa ipotesi è incompatibile con la pretesa espressa subito dopo che l’educazione sia inconsapevole; infatti non si può arrivare né a produrre né a fruire l’arte, la religione e le scienze senza accorgersene. Occorre allora una seconda ipotesi. Inconsapevolmente si possono assorbire solo i costumi, le abitudini sociali diffuse. Anche questo è in Hegel. Dunque le «risorse intellettuali e morali» accumulate dall’umanità potrebbero essere i costumi di un popolo. Ma proprio per l’inconsapevolezza, i costumi e le abitudini sociali non sono affatto qualificabili come «risorse intellettuali e morali»; essi contengono di tutto, dalle regole dell’araldica alle fogge degli abiti, dalla prostituzione sacra al cannibalismo. Vale a dire, in quanto sono acquisiti inconsapevolmente, i costumi umani non sono la realtà coerente e magnifica cui l’espressione «risorse intellettuali e morali» o la metafora «capitale» intende riferirsi, sono invece un coacervo di realtà diverse e spesso in attrito tra loro. Hegel non si è mai sognato di identificare lo spirito del popolo, intrappolato nella insuperabile finitezza storica, con lo spirito assoluto. Se è inconsapevole, l’educazione non può portare a condividere le risorse spirituali accumulate dall’umanità, ma solo a contrarre i pregiudizi condivisi dal gruppo di cui si è parte. Viceversa, poiché lo spirito assoluto non si costituisce inconsapevolmente, ma risulta dall’estremo sforzo conoscitivo e dalla critica libera, quella che nel confutare coglie il positivo nel confutato, l’educazione consente all’individuo di giungere a condividere le risorse spirituali dell’umanità se è data la condizione necessaria, ma non sufficiente, di essere consapevole. Aver fatto dell’inconsapevolezza la via verso lo spirito è un errore stupefacente e dalle conseguenze drammatiche. Poiché l’inconsapevolezza è il carattere dell’animale, sostenere la tesi che si giunga allo spirito assoluto inconsapevolmente equivale ad animalizzare l’uomo e lo spirito assoluto. Si genera forse di qui l’impressione costante che la pedagogia di Dewey sia incapace di riferirsi all’uomo e si adatti meglio alla domesticazione degli animali.

Uno spirito assoluto animalizzato che fagocita gradualmente gli individui è il ritorno dell’incubo rousseauiano di una società che si costituisce non sulla base della libertà individuale, ma della sua alienazione. Che Dewey sia in preda a questo incubo lo conferma il suo modo di rappresentare il processo educativo. Le situazioni sociali – scrive – stimolano il bambino ad agire per conformarsi, gli altri rispondono alle sue azioni e queste risposte sono il significato e il valore delle azioni infantili[25]. Dewey sembra dire che l’ambiente sociale susciti le imitazioni del bambino e con le sue reazioni ad esse ne confermi il significato. Di fatto, però, non dice questo. Dewey afferma invece la tesi avventata che le azioni del bambino stimolate dalle richieste sociali siano in sé stesse prive di significato e di valore, e che esse li assumano solo in quanto la società ve li immette. Secondo lui, non è il bambino a ricreare con l’imitazione gli atti e le parole significanti e a cercare conferma nelle risposte altrui, ma è la società a infilare un significato in atti e parole di per sé insignificanti. Questo schema, che Dewey pretende di applicare all’apprendimento del linguaggio sostenendo che esso nasce dall’attribuzione sociale di un significato ai balbettii infantili, si adatta, più che al bambino, al cane da tartufi per il quale il loro ritrovamento è un’azione richiesta e dapprima priva di significato, che acquisisce, immaginiamo, quello di «cibo gustoso» in quanto il padrone lo compensa con un pezzo di carne. Certo non si adatta alla pedagogia. Se ve la si forza, essa dimentica completamente l’io come essenza dell’uomo e il linguaggio come premessa dell’istruzione, e si perde in elucubrazioni per cui l’educatore deve osservare attentamente la presunta mobilità animale del bambino per trovarle un significato sociale, così da indirizzarlo alla cellula giusta dell’organismo società, con soddisfazione di tutti. Il disprezzo di Dewey per l’individualità non è restato latente; il suo credo pedagogico è risultato gradito quasi a tutti i totalitarismi del Novecento: negli anni ’20 Lunačarskij diffuse la scuola attiva in Unione Sovietica; negli anni ’30 il fascismo emarginò Gentile e si aprì al pragmatismo; perfino il tiranno più atroce, Mao, ebbe un’infatuazione per Dewey[26].

Trasformato il bambino in animale, si possono agevolmente trascurare le soluzioni di continuità che segnano lo sviluppo umano, il miracolo del linguaggio e il miracolo dell’io. La scuola di Dewey si affida così alla gradualità educativa[27] con l’intento di generalizzare il piacevole apprendimento imitativo domestico all’apprendimento scolastico apparentemente sperimentale e di escludere dalla scuola l’istruzione e la sua necessaria disciplina: «Violiamo la natura del fanciullo […] introducendolo troppo bruscamente a una quantità di studi speciali, come il leggere, lo scrivere, la geografia e altri […]»[28]. Il sogno di scivolare direttamente dal piacere imitativo all’apprendimento da esperienza edulcorata senza passare per le spine dell’istruzione, si ripercuote nel rifiuto del carattere preparatorio dell’infanzia. Accusando la scuola tradizionale, che vuole insegnare a leggere, a scrivere e a contare, di sacrificare il presente del bambino all’utilità futura, Dewey raccomanda alla scuola progressiva di fare dell’educazione «un processo di vita e non una preparazione a un vivere futuro»[29], vale a dire un’esperienza solo piacevole – come se nella vita non ci fossero anche la fatica e il dolore. Ma l’accusa alla scuola che insegna a leggere, a scrivere, a far di conto, è infondata; infatti trascura che il bambino non è solo un animale in rapporto fisico con l’ambiente, ma è anche immaginazione, e può appassionarsi alla lettura dei libri non meno che a qualunque altra attività. E la raccomandazione è evidentemente assurda, perché nell’uomo, e perfino in molti animali, il prepararsi al futuro, la previdenza, non è mai in antitesi alla vita presente, ma ne è parte essenziale.

All’insegnante resta pochissimo da fare. Dewey lo trasforma nel gouverneur fantasticato da Rousseau. Ignorando, sulla base del principio di gradualità, quanto sia necessario il salto all’istruzione; ignorando, sulla base della scuola come vita, che l’istruzione consiste proprio nell’offrire al bambino conoscenze e abilità universali, quindi astratte, che mai il bambino vorrebbe e potrebbe prendere da solo, Dewey sostiene che «l’insegnante non è nella scuola per imporre certe idee al fanciullo o per formare in lui certi abiti, ma è lì come membro della comunità per selezionare le influenze che agiranno sul fanciullo e per assisterlo convenientemente a reagire a queste influenze»[30]. Né gli è consentito imporre la disciplina, che invece «deve derivare dalla vita della scuola intesa come un tutto». Che il tutto scolastico sia giudice migliore dell’insegnante presuppone la fede nella bontà naturale dei fanciulli che lo compongono, cioè dall’incomprensione della natura duplice dell’innocenza già risultata fatale a Rousseau. Di fatto, dove il progressivismo di Dewey è stato attuato con più coerenza, non si è fatta valere l’ipotetica bontà naturale, ma il lato sgradevole dell’innocenza, e gli istituti scolastici sono diventati aree selvagge, pericolose per gli alunni e per gli insegnanti. Meno che mai Dewey consente all’insegnante di valutare le prestazioni effettive degli alunni: «Gli esami servono solo se vagliano l’attitudine del fanciullo alla vita sociale e rivelano il posto nel quale può essere massimamente utile e nel quale può ricevere il maggiore aiuto». L’ossessione ideologica di non lasciare nulla intatto spinge il pedagogista ad anticipare di un secolo l’attuale prosa ministeriale e a formulare proposizioni tanto vaghe quanto spaventose; infatti l’attitudine alla vita sociale può anche significare conformismo, l’utilità è la riduzione a strumento del fanciullo e il bisogno di aiuto contrasta con il fine della libertà dell’io.

