Scriptorium – Recensioni. Rubrica quindicinale di Cristina Siccardi

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Padre Guglielmo Massaja, religioso cappuccino. Partì per conquistare più anime possibili a Cristo Salvatore e per civilizzare le genti. Per decenni la causa di beatificazione, iniziata nel 1914, è rimasta bloccata perché Guglielmo Massaja non era certo un uomo politicamente corretto e buonista: non ha mai partecipato a marce della pace, ma ha sempre combattuto, vero soldato di Cristo, in nome della fede, per portare la vita, anche umanamente sana e degna di essere vissuta, agli africani e per indicare loro la via per la salvezza eterna.

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L’appuntamento di questa settimana viene dedicato al protagonista di una Mostra allestita a Torino nella Biblioteca della Regione dal 30 novembre 2016 al 3 febbraio 2017 (via Confienza 14), autore di Memorie incancellabili, I miei trentacinque anni di Missione nell’Alta Etiopia, che papa Leone XIII gli ordinò di compilare e che vennero distribuite in 12 volumi, epopea leggendaria di un missionario in Africa, «martire vivo». Si chiamava Padre Guglielmo Massaja, religioso cappuccino, divenuto Cardinale nel Concistoro del 10 novembre 1884 insieme al Beato John Henry Newman (ambedue combattenti il liberalismo) e dal 2 dicembre u.s. Venerabile.

Partì per l’Africa con l’ansia di chi è in ritardo sul comando del Figlio di Dio: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno» (Mc 16,15-18).

Partì per conquistare più anime possibili a Cristo Salvatore e per civilizzare le genti. Per decenni la causa di beatificazione, iniziata nel 1914, è rimasta bloccata perché Guglielmo Massaja non era certo un uomo politicamente corretto e buonista: non ha mai partecipato a marce della pace, ma ha sempre combattuto, vero soldato di Cristo, in nome della fede, per portare la vita, anche umanamente sana e degna di essere vissuta, agli africani e per indicare loro la via per la salvezza eterna.

Al secolo si chiamava Lorenzo Antonio Massaja. Era nato, settimo di otto figli, l’8 giugno 1809 nella frazione «La Braja» di Piovà d’Asti, ora Piovà Massaja. Suo padre, Giovanni (3 maggio 1774-29 marzo 1853), era un piccolo proprietario rurale e sua mamma, Maria Bertorello (6 giugno 1774-2 aprile 1837), un’umile mamma di famiglia. Trascorse l’adolescenza sotto la guida del fratello Guglielmo (1795-1833 ), parroco di Pralormo (1821-1828) e frequentò il Collegio Reale di Asti come seminarista (1824-1826).

La vocazione religiosa arrivò presto e il 6 settembre 1826, a Madonna di Campagna in Torino, indossò il saio cappuccino, al quale rimase legato sempre con profondo amore, cambiando il nome di battesimo in quello del fratello sacerdote. Dopo aver ricevuto il presbiterato a Vercelli, il 16 giugno 1832 e terminati gli studi, divenne cappellano dell’Ospedale Mauriziano di Torino (1834-1836), che gli consentí di apprendere preziose nozioni elementari di medicina e chirurgia, le quali gli torneranno molto utili durante il suo apostolato in Africa.

La realtà ospedaliera mauriziana permise a san Giuseppe Benedetto Cottolengo (1786-1842) di venire in contatto con padre Guglielmo al quale si legò di profonda stima, fino a divenire sua guida, confessore e consigliere. Nel decennio 1836-1846 insegnò filosofia e teologia nel convento di Moncalieri-Testona. Quando nel 1845 si trasferì al Monte dei Cappuccini in Torino, divenne guida del patriota Silvio Pellico (1789-1854), che dopo le catene dello Spielberg aveva subito una profonda trasformazione di coscienza, aggrappandosi fortemente alla fede, anche grazie alla benefica influenza che su di lui ebbero i marchesi Giulia (1785-1864) e Carlo Tancredi Falletti di Barolo (1782-1838) ed entrando nell’alta considerazione di padre Massaja, che lo accolse con grande affetto.

