Sanità & santità: l’esempio fuori moda di Giuseppe Moscati

Circola di questi tempi nei salotti televisivi una domanda gaglioffa: voi preferireste farvi curare da un medico vaccinato o da un medico non vaccinato? Lo chiedessero a noi risponderemmo di voler essere curati da uno come quello di cui racconta Paolo Gulisano nel suo ultimo libro: Giuseppe Moscati, il santo medico, Edizioni Ares.

Tralasciamo per un momento che egli fosse semplicemente un santo, come alfine è stato proclamato il 25 ottobre 1987, e che fosse attrezzato quindi anche per operare miracoli, come infatti operò, e concentriamo l’attenzione sulle sue qualità umane e sulle doti professionali.

Prima di tutto le motivazioni per le quali scelse di studiare medicina. Moscati ci aveva pensato su e, ci dice Paolo Gulisano, “aveva deciso per la professione medica per vari motivi, in particolare perché sembrava accordarsi molto bene con l’intima natura del suo carattere, portato a partecipare vivamente alle sofferenze del prossimo”.

Questo non sarebbe bastato a farne l’eccezionale dottore che è stato se la natura non lo avesse dotato di una eccezionale capacità di studio. Niente distoglieva il giovane studente dalla quotidiana concentrazione sui libri: “nemmeno il chiasso privato e domestico dei lavori che per un po’ di tempo misero a soqquadro casa Moscati per riparazioni che si erano necessarie. Tra picchiare di martelli e polveroni di calcinacci smossi, Giuseppe macinava libri e dispense, come fosse avvolto in una silenziosa ovatta protettiva”.

Tanta costanza lo portò presto, a ventitré anni, alla laurea con lode e tesi degna di pubblicazione. L’urgenza morale di stare a contatto con i malati, di alleviarne le sofferenze, di guarirli, e un desiderio di personale sacrificio, che era sostanza stessa della sua fede, fecero sì che l’attività clinica prevalesse sull’interesse, pure altissimo, per la ricerca scientifica nella quale aveva ottenuto da subito notevoli successi. Negli ultimi anni di vita, dal 1923 al 1927, anno della sua morte (Moscati era nato a Benevento nel 1880) si dedicò del tutto all’impegno come primario e all’insegnamento.

Portò dunque la sua umanità all’ospedale degli incurabili di Napoli del quale fu primario e negli altri luoghi dove si trovò ad operare, ottenendo la simpatia e la stima di tutti i colleghi, e illimitata fiducia da parte dei malati che ne riconoscevano, prima ancora che la straordinaria competenza medica, lo spirito di compassione e l’interesse sincero per il loro destino. A imitazione del modo di Cristo, dice Paolo Gulisano, che a proposito delle tante guarigioni riferite dai Vangeli, ricorda che “l’attività di guarigione del Cristo Medico consiste essenzialmente nello stabilire una relazione vera con la persona che ha di fronte. Non c’è nulla di sentimentale, né di puramente emotivo : è il desiderio di Cristo di lenire anche i dolori umani più terribili”.

C’è da chiedersi come si sarebbe sentito oggi Giuseppe Moscati a dover rispettare pedissequamente certi protocolli ministeriali, conculcata la sua libertà di studiare i segni della malattia, di interpretare i sintomi, capacità nella quale eccelleva “come se fosse un abile investigatore” ci dice Gulisano, fino al punto di correggere le diagnosi di colleghi illustri e magari suoi ex maestri.

No, non avrebbe visto nessun progresso il Moscati nel rapporto spersonalizzato tra medico e paziente, nelle visite effettuate da remoto, seppure effettuate. Lui che durante l’epidemia di colera a Napoli, nel 1911, racconta Paolo Gulisano, “si recava senza risparmiarsi ai capezzali di tanti malati, avendo ben chiaro che il posto del medico è accanto a chi soffre, e che non si deve temere l’eventualità di contagiarsi”. E neppure si sarebbe trovato a suo agio negli ospedali informati a criteri di efficienza economico aziendale invece che a quella carità cristiana per la quale essi sono stati fondati, e che è stata il movente di tutta l’azione del medico di Benevento: “Non la scienza ma la carità ha trasformato il mondo”, scriveva, lui che scienziato lo era veramente e di alto livello.

Ma la ricerca scientifica deve avere dei limiti, non deve mai ledere la dignità della vita umana, e il Moscati già negli anni 20 del secolo scorso, quando l’eugenetica si affacciava a offrire le prime soluzioni apparenti all’imperfezione umana, ne coglieva immediatamente gli aspetti aberranti, divenuti palesi più tardi, soprattutto in questo inizio di secolo, e scriveva: “Non è senza molto scetticismo che si apprendono tali proposte per eliminare i deboli. Sono mezzi antiumani…i cosiddetti cromosomi sanno aggrupparsi meglio di quanto non ingiungano loro gli eugenisti!”.

Noi che per quanti sforzi facciamo non riusciamo a distogliere lo sguardo da terra e ci preoccupiamo di cose che non contano nulla come per esempio dei potenti che ci comandano, un San Giuseppe Moscati lo vorremmo ministro della sanità. La congiuntura storica ce ne assegna degli altri. Ma lo preghiamo che almeno non permetta più ai suoi colleghi di diffondere senza una punta di rimorso grottesche notizie come quella che il medicamento contro il covid immunizza per dieci anni; che illumini la mente, conceda un sussulto della coscienza, a quegli psichiatri che scrivendo su prestigiose rivista di categoria tacciano di psicopatico, alla maniera dei peggiori regimi della storia, chi osi esprimere perplessità sulla bontà delle politiche adottate contro la cosiddetta pandemia e sulla efficacia del siero che ce ne dovrebbe liberare.

Il medico Paolo Gulisano, che in spirito di verità e libertà ha lavorato in questi ultimi difficili anni, pagandone anche il prezzo, era lo scrittore giusto per ricordare l’apostolato di Giuseppe Moscati. Per ricordarci che cosa è la medicina e lo spirito che dovrebbe animarla (senza pretendere che i medici siano tutti santi, certo). Per questo abbiamo letto volentieri il suo libro e ci sentiamo di consigliarne la lettura a tutti coloro, e sono tanti, che nel corso attuale delle cose non si ritrovano più.

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