Dopo aver fatto dell’insegnante un occulto organizzatore di ambienti di apprendimento, dopo averlo cioè umiliato a un ruolo marginale, Dewey prende improvvisamente a esaltarlo nel finale del Credo: «L’insegnante è impegnato non solo nell’educazione degli individui, ma nella formazione della corretta vita sociale. Ogni insegnante deve rendersi conto della dignità della sua vocazione. Egli è un uomo al servizio della società, preposto a mantenere il corretto ordine sociale e ad assicurare il giusto sviluppo sociale. In tal modo l’insegnante è sempre il profeta del Dio vero e l’inauguratore del vero regno di Dio»[31]. Dewey compensa l’umiliazione didattica dell’insegnante con la sua esaltazione politica, facendone un manipolatore delle coscienza, com’è accaduto nelle scuole dei regimi totalitari. La scuola che non insegna educa, vale a dire si dà alla propaganda ideologica. Quale sia l’ideologia a cui la vota, Dewey lo esprime apertamente. Egli vorrebbe riconciliare l’individuo con la società; ma a causa della sua allergia all’io e alle discontinuità in generale, la riconciliazione è piuttosto un sacrificio dell’individuo al collettivo. La sua concezione – scrive – «ha il dovuto riguardo sia per gli ideali individualisti sia per quelli socialisti.[32] Essa è debitamente individuale perché riconosce la formazione di un certo carattere come la sola base genuina del retto vivere. È socialista perché riconosce che questo retto carattere non si può formare con precetti, esempi ed esortazioni soltanto individuali, ma piuttosto con l’influenza di una certa forma di vita istituzionale o comunitaria sull’individuo, e che l’organismo sociale può determinare risultati etici attraverso la scuola come suo organo»[33]. Ma è immediatamente evidente che formare un certo carattere ai fini del retto vivere, anche quando si voglia tacere per imbarazzo l’aggettivo «sociale», è l’esatto contrario dell’individualismo. Per dare soddisfazione all’individuo, sarebbe stato necessario, non volerlo formare, che equivale a negarlo, ma lasciarlo fare e consentirgli tutto ciò che non sia espressamente proibito dalla legge, per quanto meschino ed egoistico possa sembrare dal punto di vista del retto vivere. Ma Dewey ha appena avuto parole di disprezzo per il vero presidio dell’individuo, ossia  la legge e il diritto[34], così la sua deriva verso un socialismo monolitico e pervasivo è inarrestabile: a quanto si legge, egli pensa il socialismo come l’autorizzazione dell’organismo sociale a influenzare gli individui in forma occulta evitando il linguaggio aperto, e a farlo attraverso la scuola, usando cioè l’insegnante come manipolatore per «plasmare […] le capacità umane e […] adattarle a beneficio [non degli uomini, certo, ma] della società».

La pedagogia di Dewey, tecnicamente così spericolata, può essere compresa solo in quanto compromessa dal settarismo politico, come frutto dell’ansia ugualitaria. Il mondo infantile è ingenuo, i bambini sembrano uguali e sono ancora lontani dalle vertiginose differenze che si sviluppano tra gli adulti. Nella scuola Dewey vede dunque confrontarsi il principio di uguaglianza infantile e il principio di differenza del mondo adulto rappresentato dall’insegnante[35]. La scelta tra scuola puerocentrica e scuola tradizionale è per lui non una scelta tecnica che risponde al criterio dell’efficacia dell’insegnamento, ma una decisione politica categorica tra uguaglianza e differenza: nella sua ottica, la scuola tradizionale, che ha nell’insegnante e nelle discipline il suo centro, non può che contaminare l’ugualitarismo infantile con la differenza propria del mondo degli adulti di cui l’insegnante e le discipline sono parte; invece quella puerocentrica, proprio perché considera il bambino un essere in atto, anziché un essere in potenza, può irraggiare l’uguaglianza infantile sul mondo adulto. Presa nella morsa del puerocentrismo, la valorizzazione delle materie disciplinari, con cui Dewey vorrebbe distinguersi dalle versioni solo polemiche della pedagogia progressiva, è subito vanificata: anche per lui l’alunno non deve sollevarsi all’altezza della materia disciplinare, ma è il docente che deve umiliarla fino al punto in cui la sua compattezza teorica, vale a dire il discorso dimostrativo, universale e necessario, verso il quale la scuola deve dare la spinta, si sfalda volatilizzandosi in un ambiente d’apprendimento contiguo all’esperienza quotidiana dell’alunno: «Il vero centro di correlazione tra le materie scolastiche […] sono le attività sociali del fanciullo stesso»[36].

La passione ugualitaria imprigiona Dewey nella pedagogia progressiva da cui vorrebbe distinguersi. Gli manca la lucidità con cui Gramsci seppe riconoscere, nei suoi momenti migliori, che la pedagogia progressiva non può in ogni caso favorire l’uguaglianza sociale: «Al proletariato è necessaria una scuola disinteressata. […] Una scuola umanistica, insomma, come la intendevano gli antichi e i più recenti uomini del Rinascimento»[37]; invece «nella scuola attuale, per la crisi profonda della tradizione culturale e della concezione della vita e dell’uomo, si verifica un processo di progressiva degenerazione: le scuole di tipo professionale, cioè preoccupate di soddisfare interessi pratici immediati, prendono il sopravvento sulla scuola formativa, immediatamente disinteressata. L’aspetto più paradossale è che questo nuovo tipo di scuola appare e viene predicata come democratica, mentre essa non solo è destinata a perpetuare le differenze sociali, ma a cristallizzarle in forme cinesi»[38]. Come Hirsch non si è stancato di ripetere nel suo testo ormai classico sulla scuola americana[39], un insegnamento scolastico privo di insegnamento diretto e di conoscenza teorica approfondisce la distanza tra i figli dei ricchi, che comunque li ricevono in famiglia, e i figli dei poveri, che potrebbero riceverli solo a scuola. A Dewey la scuola tradizionale appare invece mortificante, lo studio degli alunni non anche attivo ma soltanto passivo, il silenzio in classe, anziché requisito per la concentrazione, effetto dell’autoritarismo, l’ordine immoto dei banchi, anziché funzionale al moto delicato dell’occhio che legge e della mano che scrive, una camicia di forza. Ma la sua scuola, che si tiene nella comoda orbita dell’esperienza del bambino e procrastina il salto verso la scrittura e la teoresi, nell’inseguire l’intento ugualitario, ha effetti paradossalmente discriminatori proprio sul piano dell’uguaglianza sociale entro la società effettiva. Il pedagogista non ha compreso, come Gramsci, che «anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza»[40].

Altrettanto insostenibile è l’identità che Dewey stabilisce tra scuola tradizionale e ingiustizia sociale. È un sottile odio di classe, e non una considerazione spassionata, che lo spinge a condannare la didattica tradizionale: «La base del sistema educativo tradizionale è una società di classe; la possibilità dell’istruzione in certe materie, specialmente in quelle letterarie e nelle matematiche […], era riservata ai nobili e ai ricchi. A causa di ciò la conoscenza di queste materie divenne un’insegna di superiorità culturale e di dignità sociale. Per molti il possesso di questa conoscenza fu un mezzo di sfoggio, quasi di esibizionismo»[41]. Imprigionato nel famigerato «Discorso sulle scienze e sulle arti» di Rousseau, Dewey insinua che l’abuso classista della cultura ne invalidi l’essenza e ne renda auspicabile il rifiuto. Non vede che la scuola pubblica tradizionale, pur avendo per base una società di classe, ha l’espresso obiettivo di generalizzare «l’istruzione in certe materie» così da purificarle dal loro odioso connotato di privilegio e da elevare tutti, in particolare i capaci e i meritevoli qualunque sia la loro classe di origine, al mondo delle idee. Che l’educazione superiore fosse appannaggio di pochissimi, che la maggior parte degli alunni abbandonasse la scuola alla licenza elementare o prima, doveva indurlo non a volerla smantellare, ma a chiedere più mezzi per la scuola tradizionale, affinché sapesse valorizzare le capacità di ognuno e facesse di tutto per non escludere nessuno dal percorso. Alla scuola tradizionale non è affatto essenziale l’esclusivismo; lo può evitare senza essere disfatta, essendo anzi resa più fedele alla sua vocazione. Ma Dewey sogna l’organicità socialista. Così insinua falsamente che «nella maggior parte degli esseri umani il puro e semplice interesse intellettuale non è quello che domina»[42], ignorando che l’interesse intellettuale nasce dall’universalità dei nomi, a cui ogni essere umano, in quanto parlante, ha accesso, e che tutti, i bambini per primi, liberi dalle necessità, vogliono capire ciò di cui fanno esperienza. Dalla falsa insinuazione Dewey conclude rovinosamente che per combattere l’esclusività della scuola occorre distruggere la sua specificità, introducendo «nei processi educativi le attività che si indirizzano a coloro in cui predomina l’interesse per il fare e per il costruire»[43]. Condannando il nobile intento della scuola tradizionale di elevare tutti alla conoscenza disinteressata, Dewey dà al suo ugualitarismo i caratteri sgradevoli dell’invidia, e si fa paladino del pauperismo didattico: la rinuncia della scuola a insegnare cultura e scienza, perché solo l’ignoranza è compatibile con l’uguaglianza assoluta.

Solo perché è pungolato dallo sperone dell’odio di classe, Dewey, con un completo rovesciamento della realtà, taccia di egoismo, che è sinonimo di atteggiamento interessato, la conoscenza disinteressata: «La mera ingestione di fatti e di verità è un affare così esclusivamente individuale, che tende in modo molto naturale a diventare egoismo. Non c’è motivo sociale evidente nell’acquisto del puro sapere, non c’è chiaro beneficio sociale nel procurarselo»[44]. Ma è evidente il contrario: che ogni scelta razionale, individuale o politica, presuppone sia l’«ingestione» di fatti e di verità, vale a dire il dovere di documentarsi, sia il sapere puro, vale a dire la disciplina metodica che consente di elaborarli in modo imparziale. Disprezzando i fatti e il sapere puro, il pragmatismo si affida all’entusiasmo volontaristico, fiducioso che ai sognatori del socialismo tutto sarà dato nel sonno. Ma gli esperimenti non illuminati falliscono immancabilmente dopo aver ridotto a cavie interi popoli, e provocano le grandi catastrofi di cui il Novecento è stato testimone.