Re Carlo Alberto si era adoperato affinché venisse nominato Vescovo, ma il padre cappuccino non aveva voluto saperne. Troppo umile per ambire alle cariche che voleva tenere ben distanti da sé. Tuttavia in Vaticano il suo nome ormai circolava.

Ha 37 anni quando il Papa Gregorio XVI (1831-1846) e il Procuratore del suo ordine religioso lo chiamano a Roma per comunicargli che avrebbe dovuto assumere il Vicariato di una nuova missione all’estero, fra la popolazione Galla, in Etiopia.  Massaja, pur a malincuore, non per l’incarico, ma per il titolo di Vescovo, accetta. Dall’epistolario[1] emerge il vero Massaja: l’immediatezza degli scritti, compilati di getto, spesso dettati dall’emergenza delle situazioni in cui veniva a trovarsi, sono documenti preziosissimi perché rivelano la libertà e la disinvoltura dello scrivente, e riflettono un temperamento schietto, forte e deciso, ancorato alla verità, a qualunque costo, anche al prezzo di pagare di persona. Appassionato e instancabile propugnatore del Vangelo, non si cela dietro paraventi o scudi, infatti le sue parole non sono mai misurate e calibrate: scrive le lettere, utilissime per comprendere questa personalità tanto schietta e genuina, dalla lucidità e sicurezza impressionanti.

Il 1846 fu determinante per la diffusione del Cattolicesimo in Etiopia. Con Breve del 4 maggio, Gregorio XVI, il Pontefice che ebbe un’attenzione particolarissima per le missioni, istituì il Vicariato Apostolico dei Galla, chiamando a reggerlo come Vescovo titolare di Cassia proprio monsignor Massaja, che venne consacrato nella chiesa di San Carlo al Corso, in Roma, il 24 maggio, giorno di Maria Ausiliatrice.

Lasciò l’Italia il 4 giugno 1846 insieme ai suoi quattro compagni di avventura: padre Giusto da Urbino (1814-1856), padre Cesare da Castelfranco (1818-1860), padre Felicissimo Cocino da Cortemilia (1816-1878) e fra’ Pasquale da Duno (1803-1873ca). Arriveranno a destinazione soltanto 6 anni, 5 mesi e 17 giorni dopo, il 21 novembre 1852, superando inaudite sofferenze, pericoli e avventure iperboliche e salgariane, dal fascino romanzesco e cinematografico.

La sua missione si svolse prevalentemente in Etiopia, allora chiamata Abissinia, lo Stato considerato il più antico del continente e che si trova nel Corno d’Africa. L’Etiopia è morfologicamente molto disordinata, con montagne disconnesse, altopiani divisi dalla Valle del Rift, che percorre la parte sud-orientale e nord-orientale del Paese ed è circondata da bassopiani, steppe e semi-deserto. La grande varietà del territorio determina una corrispettiva differenziazione di clima, fauna e flora. Diversificata risulta anche la composizione etnica, a causa dell’integrazione razziale e linguistica che ebbe inizio fin dai tempi remoti. I principali gruppi sono: gli Amhara (o abissini), una popolazione di origine camitica presente sull’altopiano, a nord di Addis Abeba; i Galla (o Oromo), nella zona centro-meridionale; i Somali, a oriente, nella regione dell’Ogaden; i Sidama, che risiedono principalmente nelle regioni sudoccidentali; i Danachili (o afar), stanziati nelle pianure semidesertiche della zona nordorientale del Paese.

Otto traversate del Mediterraneo, dodici del Mar Rosso e quattro pellegrinaggi in Terra Santa; quattro assalti all’impenetrabile fortezza abissina dal Mar Rosso, dall’Oceano Indiano e dal Sudan; quattro esili, altrettante prigionie e ben 18 rischi di morte costituirono il bilancio di quella sua leggendaria missione, che lo annovera fra i più grandi apostoli della Chiesa.

Giunse ad Alessandria d’Egitto pronto a iniziare l’opera di evangelizzazione immediatamente. Intanto, a Roma, sul trono di san Pietro, Gregorio XVI, morendo, aveva lasciato alla guida della Chiesa il beato Pio IX (1846-1878) e nel suo testamento aveva destinato una somma consistente al Vescovo Massaja. Con questa donazione, sommata ai 3000 scudi romani che la Congregazione di Propaganda Fide gli aveva dato, in aggiunta ai 15 mila franchi avuti dal Consiglio Centrale dell’Opera della Propagazione di Lione, il coraggioso Vescovo si mosse verso Suez.