  • Società organica e pedagogia totalizzante in Dewey.

Nella prima delle tre conferenze tenute nel 1899 da Dewey a Chicago sulle sue esperienze nella scuola annessa all’università emerge come la sua rappresentazione della società oscilli tra la realtà e l’utopia[45]. Di solito, dichiara all’inizio, ci interessiamo alle esperienze e ai progressi scolastici dei nostri figli; ma «quello che il singolo desidera per suo figlio, la comunità lo deve desiderare per tutti i suoi ragazzi». La frase ha un’apparenza di ovvietà, ma una semplice riflessione mostra il suo rapporto difficile con l’idea di Stato. Anzitutto non il singolo, ma una ben precisa comunità, cioè la famiglia, si preoccupa dell’istruzione scolastica dei figli. Che poi «la comunità» debba desiderare per i «suoi ragazzi» ciò che la famiglia desidera per i suoi figli, assimila implicitamente la comunità a una grande famiglia, fa cioè l’assunzione problematica che la solidarietà familiare sia il modello dell’azione sociale. Nella realtà, però, famiglia e comunità non hanno il rapporto quantitativo di maggiore e minore, sono forme etiche opposte. La famiglia è la comunità unita dall’intimità sentimentale tra membri naturalmente complementari (maschio/femmina, bambino/adulto), e chiusa verso l’esterno. La porta di casa con la serratura testimonia che la sua unione è, nel contempo, esclusiva, dunque principio di atomizzazione esterna: le molte famiglie sono tutt’altro che una grande famiglia. Può dunque essere certo una buona intenzione chiedere, come fa Dewey, che tra i membri della comunità ci sia solidarietà come tra i membri della famiglia; ma è una buona intenzione senza base etica, perché la comunità, in ogni caso, non è composta di membri naturalmente complementari, ma di persone indipendenti, e l’indipendenza della persona non è un valore sacrificabile più di quanto lo sia la solidarietà.

La comunità effettiva è il mondo del lavoro e dello scambio mercantile per la soddisfazione dei bisogni, che Hegel ha chiamato società civile. Atomizzata in persone e nelle loro classi con interessi particolari in competizione, essa è tenuta parzialmente insieme dal fatto che entro il quadro del mercato i propri interessi particolari possono essere soddisfatti solo se si conoscono e si soddisfano gli altrui interessi particolari. Anziché solidale, la società effettiva è dunque unita solo esternamente e a volte contro le intenzioni immediate delle persone. D’altro canto l’estraniarsi dell’unità familiare nell’atomismo della società civile non va inteso come se l’indipendenza tra gli individui e la differenza tra le classi fossero necessariamente un conflitto violento, un male a cui dover rimediare con un’ultima violenza definitiva[46]. Le classi non sono caste chiuse e si conciliano con il principio di uguaglianza della persona in quanto consentono la mobilità sociale in base al merito degli individui. La società civile articolata in classi sociali aperte sulla base del merito consente quell’indipendenza della persona che, come non solo il concetto ma anche la storia del Novecento mostrano, è necessaria allo sviluppo della libertà nello Stato autentico. Solo in quanto la differenziazione propria della società civile, nell’essere ricondotta alla solidarietà dallo Stato, è anche conservata, la solidarietà dello Stato è pubblica, non ha cioè natura sentimentale come nella famiglia, non riguarda individui parziali e complementari, ma ha natura giuridica, conserva il momento della libera personalità degli individui senza immergerli nella notte indistinta dell’organicità totalitaria.

Esigendo una società che deve essere una grande famiglia e preoccuparsi dei suoi ragazzi come la famiglia si preoccupa dei suoi figli, Dewey non può distinguere tra l’unità sentimentale della famiglia, l’atomismo della società civile e l’unità giuridica dello Stato. Egli confonde le tre sfere, senza la cui differenziazione non si dà libertà, in un’unità informe, in una società indeterminata che è direttamente anche famiglia e Stato, e nella quale l’indipendenza della persona è condannata come egoismo[47]. Ed essendo strumento per realizzare l’utopia della società indeterminata, la sua stessa pedagogia perde ogni distinzione interna. Ma la pedagogia è divisa in quattro parti, tutte ugualmente indispensabili, nondimeno da tenere ben distinte se si ha a cuore la libertà:

1) l’allevamento – la salute fisica dei bambini, la cui cura spetta ai familiari: genitori, nonni, fratelli;

2) l’educazione in senso stretto (non nel significato anglosassone che tende a coprire tutte le competenze della pedagogia) – la liberazione del bambino dalla sua istintività e il suo elevarsi a io in grado di riconoscersi nella libertà esistente. Essa rientra nell’ambito etico, ha forma dapprima implicita, dunque dogmatica, nasce cioè dall’imitazione dell’esempio offerto dagli adulti e dalla loro autorità personale, e spetta soprattutto ai genitori;

3) l’addestramento l’imparare un mestiere o una professione utile alla società, così da diventare produttore e poter partecipare al sistema economico. Nelle società pre-industriali il mestiere non presupponeva una preparazione teorica; era sufficiente il sapere empirico, così l’addestramento avveniva in famiglia o sul luogo di lavoro; da tempo il sapere teorico, già la semplice alfabetizzazione, è un presupposto di ogni mestiere e professione; l’addestramento è dunque associato all’istruzione ed è dato nelle scuole tecnico-professionali e, nei suoi gradi superiori, nelle università.

4) l’istruzione essendo libero (a differenza degli animali con cui condivide almeno le tracce delle precedenti forme pedagogiche), l’uomo lascia libero l’oggetto, che così gli diventa estraneo, ma poi si sforza di conoscerlo, e infine vi si riconosce e gode della corrispondenza tra la sua libertà e quella dell’oggetto, vale a dire della verità. La conoscenza oggettiva e il relativo godimento costituiscono la teoresi, che per la sua libertà è fine a sé stessa, non alla produzione e al consumo come l’addestramento, e per la sua oggettività è universale, dimostrativa, non dogmatica come l’educazione. Legata, per la sua universalità, al segno e alla scrittura, la teoresi è il compito proprio della scuola. Questa non ha dunque un fine diretto di igiene, di educazione etica o di utilità materiale, ha il compito di elevare la gioventù dalla particolarità della loro esperienza all’universalità dell’arte e della scienza e quello complementare di assicurare a queste la conservazione e il rinnovamento – in termini negativi, il compito di impedire la barbarie. Solo mettendosi al servizio della cultura, la scuola può essere anche utile; la cultura è infatti anche l’imparzialità dello spirito conoscitivo, la forza di accettare le antitesi, che consente l’azione razionale. – Su questo punto la Costituzione italiana è limpida: l’insegnamento è connesso non al miglioramento sociale o individuale, ma all’arte e alla scienza libere, e su tale base gli è garantita la stessa loro libertà.

Sulla scia della pedagogia progressiva, Dewey ignora queste differenze, priva la scuola del compito di elevare i discenti alla teoresi e la limita alla socializzazione e all’attività pratica, dunque all’educazione inconsapevole[48]. La conseguenza della sua indistinzione è duplice. Anzitutto la scuola che si modella sulla famiglia e sul lavoro, la scuola educativa, usurpa le competenze della famiglia, che deve dunque subire l’intrusione della scuola e dello Stato nell’allevamento e nell’educazione dei figli, come era previsto nella teoria politica platonica ed è accaduto nei regimi totalitari; in questo senso, nell’Introduzione Lamberto Borghi arriva a parlare di «emotività disturbante… della famiglia»[49]. Inoltre, la scuola educativa, neldisattendere la cultura e nello squalificare le pratiche didattiche legate ai segni e alla civiltà rinuncia all’oggettività scientifica e all’equidistanza tra i partiti opposti. La sua esigenza di radicale rinnovamento produce una confusione babelica degli ambiti per cui la scuola diventa un’istituzione totale votata all’indottrinamento.

  • L’equivoco di Dewey sulla scienza moderna e l’esclusivismo empiristico.

Sempre nella conferenza citata, Dewey osserva che la società ha vissuto una grande trasformazione: «Il cambiamento […] che eclissa […] tutti gli altri, è quello industriale – l’applicazione della scienza che ha dato luogo a grandi invenzioni[50], in grado di utilizzare le forze della natura su scala vasta ed economica: il sorgere di un mercato mondiale come sbocco della produzione, di vasti centri manufatturieri per approvvigionare questo mercato, di mezzi di comunicazione e di distribuzione economici e rapidi fra tutte queste parti»[51]. Dewey dichiara esplicitamente che l’applicazione della scienza dà luogo al progresso tecnico che anima l’industrializzazione; poiché concepisce però la scienza in modo inadeguato, da questa sua dichiarazione trae prescrizioni didattiche rovinose.

La scienza che alimenta il progresso tecnico e rafforza il dominio dell’uomo sulla natura, nasce non dall’empirismo di Bacone, ma dal metodo delle sensate esperienza e delle certe dimostrazioni di Galilei. Essa è una scienza matematizzata. Pur suscettibile di applicazione empirica come ogni scienza, la matematica non è una descrizione empirica, ma una disciplina ipotetico-deduttiva, che, con più insistenza di altre scienze, esige un contegno puramente teoretico, vale a dire l’amore per la conoscenza, lo sforzo intellettuale disinteressato, quello che secondo Aristotele nasce dalla meraviglia per l’inaspettato ed è diretto soltanto a capire. È l’evidente natura ipotetico-deduttiva della matematica, la sua capacità di dimostrare le conoscenze e non soltanto di usarle, ad aver imposto a Platone la teoria delle idee e a Kant l’idea della conoscenza universale e necessaria.

Il riconoscimento del ruolo primario della scienza della natura nell’impetuoso progresso industriale doveva indurre Dewey a riconoscere l’importanza del pensiero puro e a superare l’angustia empirista o pragmatista. Sebbene la grande filosofia ellenica abbia concepito la teoresi solo come σχολή, otium, vita autosufficiente e felice sottratta all’impegno pubblico, infine la rivoluzione industriale ha mostrato che la ricerca disinteressata della verità è anche la base indispensabile del progresso tecnico e dell’incremento della produttività; che la teoresi è non solo l’attività fine a sé stessa della vita felice, quale la considerarono gli antichi, non solo ha la massima utilità, quella della libertà di spirito, ma è anche .necessaria al progresso materiale. Né poteva essere diversamente: solo il contegno teoretico ha la libertà di rinunciare all’interesse particolare e alle rigidezze e alle illusioni che ogni particolarità implica, per lasciare all’oggetto la sua libertà, per conoscerlo come tale.

La conseguenza didattica di questo fatto è che la scuola occidentale, basata sulla grammatica e sulla matematica, esce confermata, non smentita, dalla scoperta dell’importanza materiale della scienza. Proprio perché immerge i discenti nelle più sottili distinzioni logiche delle lingue classiche e della matematica assiomatizzata da Euclide, proprio perché li allontana dall’esperienza e dall’utilità immediata, la scuola occidentale è in grado di offrire la base universale per le indagini sofisticate in cui si impegnano la scienza e la tecnica[52]. Nella precedenza storica dell’umanesimo sulla rivoluzione scientifica è racchiuso un sillogismo: la scuola della disciplina logico-grammaticale e della matematica euclidea, essendo fondamento immediato della scienza, è fondamento mediato del progresso tecnico e industriale che la scienza consente. La scuola che impegna i suoi discenti nelle discipline logico-grammaticali e nelle matematiche, apparentemente astratte e artificiali, proprio per questo li sa formare al valore dell’oggettività, proprio per questo forgia, non soltanto retori, come stupidamente le si rinfaccia, ma filosofi, matematici, scienziati e ingegneri.

Dewey non comprende tutto ciò. Così, mentre i sostenitori dell’importanza scientifica dell’a priori non hanno mai avuto difficoltà a riconoscere l’importanza dell’a posteriori, egli si è perso nella velleità di derivare la scienza teorica dall’esperienza quotidiana. Per questo scrive che «nella storia delle razze le scienze sono nate gradualmente dalle occupazioni utili»[53], laddove una minima informazione storica attesta proprio il contrario, che le scienze non sono nate gradualmente, non sono nate in tutte le razze, ma solo in quella ellenica, e non sono nate dalle occupazioni utili, ma dalla logica e dalla matematica coltivate per sé e poi applicate all’esperienza. La matematica lo mette in grave imbarazzo: «La matematica è ora [!] una scienza molto astratta. Geometria, però, significa letteralmente misurazione della terra»[54]. Dewey ignora che la matematica è «molto astratta» non da ora, ma dalla sua nascita al tempo dei greci, quando è uscita dalla sua preistoria empirica e ha iniziato a essere dimostrativa, senza nondimeno perdere la sua utilità pratica, anzi accrescendola in misura infinita, come dimostrò la scienza ellenistica. Anziché concepire la sostanza teoretica della scuola dell’occidente come la causa ultima del successo tecnico, Dewey la ritiene, senza alcuna ragione e con toni quasi diffamatori, estranea all’industrializzazione, una landa infestata di inutile verbalismo, che occorre bonificare e mettere a coltura. All’istruzione scolastica basata sugli studi classici e sulla matematica è negato il merito di essere artefice della rivoluzione tecnica; essa è condannata come un’istituzione estranea alla vita, da adeguare al mondo nuovo che l’avrebbe resa obsoleta: «È inconcepibile che questa rivoluzione [tecnica] non debba influire sull’educazione in modo non soltanto formale e superficiale»[55]. L’errore diagnostico di trascurare la parte che la teoresi pura ha nel progresso tecnico, porta con sé l’errore terapeutico di voler distruggere la scuola occidentale per sostituirla con una triste parodia.

Prosegue infatti Dewey: «Il sistema di fabbrica è stato preceduto dall’organizzazione familiare e di vicinato»; nel mondo pre-industriale «la famiglia era praticamente il centro intorno a cui confluivano e intorno al quale si raccoglievano tutte le forme tipiche di attività industriale»[56]. Nell’espressione trascritta in corsivo c’è un equivoco che consente il non sequitur alla radice di ogni pedagogia progressiva: l’espressione «tutte le forme tipiche di attività industriale» può indicare 1) tutte le forme tipiche della produzione familiare; ma può anche indicare 2) tutte le forme tipiche della produzione industriale in generale, non solo quelle familiari, ma anche quelle dell’industria moderna. Dewey dovrebbe escludere questo secondo senso, anzitutto perché contrasta con quanto ha scritto in precedenza: che tutte le attività industriali fossero già praticate nelle famiglie pre-industriali, contraddice che l’industrializzazione sia stata una svolta nella civiltà umana; poi perché è falso in sé stesso: i villaggi contadini disponevano di un esiguo sapere empirico e ignoravano la teoria meccanica, chimica, elettromagnetica, atomica, informatica, quindi nel mondo pre-industriale erano del tutto assenti i relativi settori industriali. Ma Dewey non è molto accurato nella determinatezza dei concetti, la sua coerenza logica non sa resistere alla sua intenzionalità ideologica; perciò intende la sua espressione nel secondo senso: egli sostiene che l’organizzazione familiare e di vicinato praticava tutte le forme di attività industriale in generale.

Da questa incoerenza segue la catastrofe della sua pedagogia: poiché considera la teoresi un ozioso ornamento dei ricchi e dei nobili, egli attribuisce i presupposti cognitivi e sociali della produzione industriale al sapere empirico della famiglia contadina e artigiana e del suo vicinato. Ne segue che per lui la propedeutica scolastica alla grande industria non è data dall’istruzione classica, base di ogni raffinamento teorico, ma deve essere fornita da un ritorno al clima morale e al sapere empirico della civiltà pre-industriale. È il contadino di Emerson, non il selvaggio di Rousseau, il modello della pedagogia di Dewey. Se la scienza nasce dall’empirismo familiare e di vicinato, l’umiliazione della teoria e dell’insegnante a scuola e la riesumazione delle attività «concrete» dissimulano la loro essenza nostalgica e possono essere spacciate come adeguamento dell’istruzione al mondo industriale: se nel villaggio pre-industriale si produceva non tutto ciò di cui si aveva bisogno e che era possibile produrre con i mezzi del tempo, ma tutto ciò che l’industria in generale produce, allora non occorre estendere e intensificare l’istruzione teorica nelle scuole, al contrario, basta ricrearvi il villaggio tradizionale per adeguare i bambini e i giovani al mondo nuovo.