Il taglio dell’istmo non era ancora stato realizzato (il canale sarà progettato più tardi dall’ingegnere italiano Luigi Negrelli, 1799-1858, e aperto nel 1869), perciò monsignor Massaja attraversò il deserto caldo e ostile a dorso di un cammello e sui traballanti mezzi di trasporto del «Transito inglese». Giunto sul Mar Rosso, con l’occhio dell’uomo di scienza, si entusiasma nel vedere di persona la fallacia delle teorie positiviste[2] che investono le scienze religiose, confutando l’ipotesi scientifica che non sarebbe stata la mano di Dio a dividere le acque, bensì il fenomeno delle maree («onde spiegarlo col riflusso e schivare il miracolo»[3]), a dispetto di quanti nel XX secolo, violando le regole della fede e della scienza, si sono impegnati a negare o sminuire l’intervento divino nella circostanza. Inoltre studia con attenzione e perizia, anche psicologica, il carattere che distingue greci, armeni e copti, dei quali ricostruirà, nei suoi appunti, dopo tanti viaggi per mare e per terra, le diverse tipologie etniche, culturali, religiose, presentandosi molto critico di fronte alle chiese scismatiche d’oriente.

Suo obiettivo era quello di raggiungere Aden, al di là dello stretto di Bab-el-Mandeb per tentare di penetrare nelle terre della popolazione Galla per la via di Zeila, divenuta poi Gibuti e che considerava la vera porta dell’Etiopia. Ma la strada era ancora assai lunga e gli imprevisti sempre in agguato. Attraversò il Mar Rosso per poi approdare alle isolette Dahal e il 25 ottobre 1846 gettò l’ancora a Massaua, sotto la soggezione dei turchi e abitata da soli arabi. Era il primo Vescovo, dopo tre secoli, che si azzardava a mettere piede in questa terra, bagnata dal martirio di antichi pastori e poi «abbandonata da Dio»[4]. Qui trovò ad operare don Giustino De Jacobis (1800-1860) della congregazione di San Vincenzo de’ Paoli (1581-1660), che aveva già dato sviluppo ad una missione molto feconda a Gualà e, facendo la spola fra l’altopiano e la costa, aveva convertito interi villaggi. Ma ormai, privo di ogni tipo di comunicazione con l’Europa, era giunto all’esaurimento dei mezzi economici e grande era il suo bisogno di sacerdoti, che Massaja si apprestava ora a ordinare.

Monsignor Massaja marciava a piedi e la notte dormiva tra i fuochi per allontanare le belve feroci. Udiva con «spavento»[5] i ruggiti dei leoni e dei leopardi. Notti fredde, trascorse all’addiaccio con «una pelle conciata da stendere per terra, una coperta abissina di doppia tela, e per capezzale un piccolo sacco con dentro la muta delle camicie»[6].

Sale fra Hallài e Tukùnda, sulla vetta del monte e di lassù è colto dalla meraviglia e dalla maestà del panorama del vasto piano dell’Etiopia: «Quando l’Abissinia fu creata dal Signore unitamente a tutto il resto del globo, non dubito che fosse la più bella parte della terra […] un sorprendente teatro ed un ricchissimo tesoro […]. Provai la sensazione di chi, recatosi sul colle di Superga, scopre l’orizzonte di Torino, Chieri e tutto il Monferrato»[7]. Ma invece di case, cascine, vigneti, animali domestici, pecore, ecco leoni, tigri, pantere, iene e indigeni, armati di lancia, dallo sguardo «che fa tremare», ma in realtà buoni e ospitali. I padri missionari che accompagnavano il Vescovo, padre Cesare e padre Felicissimo, di fronte a quella magnificenza, intonarono un salmo con il canto.

Ha «la testa rotta in mille faccende»[8] monsignor Massaja, eppure, non si sa come, trova tempo e modo di studiare la lingua amarica, che impara velocemente, tanto che può presto accostarsi a quella dei Galla. Mancano i paramenti sacri per le funzioni e allora s’industria  per procurarli: «Io con le mie stesse mani taglio pianete, le cucisco, le benedico, e poi consacro i Sacerdoti che le dovranno portare»[9].