Benché assuma volentieri un linguaggio scientista, il cuore del progressismo pedagogico è dunque, come ha mostrato Hirsch, romantico-reazionario. Scrivendo: «Le lezioni oggettive impartite come lezioni oggettive… non potranno sostituire, neppur da lontano, le conoscenze sulle piante e sugli animali dell’orto o del giardino che si ottengono effettivamente fra essi, accudendo ad essi»[57], Dewey echeggia l’encomio della cultura analfabeta di Emerson: «Siamo rinchiusi nelle scuole e nelle aule di recitazione dei college per dieci o quindici anni, ne usciamo infine con una scorpacciata di parole e non conosciamo una cosa reale… La fattoria, la fattoria è la scuola giusta. La ragione del mio profondo rispetto per il contadino è che lui è un realista, non un dizionario»[58]. Poi però Dewey va oltre il romanticismo nostalgico; attribuendo una falsa origine al mondo industriale intende non fuggirlo, ma mutarne la natura, correggerne l’individualismo. Poiché si illude che la teoria scientifica derivi dal comunitarismo della famiglia e del vicinato, egli trasforma il ranocchio della vita contadina nel principe di una propedeutica educativa in grado di umanizzare il mondo industriale, una via pedagogica al socialismo. E per meglio accreditare la prima magia, con una seconda magia rende sterile la fatica scolastica sui segni e sulle discipline teoriche: «La memoria verbale può essere addestrata mediante compiti assegnati, una certa disciplina dei poteri raziocinativi può essere conseguita con lezioni di scienza e matematica; ma alla fin fine, tutto questo è alcunché di remoto, un’ombra, se lo si paragona con l’educazione dell’attenzione e del giudizio che si acquista col fare qualcosa di effettivo per un motivo reale e per una reale finalità da raggiungere»[59] – come se proprio questo intreccio con la realtà, ossia con fini particolari, non disturbasse la conoscenza oggettiva e non dovesse essere sciolto dalla facoltà d’astrazione. Infine, per intimidire i dubbiosi, accusa di asocialità la didattica orientata alla teoresi estendendo alla totalità dei suoi momenti ciò che è caratteristico delle sole verifiche sommative; di qui la calunnia che nella scuola tradizionale la competizione «domina talmente che l’aiutare un compagno nel suo compito diventa un delitto scolastico»[60]. Invece, «dove fa capolino il lavoro attivo, tutto questo cambia»[61]. Sedotto dal principio rousseauiano della bontà naturale dell’uomo, Dewey attribuisce agli alunni «l’interesse per la conversazione o la comunicazione; per l’indagine o la scoperta delle cose; e per l’espressione artistica»[62], e dimentica, come il suo maestro, che gli alunni sono animati anche dall’impulso a offendere, da quello a distruggere e da quello a vandalizzare. È per questa dimenticanza che le scuole anglosassoni votate all’attivismo non soltanto non riescono a insegnare nulla ai loro alunni, ma ne mettono a continuo repentaglio l’integrità fisica.

La fiducia di Dewey nella fecondità pedagogica dell’attività concreta con un fine reale, di cui l’alunno è protagonista, quella che il suo allievo Kilpatrick chiamò «progetto», ha origine nel naturalismo pedagogico. Questa concezione nasce dall’illusione di poter dissolvere la specificità dell’apprendimento secondario dominato dal linguaggio nell’apprendimento primario dominato dall’imitazione, vale a dire dall’illusione di poter generalizzare l’apprendimento imitativo del movimento e del linguaggio orale a ogni successivo apprendimento. L’errore inizia dall’osservare correttamente che i bambini imparano a muoversi e a parlare non attraverso lezioni ed esercitazioni di ginnastica e di grammatica, ma per intima motivazione, con piacere e imitando gli adulti; dall’osservazione iniziale trae la conclusione del tutto ingiustificata che ogni apprendimento, se vuole essere effettivo, deve essere un piacevole apprendimento spontaneo. Per quanto sia un sogno romantico che sorride al cuore di tutti, questa concezione è evidentemente infondata: la generalizzazione del modo di apprendimento del movimento e del linguaggio agli altri apprendimenti è scorretta e inopportuna. Tutti imparano a muoversi e a parlare senza fatica e per imitazione spontanea degli adulti. Ma l’imitazione facile e spontanea, sufficiente ad apprendere il movimento e il linguaggio, è un’abilità segnata da un rapido decadimento: mentre il bambino può apprendere senza fatica e perfettamente due lingue insieme, apprendere una nuova lingua da adulti significa apprenderla con un accento estraneo e comporta difficoltà. Né l’imitazione facile e spontanea vale per l’apprendimento di tutte le altre abilità umane; queste, infatti, hanno sempre a che fare non con il corpo umano, ma con oggetti artificiali esterni, con strumenti determinati – perfino la geometria euclidea risulta dalla riga e dal compasso. In particolare, la padronanza delle lettere e dei numeri, che è il fine elementare dell’insegnamento scolastico, è un’abilità che, per il carattere evidentemente artificiale del suo oggetto, ha bisogno di una precisa didattica (oggi in via di estinzione) e non può essere sviluppata da nessuna occupazione concreta. Infatti non c’è nessun momento nello sviluppo naturale umano in cui si inizi spontaneamente a scrivere e a calcolare, così che sia sufficiente fornire un ambiente favorevole e qualche imbeccata perché spuntino dalla mente la letteratura e la matematica. Delirare che quel momento esista implica un rifiuto rousseauiano dell’artificialità dell’uomo, significa dimenticare che l’artificialità è una manifestazione della sua libertà, dunque un privilegio. Attendere quel momento comporta necessariamente il ritardo indefinito dell’alfabetizzazione e la rinuncia al contegno teoretico – e questa animalizzazione è il risultato effettivo della scuola progressiva.

L’uomo non solo sa gettare becchime alle galline e raccogliere uova, sa anche capire un teorema matematico, è non solo riferimento all’empirico e all’utile, è anche bisogno di conoscenze universali in forma universale, è anche bisogno di essere convinto con la dimostrazione. L’universalità non è un oggetto materiale che possa essere indicato con un’immagine, ma è la regolarità nella vicenda degli oggetti materiali, che può essere indicata solo dai segni e può essere dimostrata solo dalle loro connessioni. Trattare l’esigenza di universalità e necessità come remota e come ombra equivale a concepire l’uomo come il bruco che restringe il suo intero mondo alla foglia su cui è posato e che divora. Il contegno teoretico, per quanto esista in una forma che all’evidenza sensibile appare un’ombra remota[63], dà la ricompensa più preziosa, permette cioè di capire la realtà, di muoversi in essa sentendola familiare, in una parola, di essere al tempo stesso oggettivi e liberi.

In definitiva, Dewey riconosce che «nelle attuali condizioni qualsiasi attività, per avere successo, deve essere diretta […] da chi è esperto di scienza»[64]; poi però rovina tutto, immaginando che sia il lavoro manuale a offrire l’occasione di diventare esperti di scienza, a conferire l’abito scientifico come strumento di partecipazione alla società moderna, a eliminare gran parte del disagio del lavoro industriale e a guarire i malanni sociali[65]. Dopo aver constatato che l’industria ha fatto scomparire «le occupazioni che si svolgevano nell’ambito della casa e del vicinato»[66], dopo aver mostrato rassegnazione all’estinguersi di quel mondo e apertura al mondo nuovo, Dewey ha ceduto al romanticismo, si è afferrato al ricordo del mondo pre-industriale, e ha sognato una scuola che, nel ricreare il villaggio rurale, facesse miracoli teorici con la bacchetta magica dell’occupazione concreta. Egli si chiede: «Come possiamo trarre profitto da questi benefici [quelli dell’industrializzazione], e pure introdurre nella scuola qualche cosa che rappresenta l’altro aspetto della vita – occupazioni che esigono precise responsabilità personali e mettono il ragazzo a contatto con le realtà fisiche della vita?»[67] È evidente però che la famiglia e il vicinato pre-industriali e il loro empirismo non rappresentano affatto «l’altro aspetto della vita», ma sono una forma di civiltà estinta, che appare idilliaca soltanto alla nostalgia di chi vi ha trascorso la giovinezza.

Poiché ignorano la congiunzione di naturalismo e utopia in Rousseau, in Dewey e nei loro seguaci, alcuni tendono ad attribuire il disastro delle riforme progressive della scuola alla mentalità imprenditoriale. In effetti, questa chiede una scuola pragmatica, finalizzata solo all’addestramento dei lavoratori; dunque sembra essere all’origine delle riforme che escludono la teoresi dalla scuola e cercano di ridurla a formazione professionale. Tuttavia, nella civiltà industriale il lavoro ha assunto forma tecnologica, presuppone dunque la conoscenza scientifica; se la teoresi vi appare fine a sé stessa come nel mondo greco, nondimeno vi è condizione necessaria di sviluppo economico. Ne segue che la mentalità imprenditoriale, se può aver favorito con una certa sua miopia lo scempio della scuola come pure il disinteresse per la ricerca di base, se negli Stati Uniti può aver reagito al degrado dell’istruzione limitandosi a importare le intelligenze che le scuole rovinate dalla pedagogia progressiva non sono in grado di offrire, non può averlo né progettato né perseguito. Che la scuola, destinata all’istruzione, sia privata dell’istruzione, è una contraddizione così profonda, che può sorgere solo dalla convinzione palingenetica che la civiltà, a causa delle sue differenze, sia il male, che dunque il compito dell’uomo sia rovesciarla, non più interpretarla. La pedagogia progressiva obbedisce a questi impulsi: selvaggia o romantica, essa è da sempre disprezzo dell’oggetto, esaltazione del cambiamento, dunque rifiuto radicale della conoscenza.

Ignorando ciò che l’ansia palingenetica ha provocato nel Novecento, i suoi seguaci attuali continuano a esserne divorati[68], a rifiutare ciò che disprezzano come «scolastico» e «libresco», e a trovare loro sempre nuovi sostituti, meno rurali di quelli di Dewey, ma tanto più inafferrabili. Il metodo dei progetti che essi prescrivono alla scuola, non usa più il giardinaggio, la tessitura, la costruzione in legno, la manipolazione dei metalli, la cucina ecc.[69] (anche se non manca l’imposizione della scuola/lavoro ai liceali), ma la tecnologia digitale, che pure si è rivelata non solo dannosa per l’apprendimento, ma addirittura disastrosa per lo sviluppo della personalità[70]. Dal progetto concreto si attendono la levitazione degli alunni fino al culmine dell’astrazione. La volontà di raggiungere lo scopo della raffinatezza cognitiva dall’esperienza concreta e privandosi delle conoscenze si chiama oggi didattica per competenze. Essa opina che la conoscenza sia memorizzata nella rete e accessibile con una leggera pressione dell’indice, che dunque non occorra più che l’alunno si affatichi a memorizzare; e non comprende che la mente è una, che dunque nel memorizzare la conoscenza essa la comprende e nel comprenderla la memorizza, e avendo compreso e memorizzato una conoscenza ne gode e desidera acquisirne di nuova, ed esaudendo questo desiderio impara i modi di rendersi familiare l’estraneo, fino a quando lo ricerca volentieri pregustandone la familiarità. E ignora che secondo le neuroscienze il cervello non è un computer di cui occorre svuotare la memoria di informazioni per accoglierne di nuove; al contrario: le conoscenza già acquisite formano ex novo le connessioni neurali per accogliere nuove conoscenze, mentre l’ignoranza comporta l’atrofizzazione della parte. La didattica per competenze crede invece che la mente sia una cassettiera e che si possano aprire i cassetti superiori, a portata di mano, risparmiandosi la fatica di aprire i cassetti inferiori: essa crede che si possa raggiungere l’abilità conoscitiva escludendo la conoscenza. Così tenta di diffondere il pensiero critico tra gli alunni ancora ignoranti, col solo risultato di renderli scettici; tenta di esercitarli nelle abilità metacognitive, prerogativa degli esperti, quando sono principianti privi di ogni abilità cognitiva, con il solo risultato di sovraccaricare la loro memoria di lavoro; tenta di metterli di fronte ai problemi empirici quando non sanno ancora distinguere l’essenziale dall’accessorio, con il solo risultato di disorientarli. Essa spera che imparino a imparare, anziché con il molto imparare, senza imparare né poco né molto, con il risultato che non imparano e non imparano a imparare – proprio come chi spera di acquisire la lettura a prima vista delle partiture senza perdere tempo e fatica a solfeggiare[71]. Il progressivismo pedagogico che nasce dal disprezzo dell’oggettività e della teoresi che vi ha accesso non può che spegnersi nella magia.

  • Il significato filosofico dell’astrazione.

Se la distruzione della conoscenza teorica della scuola ha incontrato molte perplessità e suscitato critiche acute, ma non un’opposizione veramente efficace, si può sospettare che l’ostilità alla teoresi e l’insofferenza dell’oggetto trovino un sottile consenso generale. È dunque opportuno difendere la conoscenza teoretica non solo menzionando il fatto che essa permette il dominio tecnico sulla natura, ma precisando il significato e il valore intrinseco dell’universalità, dell’astrazione e del segno.

Nella conferenza in esame, Dewey ribadisce più volte la sua profonda diffidenza verso i segni: «Unicamente quello che impariamo dall’esperienza (e dai libri e dai detti altrui solo in quanto siano suffragati dall’esperienza) non si risolve in mere parole»[72]. Qui è disprezzata l’intera dimensione linguistica, l’oralità e la scrittura: le parole sono rumori della bocca, pallide imitazioni di una vera realtà, non è contemplata la possibilità che entrino in ragionamenti esplicativi o che offrano materia all’espressione poetica. Più sotto, con un ragionamento stupefacente, ripetuto poi dai suoi seguaci fino alla nausea, Dewey liquida la necessità dello sforzo intellettuale: nella società pre-industriale la diffusione della cultura era limitata a una casta sacerdotale del sapere, non solo per la mancanza della stampa, ma anche perché «solo una lunga e accurata preparazione poteva mettere in grado di scoprire quel che [le sorgenti intellettuali] contenevano»[73]; poi, con la rivoluzione industriale, con la stampa, con la locomotiva, con il telegrafo, le comunicazioni si moltiplicano, «la conoscenza non è più un corpo immobile; è stata liquefatta. Essa circola attivamente in tutte le correnti della società stessa»[74]. Dewey indica due cause che un tempo limitavano la diffusione della cultura: la rarità dei libri e la difficoltà della cultura. Ma il discorso prosegue come se le due cause fossero una stessa causa; così con il cadere della prima cade anche la seconda, e dall’abbondanza di informazione che caratterizza il mondo industriale Dewey non deduce semplicemente che possiamo informarci di più, ma qualcosa di affatto disparato – l’immediata accessibilità della conoscenza teorica. Sembra, cioè, che da quando le edicole traboccano di giornali e rotocalchi, da quando possiamo navigare su internet, la fatica intellettuale non sia più necessaria e che in realtà non lo sia mai stata, che le difficoltà di un tempo fossero soltanto un ostacolo artificiale con cui la «casta sacerdotale del sapere» si garantiva il suo monopolio invidioso, e che sia sufficiente essere stati impegnati in occupazioni concrete per essere in grado di accedere senz’altro a ogni teoria. Dalla liquefazione della conoscenza, dal buffo assunto che l’arte, le scienze o la filosofia siano divenute facili perché c’è abbondante disponibilità di libri, giornali e riviste («Stimoli di natura intellettuale [!] si rovesciano su di noi per le vie più diverse»[75]), Dewey, che, pure, è professore universitario, si compiace di concludere che «la vita meramente intellettuale, l’imparare e lo studiare accademico hanno perduto molto del loro valore. Accademico e scolastico non sono più titoli d’onore, sono diventati termini di riprovazione.»[76] Questo disprezzo degli intellettuali forse rivela qualcosa della delusione per il suo lavoro, ma in ogni caso non fa onore all’intellettuale, ancor meno la sua incauta vicinanza a chi in Europa qualche decennio più in là avrebbe perpetrato il loro annientamento o avrebbe bruciato i loro libri.

Così la pedagogia antiscolastica di Dewey può essere nobilitata come tappa dell’evoluzione sociale: «L’introduzione dell’attività manuale, dello studio della natura, della scienza elementare, dell’arte, della storia, la relegazione in secondo piano dell’elemento puramente simbolico e formale; il cambiamento dell’atmosfera morale della scuola, nelle relazioni fra scolari e maestri, cioè nella disciplina; il dare maggior peso all’attività, all’espressione, all’autogoverno; – tutti questi non sono meri accidenti, sono necessità dell’evoluzione sociale più progredita»[77]. Se la teoresi non è l’essenza dell’umanità, ma un’attività legata a una fase ormai in corso di liquidazione, allora a scuola sono sufficienti occupazioni concrete e non occorre più la padronanza dell’elemento puramente simbolico e formale, meno che mai occorre l’universale che sembra così astratto dalla realtà e lontano dalla verità, che è sì un’identità immobile ed eterna, ma, rispetto alla fluida e variopinta ricchezza del concreto da cui è stato separato, appare un’ombra grigia, priva di essere proprio ed esistente solo per il pensiero astraente. Come le anime degli eroi omerici, gli universali sembrano rimpiangere la vitalità spesa per acquistare l’eternità.

Non si tratta tanto di sostenere con una confessione di fede platonica la superiorità dell’universale rispetto al concreto; in effetti il concreto è l’essere in atto a cui l’universale deve la sua realtà. Si può però mostrare 1) che l’astrazione non è soltanto un procedimento arbitrario del soggetto, ma corrisponde ai moti essenziali delle cose stesse, cioè alle leggi che le governano; 2) che l’universale, pur essendo semplificato, non è mai un vuoto indeterminato, ma ha una sua musica, una sua vitalità – una concretezza di secondo grado che si acuisce fino alla singolarità.

Quanto al primo punto, l’astrazione non è un atto arbitrario, senza corrispettivo fattuale. Astrarre è propriamente conservare l’essenziale eliminando l’inessenziale, ossia ciò che per la sua inconsistenza è pura variabilità. Sono però le cose stesse che si conservano in quanto resistono alla propria variabilità. In quanto si oppone alla temporalità, la fissità delle cose non è però un essere immediato, ma è un essere riflesso, un positivo che nasce dal negare il negativo, dall’annullare l’inquietudine; è dunque un interno, una legge che dà forma identica alla variabilità delle cose. L’universale, nella sua apparente astrazione, esprime questa regolarità che domina il variabile e in questo senso non è un semplice fantasma della mente ma ha una compatta consistenza ontologica. Tutto ciò resta precluso a Dewey. Istigato dal rifiuto dell’oggettività teoretica, egli constata che l’essere si perde nel divenire, e ne è indotto ad abbracciare una metafisica del progresso infinito. Gli manca dunque la riflessione che è stata già di Eraclito, per cui, come l’essere si perde nel divenire, così il divenire stesso si perde, e con il perdersi del divenire si restaura l’essere, ma non più quello sensoriale, bensì l’essere essenziale, l’universale, il λόγος come legge immutabile che domina la variabilità empirica ed è accessibile solo all’astrazione. Per Dewey l’universale resta invece una penombra torbida che dovrebbe svanire alla luce dell’empiria, di cui egli ha però già riconosciuto la variabilità.