In un contesto di fortissima presenza copta[10], monsignor Guglielmo Massaja si trovò in una situazione  difficilissima, divenendo oggetto di feroce odio: il Vescovo, Abuna Salama, che si trovava in ottimi rapporti con le autorità di Governo, tentò di tutto per fare espellere il «nemico» e, poiché non riuscì nel suo intento, continuò a perseguitarlo, dichiarandogli guerra aperta e progettando disegni di morte su di lui.

La situazione era davvero grave, ma per il monsignore, sorretto dal credo e dalla mano di Dio, non fu impossibile affrontarla. Quei «regnicoli»[11], divisi da un «dispotismo stravagante»[12], ostacolavano continuamente la strada percorsa dall’uomo dalle mille risorse, pronto a qualsiasi cosa pur di testimoniare e mettere a dimora la fede.

Le guerre fra le tribù etiopiche vengono a più riprese a disturbare l’opera missionaria del Massaja, il quale si appresta a diventare alpinista: ascensioni anche su roccia viva e su pareti verticali. Commenta, con l’umorismo che gli è proprio e che non perde occasione di esternare: «[…] mi han tirato su come una secchia dal pozzo: bella figura che fece il povero Vescovo di Cassia con tutto il suo Vicariato […] Dormendo non faceva che sognar precipizi; vegliando, li vedeva»[13].

Il Vescovo ha poi la fortuna di incontrare Antoine Thomson d’Abbadie d’Arrast (1810-1897), il viaggiatore, naturalista, esploratore e cartografo francese (di madre irlandese), autore scrupoloso di cartine africane precise. Rimasero insieme otto giorni, durante i quali Massaja, con la sua formidabile capacità di apprendimento, ebbe modo di acquisire molteplici conoscenze.

L’epica e straordinaria vita del Vescovo Massaja è talmente abbondante di rischi affrontati, di atti eroici, di invincibile fede che denota un chiaro sostegno divino in quell’impresa missionaria che lo ha visto protagonista indiscusso per tanti anni, vincitore di insidie e pericoli mortali.

L’attività del Massaja si articolò in periodi ben definiti: le missioni dei galla (1852-63), con la fondazione di stazione nel Gudrò (1852), nell’Ennèrea (1854), nel Kaffa, in Lagàmara (1855) e nel Ghera (1859). Dopo una permanenza in Europa – dove tornò cinque volte –  per riorganizzare la missione e fondare il collegio San Michele a Marsiglia (1866), costituì la Missione dello Scioa (1868-79), dove re Menelik II (1844-1913) lo trattenne come consigliere e nel 1868 fondò molte case missionarie a Fekerié-Ghemb e Finfinni, poi elevata nel 1889 a capitale di tutta l’Etiopia con il nome di Addis-Abeba.

L’esilio decretato dall’imperatore Joannes IV (1831-1889) il 3 ottobre 1879 troncherà definitivamente l’azione del Vescovo, costringendolo alla rinuncia, che venne redatta a Smirne il 23 maggio 1880.

Massaja, intrepido e determinato, chiamò a raccolta molti cattolici in Italia e in Europa, li infiammò, li ammonì, invitandoli a contribuire alle missioni che stava fondando in Abissinia. Scrisse lettere su lettere per chiedere soccorso e, nei primi anni, ricevette qualche aiuto. Poi più nulla. Nonostante ciò, questo paladino di Cristo non sembrava fermarsi di fronte a niente, perché ogni cosa compiva in nome di Cristo, in quanto si sentiva «tutto fuoco per le Missioni»[14] e, dunque: «Fin che avrò fiato e voce compirò il dovere che per tremendo decreto di Dio sta sulle mie spalle»[15].

Abuna Salama, che fece di tutto per allontanarlo, obbligandolo anche alla ritirata (mai alla fuga) e bruciandogli persino le capanne, definì beffardamente e con irrisione monsignor Massaja Abuna Messias, il «Vescovo Messia», con allusione al suo cognome; ma lui, come scrive nelle sue memorie, intenderà «essere così chiamato per l’avvenire, tenendomi troppo onorato di un tal nome»[16], trasformando l’appellativo di vilipendio in suggello di gloria.