Quanto al secondo punto, il giungere da un concreto empirico a un universale implica certo l’astrazione da molti caratteri, dunque una semplificazione. Ma ciò che si usa considerare ricchezza empirica di un singolo è in realtà la sfera della sua accidentalità. Nel metterla da parte, una corretta astrazione non elimina l’essenziale, al contrario, lo esalta eliminando il rumore di fondo. Il corretto astrarre, anziché un impoverire, è l’abilità di scoprire il gioiello tra i sassi, il saper andare al sodo senza lasciarsi distrarre dai particolari secondari, che è proprio del pensiero esperto. D’altro canto, per quanto semplificato dall’astrazione, l’universale non è il semplice, è anzi una determinazione. Di questa Spinoza ha rivelato, con una formula indimenticabile, l’intima complessità: omnis determinatio negatio est, ogni determinazione è una negazione, rappresenta cioè non solo l’essere dell’individuo di cui è predicabile, ma ne contiene al tempo stesso il limite, e, in questo limite, il suo riferimento ad altro. Poiché è riferito, l’universale è anche particolare. A differenza dei riferimenti empirici che, posti nell’esteriorità di spazio e tempo, sono casuali, il riferimento tra le universalità particolari è logico, necessario. Per questa necessità, il riferimento tra i particolari è una intima sintesi, un’unità concreta di determinazioni. Questa concretezza è l’universalità in forma singolare. È dunque massima superficialità considerare l’universale come vuoto e il singolare come una congerie illogica di determinazioni particolari. Poiché non è vuoto ma determinato, l’universale è anche particolare e il nesso necessario degli universali particolarizzati è la concretezza della singolarità.

Ne segue che l’astrazione semplifica la concretezza empirica, ma non abolisce la concretezza in generale; essa inaugura anzi una concretezza di secondo grado, apre cioè l’ambito dei riferimenti necessari delle particolarità e dà l’accesso alla singolarità come concretezza interna. Essendo la descrizione dei nessi necessari tra gli universali in cui sono espresse le essenze delle cose empiriche, la scienza non è descrizione dell’empirico, ma la risposta dimostrativa alle sue domande. Se l’empiria affascina con la sua ricchezza e la sua vivacità, tanto più deve affascinare la scienza che consente di capirla.

Mentre la concretezza empirica e la sua variabilità sono immediate, cioè si impongono direttamente ai sensi, l’universale, come si è visto, si genera dal perdersi dell’essere sensibile nel variabile e dal perdersi del variabile nell’identità. Il divenire stesso diviene; il fiume che trascina le cose è momento di un ciclo, e in esso si formano nuovi vortici che trattengono l’acqua intorno al proprio centro. Gli universali sono i centri che dominano il divenire e lo riducono al materiale della loro essenzialità. Poiché sono le leggi di ciò che è tangibile, essi stessi non sono tangibili e si manifestano sensibilmente prendendo corpo nei segni.

Il primo segno, da cui dipendono tutti gli altri, è il nome. L’evanescenza della sua corporeità e la sua convenzionalità hanno spinto a volte al rozzo disprezzo del linguaggio e alla regressione nella cosa. Tuttavia proprio l’evanescenza del nome, peraltro corretta dalla scrittura, ne consente la trasparenza; e la convenzionalità non contrasta affatto con il suo potere di manifestare l’oggettività. Poiché infatti le lingue sono traducibili l’una nell’altra, la convenzionalità non si estende ai significati: i diversi significanti nelle diverse lingue veicolano gli stessi universali, che dunque hanno una consistenza ben maggiore di quanto possano averla le sensazioni soggettive delle cose sensibili che sono estinte dal divenire. Pur generati nella libertà, i nomi non sono dunque convenzioni momentanee tra soggetti, ma un rimando alla legalità dell’esperienza, esprimono ciò che vi è di costante nella sua variabilità. L’esperienza stessa cessa di essere un’eterna inquietudine ed è dominata solo dalla forza dei segni.

Al pragmatista Dewey manca la comprensione della natura degli universali e dei nomi. Egli non riesce a riconoscerli come espressioni della legalità naturale, e finisce in una concezione primitiva, che lui stesso etichetterebbe come «medievale»: gli universali e i nomi gli appaiono copie sbiadite degli oggetti tangibili; non come compendi delle vicende necessarie delle cose, ma come cose morte accanto a cose vive. Questa debolezza filosofica è fatale alla sua pedagogia. Infastidito dall’obiezione che introdurre il lavoro manuale tenda «a fare degli specialisti, ad allontanare dal nostro sistema attuale di cultura generosa, liberale», ribatte che ad essere «specializzata, limitata e angusta» è la scuola «tradizionale» limitata a certi simboli del sapere, al leggere, allo scrivere e al far di conto[78].

Ancora oggi, dopo che la pedagogia progressiva ha creato una generazione che non sa tenere la penna in mano e soffre di dislessia, disgrafia e discalculia, si usa parlare del «leggere, scrivere e far di conto» con un sorriso di superiorità. Ma la scrittura e il calcolo non sono attività banali di cui vergognarsi; tutt’altro che limitati e angusti, sono il privilegio della civiltà: disprezzarli è un’insensata volontà di primitivismo. Lo stesso facile rovesciamento dell’accusa operato da Dewey è insensato: la cultura liberale non è una concezione medievale, ma ellenica; il «lato» intellettuale non è affatto un lato, ma un compendio di lati sensibili; i simboli non sono cose accanto ad altre cose, così che occuparsi di essi escluda l’occuparsi del resto, ma sono indicazioni delle leggi che dominano la realtà e occuparsi di essi significa occuparsi dell’essenza delle infinite cose. Per questo, mentre la scuola che relega in «secondo piano l’elemento puramente simbolico e formale»[79] perde l’essenziale e lascia gli alunni ignoranti e demoralizzati, la scuola che si occupa anzitutto del leggere, dello scrivere e del far di conto è sempre stata feconda di risultati e aperta al tutto.

NOTE


[1] Queste espressioni sono proposte senza dichiarazioni di distanza critica a p. 348 dell’antologia John Dewey e il problema pedagogico nel pensiero contemporaneo da Pestalozzi a Laporta, a cura di Vincenzo Carbotti, Casa editrice G. D’Anna, Messina-Firenze 1974.

[2] Ibidem.

[3] Nel sistematizzare Kant, Fichte ha ribadito con energia l’irriducibile artificialità dell’io: l’io è solo in quanto è per sé stesso, il suo essere è il suo sapersi e non può essergli presupposto.

[4] Pubblicata da Edizioni Studium, Roma 2016, pp. 7-15.

[5] Ibidem,p. 13

[6] Ibidem.

[7] Ibidem,p. 8

[8] Ibidem,p. 8.

[9] Ibidem,p. 8.

[10] Frabboni, Pinto Minerva, Manuale di pedagogia e didattica, Laterza, Bari-Roma 2013, p. XI.

[11] Ibidem,p. XIII.

[12] Ibidem,p. 5.

[13] Introduzione a Rousseau, Emilio o dell’educazione, cit., p. 8.

[14] Ibidem.

[15] Ibidem, cit., pp. 9-10.

[16] Ibidem.

[17] Ibidem.

[18] Ibidem, p. 199. L’attuale disgrazia della grafia è una lontana eco di questa frase.

[19] Ibidem, p. 197.

[20] Ibidem, pp. 148-9. Traduzione modificata.

[21] Ibidem, p. 203.

[22] Ibidem, p. 201. Neanche Rousseau crede alle proprie parole: il rapporto tra corpo e intelligenza è determinato prima come causalità, poi come azione reciproca.

[23] John Dewey e il problema pedagogico nel pensiero contemporaneo da Pestalozzi a Laporta, cit., p. 97.

[24] Citato in E. D. Hirsch, Jr., The schools we need and why we don’t have them, Anchor Books Edition, New York 1999, p. 120.

[25] Cfr. l’art. I del Credo, reperibile un po’ ovunque, per esempio nell’antologia citata John Dewey e il problema pedagogico nel pensiero contemporaneo da Pestalozzi a Laporta, nella traduzione piuttosto scorretta di Lamberto Borghi: «L’unica vera educazione giunge attraverso la stimolazione delle facoltà del bambino da parte delle richieste delle situazioni sociali in cui si trova. Attraverso queste richieste egli è stimolato ad agire come un membro di un’unità, ad emergere dalla sua iniziale ristrettezza di azione e di sentimento e a immaginarsi dal punto di vista del benessere del gruppo a cui appartiene. Attraverso le risposte che gli altri danno alle sue attività, egli giunge a conoscere che cosa queste significhino in termini sociali. Il valore che hanno è riflesso indietro in esse. Per esempio, attraverso la risposta data ai suoi balbettii istintivi il bambino giunge a conoscere che cosa significano questi balbettii; sono trasformati in linguaggio articolato e così il bambino è introdotto nella ricchezza consolidata di idee ed emozioni che ora sono compendiate nel linguaggio» [Traduzione e corsivo modificati]. Come si vede, il bambino agisce e parla alla cieca, il valore e il significato sono un’imposizione sociale ai suoi atti e ai suoi balbettii.

[26] Cfr. https://ojs.lib.uwo.ca/index.php/cie-eci/article/view/9017/7203 pp. 63-64: «Mao prese lezioni di pragmatismo da Yang Changji, un amico intimo di Hu Shih, il rappresentante di John Dewey in Cina. Presentato a Hu Shih nel 1918 all’università di Pechino, Mao frequentò le sue lezioni su filosofia cinese tradizionale e pragmatismo, e giunse a sostenere con ardore il punto di vista di Dewey. Quando nel 1919 andò a Pechino per la seconda volta, partecipò alla conferenza di Dewey sui «Tre filosofi contemporanei» (William James, Henri Bergson e Bertrand Russel), e fu così incantato dalle sue idee che decise di studiare la filosofia occidentale usando «Tre filosofi contemporanei» come libro di testo. Egli credeva che il pragmatismo costituisse un’arma efficace per combattere il feudalesimo. Si può scorgere l’influenza filosofica di Dewey su Mao nell’importanza che questi attribuisce all’insegnamento centrato sull’alunno e all’apprendimento dalla pratica». Non è un caso che il maoismo sessantottino, infiltratosi nelle burocrazie, abbia imposto nelle scuole l’attivismo puerocentrico.

[27] Credo, p. 85: «La materia del programma scolastico deve differenziarsi gradualmente dall’inconsapevole unità originaria della vita sociale» .

[28] John Dewey e il problema pedagogico nel pensiero contemporaneo da Pestalozzi a Laporta, cit., p. 85. Traduzione modificata. È stupefacente la qualifica di studio speciale per il leggere e lo scrivere.

[29] Ibidem, p. 82.

[30] Ibidem, p. 84.

[31] Cfr. l’art. V del Credo, pp. 90-91.

[32] Ibidem, p. 90. Molto sospetta la scorrettezza della traduzione di Borghi che rende «individualistic and socialistic» con «individuali e sociali».

[33] Ibidem, p. 90.

[34] Ibidem: «Tutte le riforme che poggiano semplicemente sull’emanazione di leggi o sulla minaccia di certe penalità, o su mutamenti di dispositivi meccanici e esterni sono transitorie e futili».

[35] Paulo Freire non si vergognerà di porre l’alunno tra gli oppressi e l’insegnante tra gli oppressori.

[36] Ibidem, p. 85.

[37] Ibidem, p. 278.

[38] Ibidem, p. 280. Dewey protesterebbe che le attività professionali nella sua scuola non hanno un fine utilitario; ma è protesta vana: esse non le hanno neanche nelle scuole professionali, perché queste non sono aziende.

[39] Cfr. D. E. Hirsch, jr., cit., passim.

[40] A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Gli intellettuali, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 146.

[41] John Dewey e il problema pedagogico nel pensiero contemporaneo da Pestalozzi a Laporta, cit., p. 101 .

[42] J. Dewey, La scuola e il progresso sociale, in Il mio credo pedagogico. Antologia di scritti sull’educazione, La Nuova Italia, Firenze 1954, p. 56.

[43] Ibidem.

[44] J. Dewey, La scuola e il progresso sociale…, cit., p. 42.

[45] J. Dewey La scuola e il progresso sociale, in Il mio credo pedagogico. Antologia di scritti sull’educazione, cit., pp. 32-58.

[46] Un preciso episodio storico falsifica l’assunto marxista della storia come lotta di classe: la sconfitta dell’Armata Rossa a Varsavia nell’agosto del 1920, quando, come Lenin riconobbe, il popolo polacco si schierò con i suoi capi contro i rivoluzionari russi che intendevano liberarlo dal giogo di classe.

[47] L’indistinzione tra le forme etiche è un tratto tipico non solo di Dewey, ma della mentalità statunitense, per una precisa causa storica: la società civile statunitense non solo presenta i normali contrasti tra le classi, ma manca di omogeneità naturale, divisa com’è sul piano etnico, linguistico e religioso, e sembra sempre sul punto di disgregarsi, tanto più che la sfera pubblica è a sua volta divisa tra il potere federale e quello dei singoli Stati. È il timore della disgregazione che induce i suoi intellettuali più sensibili a sottolineare l’importanza dell’unità e i suoi pedagogisti a preoccuparsi soprattutto dell’obiettivo della socializzazione. Importando questo timore in un contesto di preesistente omogeneità sociale, la pedagogia europea assume un tratto totalitario.

[48] Cfr. l’inizio di «Il mio credo pedagogico» in cui Dewey scrive assurdamente che il modello dell’educazione inconsapevole vale anche per l’acquisizione di scienza e arte: «Mediante questa educazione inconsapevole l’individuo giunge gradualmente a condividere le risorse intellettuali e morali che l’umanità è riuscita ad accumulare.» In J. Dewey e il problema pedagogico…, cit., p. 80. I corsivo sono nostri.

[49] Borghi, ebreo e costretto dalle leggi razziali ad emigrare negli Stati Uniti, avrebbe dovuto essere più guardingo nei confronti dell’utopia; ma, come tanti, ha temuto solo il totalitarismo in veste nera. La sua espressione è a p. XVII di Il mio credo pedagogico. Antologia di scritti sull’educazione, cit.

[50] Qui, come nelle altre citazioni, il corsivo è nostro.

[51] Dewey, La scuola e il progresso sociale…, cit., p. 36. Correggo la traduzione di Borghi che, tra l’altro, non intende «object of production» e lo rende con «oggetto di produzione».

[52] È nota la dichiarazione di Luca Cavalli-Sforza: «Posso dire che, fra tutte le mie esperienze scolastiche, la traduzione dal latino è stata l’attività più vicina alla ricerca scientifica, cioè alla comprensione di ciò che è sconosciuto.» Citato in Lucio Russo, Segmenti e bastoncini,  Milano 2016, p. 85.

[53] John Dewey e il problema pedagogico nel pensiero contemporaneo da Pestalozzi a Laporta, cit., p. 121

[54] Ibidem, p. 122.

[55] Dewey, La scuola e il progresso sociale…, cit.,p. 36.

[56] Ibidem, pp. 36-37.

[57] Ibidem. Il corsivo è di Dewey.

[58] Citate in Hirsch, The schools we need…, cit., p. 108.

[59] Dewey, La scuola e il progresso sociale…, cit., p. 38.

[60] John Dewey e il problema pedagogico nel pensiero contemporaneo…, cit., p. 118.

[61] Ibidem.

[62] Ibidem, p. 116.

[63] Alla fine dell’Introduzione ai «Lineamenti di filosofia del diritto» Hegel paragona la filosofia alla pittura a grisaglia.

[64] Dewey, La scuola e il progresso sociale…, cit., p. 50.

[65] Cfr. ibidem, pp. 50-51.

[66] Ibidem,p. 38.

[67] Ibidem, p. 39

[68] Cfr. Frabboni-Pinto Minerva, Manuale di pedagogia e didattica, cit.: «Gli anni Settanta del Novecento – con la loro carica critica e contestativa – indicarono, spesso, nell’utopia l’idea guida del progetto di rinnovamento sociale e civile. Fra gli slogan che campeggiavano sui muri delle città universitarie, «l’immaginazione al potere» testimoniava la volontà di riportare in primo piano un’istanza – quella, appunto, utopica – troppo a lungo ignorata e soffocata, come allora si diceva, dal realismo utilitaristico e borghese della cultura dominante». Gli autori ignorano che il Sessantotto contestava anche il filosovietico PCI che, nonostante il suo utopismo, si era infiltrato ampiamente nella cultura dominante, e che esso simpatizzava con il maoismo, nel quale utopismo e antiintellettualismo hanno raggiunto la forma sconvolgente dei più grandi stermini di massa. Richiamarsi a questi miti barbarici è un segno di grave arretratezza culturale.

[69] John Dewey e il problema pedagogico nel pensiero contemporaneo…, cit., p. 120.

[70] Cfr. tra gli altri Spitzer, Solitudine digitale, Corbaccio, Milano 2016, Cangini; Cocaweb. Una generazione da salvare, Minerva, Bologna 2021; Iotti, 8 secondi, Il Saggiatore, Milano 2020; Maffei, Elogio della lentezza, Il Mulino, Bologna 2014.

[71] La critica della psicologia cognitiva alle illusioni della didattica per competenze è contenuta nel Capitolo 5. La rivincita della realtà del libro già citato di Hirsch.

[72] Dewey, La scuola e il progresso sociale…, cit.,p. 44, con qualche modifica.

[73] Ibidem, p. 53.

[74] Ibidem.

[75] Ibidem, p. 54.

[76] Ibidem.

[77] Ibidem, p. 57.

[78] Ibidem, p. 55.

[79] Ibidem, p. 57.

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