Il 7 gennaio 1849 a Massaua, di notte, come un ladro e dentro un tugurio, consacra vescovo De Jacobis, primo vicario apostolico dell’Abissinia, in una cornice di fuoco e di sangue, mentre infuria la guerra fra abissini ed egiziani. I due missionari non hanno che un solo pastorale e un solo pontificale per la consacrazione, perciò se li devono passare di mano in mano. Fuori risuonano le urla di battaglia, con gli abissini che tumultuano contro i cristiani per i quali il governatore non ha potuto garantire alcuna incolumità. Intanto Fra’ Pasquale da Duno attende alla Messa e gira di qua e di là con due pistole infilate nel suo cingolo di cappuccino, e alla finestra alcuni fedeli europei vigilano sul mare, mentre le barche sono pronte a salpare al primo allarme. Casse d’imballaggio per altari e per seggi, un cerchietto d’argento con una pietra falsa come anello episcopale. Per officianti due sacerdoti indigeni che non sanno servire la Messa in rito latino e che sono stati istruiti nella notte sotto il rumore del martello di Fra’ Pasquale, che inchiodava le casse per fabbricare l’altare. Al Prefatio i due vescovi piangono nella commozione generale della piccola assemblea.

Sacrifici, lotte, privazioni di ogni sorta affronta e che gli procurano gravi problemi di salute… tutto per amore di Cristo e dei galla, che lo ricambiarono di affetto e di ammirazione senza misura e la cui memoria in quei territori permane ancora oggi, come testimonia Padre Antonino Rosso, da quarant’anni studioso ed esperto del cardinale Massaja, e come testimonia la curatrice della Mostra di Torino, Marisa Novelli di Piovà Massaja: entrambi hanno dedicato instancabilmente la loro vita allo studio, alla ricerca storiografica e alla riapertura della causa di beatificazione del Cardinale Massaja.

L’epopea massajana fu caratterizzata da una pastorale efficacissima: la formazione saggia della gioventú; la costituzione di un clero autoctono compatto e fedele; la consacrazione di tre vescovi missionari, tra cui il citato san Giustino de Jacobis[17]; l’adattamento all’ambiente e alla sensibilità religiosa, in particolare ai numerosi e severi digiuni abissini. Seppe abbinare all’evangelizzazione, un’autentica promozione umana con la profilassi contro malattie endemiche, particolarmente contro il vaiolo, per cui fu acclamato «Padre del Fantatà (vaiolo)». Inoltre s’industriò per l’abolizione della schiavitú e per la diffusione dell’alfabetizzazione, per cui scrisse, di suo pugno, libri didattici. Creò centri assistenziali per fronteggiare le emergenze nei tempi, peraltro frequentissimi, di belligeranza e di carestia; si fece mediatore di pace nelle lotte tribali e interprete magistrale di sviluppo di quei popoli: favorí missioni diplomatiche e scientifiche, tanto da essere nominato dal Governo italiano, il 1° marzo 1879, «ministro plenipotenziario» nel trattato d’amicizia e commercio tra l’Italia e lo Scioa.

Colpisce nel padre Massaja lo stile di vita non solo semplice, ma poverissimo. Arrivava  a compiere lunghi viaggi a piedi nudi, anche per sfuggire alla cattura dei nemici, travestito spesso da mendicante, da mercante o nelle fogge piú strane. Era oberato, schiacciato dal lavoro materiale e diplomatico, tanto da stabilire proficue relazioni fra capi africani, autorità romane ed europee. Le sue capacità organizzative e di governo gli assicurarono una grande autorità morale, strappandogli l’ammirazione persino dei nemici. I lunghi silenzi di Roma e la mancanza di direttive lungamente attese; i momenti, ripetutisi varie volte, in cui tutto sembrava perduto e la missione in rovina, avrebbero affossato chiunque, ma non monsignor Massaja che, come leone reso indomito dalla grazia, non si arrese mai.

Dalla Francia Massaja ottenne degli aiuti per le missioni di Aden e dei Galla, ma più ancora dall’Inghilterra, dove si recò con passaporto falso del Governo francese con l’identità di Antonio Bartorelli, un nome che utilizzò molto, anche in Africa, per non essere riconosciuto. Andò in incognito e non come Vescovo per non essere ghermito dalle manovre di potere e dalla massoneria.

Nota tutto, registra tutto, memorizza tutto, tanto che se ne ricorderà ormai ultrasettantenne quando scriverà, con dovizia di particolari, le sue Memorie. Affronta tempeste di sabbia, pugni e schiaffi dai musulmani, febbri gialle e malariche, malattie tropicali e, oltre ad indossare i panni del mercante di forbici ed aghi per sviare i nemici, diventa scienziato e medico nel tentativo di risolvere i problemi delle tre malattie più diffuse dell’Etiopia: la lue, la febbre gialla, il vaiolo. Previene insegnando l’igiene, vaccina le persone e cura con le erbe, un’arte appresa dai frati. Nel paese di Asàndabo, sulle sponde del Nilo Azzurro, nel 1853 trova una popolazione pronta a tendergli le braccia. È certo che nella regione Gudrù potrà diffondere il Vangelo ed erigere molte chiese che con le sue stesse mani progetterà ed edificherà divenendo sia architetto sia muratore.

Disciplina, rigore e gerarchia. La regola è determinante per il Vescovo; ecco allora che pone ordine alle giornate di tutti, neofiti, missionari, se stesso: Santa Messa, preghiera in comune, catechismo, scuola, lavori materiali.

Naturalista e agronomo, pianta la vite e anche le patate, se ne fa spedire in busta mezza e poi la semina, ricavandone quattro bulbi, ne sorge un grande campo. Linguista e glottologo, si mette sulle orme degli evangelizzatori Cirillo (827-869) e Metodio (ca. 815-885), componendo, come fecero loro per le terre slave, l’alfabeto dei Galla, fino ad allora lingua soltanto orale, traducendo ogni suono in alfabeto latino. Lavoro enorme che consentirà di comporre la grammatica amarica e oromonica. Ma non basta, trascrive anche, di suo pugno, catechismi e libri d’istruzione in più copie e in stampatello: tanto fu il suo scrivere in tal modo che non tornerà più al corsivo.

Trascorrono diversi anni e sembra che tutti, dall’Europa, gli siano ora indifferenti. Scrive ai Cappuccini, a Propaganda Fide, a Roma, ma non riceve nessun soccorso. Lui è in miseria, ha dato fondo a tutto. Gli anni passano e lui è sempre più stanco, solo e isolato. Approfitta di ogni mercante che scenda alla costa per spedire in Europa i suoi SOS e si priva anche dei pochi denari che gli restano per inviare corrieri espressi. Persino i preti gli vengono a mancare; la messe abbonda, ma cade e marcisce, perché mancano operai nella vigna del Signore.

Le fatiche e le croci del suo episcopato l’hanno fortemente invecchiato e il suo cuore è divenuto «come la schiena del riccio, tutto spine»[18]. Fa lo stampatore, il sarto, il ciabattino, tutti i mestieri sono suoi e, dopo aver lavorato come un martire, arriva la fame: «Qui il Vescovo si chiama Guglielmo, Guglielmo il segretario, Guglielmo si chiamano tutti i curialisti, Guglielmo il medico, il maestro di scuola; non basta Guglielmo è il muratore, il sarto, il falegname, il fabbro ferraio con tutto il resto…»[19].

L’apostolo dei Galla ispirò numerosissimi missionari e influí mirabilmente su fondatori di congregazioni religiose, come san Daniele Comboni (1831-1881) e il beato Giuseppe Allamano, I.M.C. (1851-1926). Oggi nel mondo cattolico si parla sempre meno dei missionari, quasi ci si vergognasse a parlarne per non fare la figura di chi fa «proselitismo», quasi fosse diventata una colpa vergognosa l’evangelizzazione, ordinata da Cristo Gesù agli Apostoli, in ossequio ad un presunto, spesso fallace, rispetto verso tutti. Massaja fu autentico missionario di Cristo: «Tutti i popoli che hai creato verranno e si prostreranno davanti a te, o Signore, per dare gloria al tuo nome; grande tu sei e compi meraviglie: tu solo sei Dio» (Sal. 86).

Tornato in Italia, anziano, ma ancora vivace e battagliero, si ferma nella città di San Giorgio a Cremano, alle falde del Vesuvio, a Villa Amirante, per trascorrere qualche giorno di riposo, dopo due ictus cerebrali subiti. Assistito dal suo segretario e dal fedele cameriere maltese, si dedica alla correzione e stesura della sua monumentale opera biografica, di cui vedrà stampati i primi cinque volumi, mentre gli altri sette saranno pubblicati post mortem, con l’ultimo uscito nel 1895[20].

Morì, di collasso cardiocircolatorio, il giorno della Trasfigurazione, il 6 agosto 1889. Dopo i solenni funerali, il corpo venne tumulato nella cappella della Congregazione di Propaganda Fide al Verano e, per suo esplicito volere, traslato l’11 giugno 1890 a Frascati, nella chiesa dei Cappuccini. In questo convento vi è un interessante «Museo etiopico» con molti oggetti che ricordano il Venerabile Massaja, fra cui il suo leggendario bastone che portava sempre con sé.

La sua tomba è sovrastata da una statua del 1892 che lo rappresenta seduto, intento a riguardare i volumi dei suoi ricordi. Nel 1939 la San Paolo film produsse il suo primo lavoro cinematografico raccontando, con un kolossal da cineteca (si tratta del lungometraggio con il maggior numero di comparse nella storia del cinema), Abuna Messias. Il racconto dello straordinario martire rimasto più e più volte miracolosamente in vita meriterebbe nuovamente un gran film.

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[1] [Cardinale] Guglielmo Massaja, O.F.M., Lettere e scritti minori, a cura di Padre Antonino Rosso, voll. II-V,  Istituto Storico dei Cappuccini, Roma 1978.

[2] Il cardinale Guglielmo Massaja avversava la scientificità esasperata ed era fortemente contrario alle teorie di Charles Darwin (1809-1882).

[3] Ettore Cozzani, op. cit., p. 18.

[4] Ivi, p. 23.

[5] Ivi, p. 25.

[6] Ibidem.

[7] Ivi, p. 27.

[8] Ivi, p. 29.

[9] Ibidem.

[10] Secondo l’ultimo censimento, che risale peraltro all’ormai lontano 1994, le religioni dell’Etiopia sono oggi così suddivise: 50,6% Chiesa ortodossa copta; 10,1% protestanti; 0,9 % cattolici; 32,8% musulmani; 5,6% animisti.

[11] Ettore Cozzani, op. cit., p. 49.

[12] Ibidem.

[13] Ivi, p. 32.

[14] Ivi, p. 46.

[15] Ibidem.

[16] Ivi, p. 47.

[17] Canonizzato da Papa Paolo VI (1963-1978) nel 1975.

[18] ETTORE COZZANI, op. cit., p. 265.

[19] Ivi, p. 267.

[20] [Cardinale] Guglielmo Massaja O.F.M., I miei trentacinque anni di missione nell’alta Etiopia , Tipografia poliglotta di Propaganda Fide-Tipografia S. Giuseppe, Roma-Milano, vol. I 1885;  Tipografia S. Giuseppe, Milano vol. II-III 1886; vol. IV 1887; vol. V 1888; vol. VI-VII 1889; vol VIII 1890; vol. IX 1891; vol. X 1892; vol. XI 1893; vol. XII 1895.

4 commenti su “Scriptorium – Recensioni. Rubrica quindicinale di Cristina Siccardi”

  1. Un gigante della Chiesa e della Scienza. I contenuti della Sua opera dovrebbero essere divulgati adeguatamente, oggi più che mai. Ringrazio l’Autrice.

  2. cattolico triste

    Nella chiesa di Bergoglio questa biografia sembra la “favola della nonna”. Grazie di questa preziosa testimonianza a conferma della voragine di male in cui siamo precipitati con il Concilio Vaticano II e a dimostrazione che Dio vuole salvare il “suo popolo” attraverso il castigo di un VdR eretico eletto da massoni. Preghiamo per non perdere la Fede anche noi! Miserere nostri Domine

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