Abbiamo detto in altre occasioni di essere “passati al bosco”, ossia ribelli, oppositori del nostro tempo. Incomoda posizione, vissuta, come prescriveva Zarathustra “su un alto monte”, dove l’aria è gelida ma pura e si osserva “molto di mondo”. Strana situazione quella italiana, in cui comanda un signore non eletto da nessuno e dove il bilancio statale prevede un aumento delle spese militari e un taglio secco di quelle destinate all’istruzione.

Esiste una correlazione tra le due improvvide decisioni. Per armarsi seguendo la volontà del padrone a stelle e strisce, proseguendo in una politica inesistente e servile, non occorre grande cultura. Per svolgere le mansioni assegnate – camerieri o addetti al catering, anche bellico- basta un’istruzione sommaria. Si può affermare che l’Italia investe sull’ignoranza dei suoi giovani, tenacemente perseguita da decenni di incuria, innumerevoli fallimentari riforme scolastiche e, soprattutto, di clamorosa indifferenza nei confronti della cultura, il più rilevante patrimonio immateriale della nostra nazione.

Viene in mente la lirica del ventenne Giacomo Leopardi all’Italia: “vedo le mura e gli archi e le colonne, ma la gloria non vedo”. Due secoli dopo, le vestigia sono nascoste dagli orrendi parallelepipedi del centri commerciali e i muri imbrattati da improbabili geroglifici, le prestazioni di sedicenti artisti di strada. La bruttezza ha conquistato il Bel Paese – ridotto a marca di formaggio – sulle ali di un’ignoranza soddisfatta di sé, segno di un popolo imbarbarito che ha sostituito il look alla bellezza trasmessa dai padri.

La giustificazione al taglio degli investimenti sull’istruzione (investimenti, non spese) fa riferimento alla diminuzione della popolazione in età scolastica. Il dato statistico è inoppugnabile, ma che cosa hanno fatto i governi della repubblica – nessuno escluso – per incentivare quello che dovrebbe essere il primario interesse nazionale, ossia la riproduzione biologica degli italiani, presupposto della persistenza del nostro popolo, della trasmissione della sua cultura, della sua lingua, della sua eredità storica, della sua economia? Assolutamente nulla, tranne incentivare in ogni modo l’individualismo, la denatalità, il crollo dell’istituzione familiare e dell’idea stessa di società naturale aperta alla nascita di nuovi membri della comunità.

Eventualmente, i dubbi risparmi nel bilancio dell’istruzione potevano essere stornati a politiche concrete – economiche ed educative – a favore della natalità. Allo stesso modo, l’aumento delle spese militari avrebbe potuto essere destinato a sostenere il lavoro stremato da anni di crisi. Se tutto ciò non avviene, è segno che “vuolsi così dove si puote ciò che si vuole”.

L’inversione di tendenza – se mai avverrà – ci sarà solo il giorno in cui gli italiani comprenderanno che i governi non perseguono l’interesse popolare ma rispondono a logiche oligarchiche da cui noi, la trascurabile maggioranza, siamo esclusi. Nel caso dell’istruzione, è difficile negare l’evidenza. Le classi dirigenti lavorano per aumentare l’ignoranza dei sudditi, gli ex cittadini che hanno battuto un primato sconfortante: pagano più tasse che mai.

Negli anni drammatici della seconda guerra mondiale, molti italiani inventarono mille mestieri per ottenere un po’ di denaro dagli occupanti, o liberatori, scelga il lettore il termine corrispondente ai suoi sentimenti. Uno era il lustrascarpe, svolto prevalentemente da bambini e ragazzi in cerca di qualche soldo per la pagnotta. Nacque il neologismo “sciuscià”, dall’inglese shoe-shine, e sulla dura condizione servile di quei piccoli fu girato un commovente film di Vittorio De Sica. Nel mondo capovolto, siamo noi a pagare per svolgere il ruolo di lustrascarpe. Più spese per compiacere l’apparato bellico della Nato, risparmi sull’istruzione degli italiani di domani. Autolesionismo, insipienza o tradimento?

Nessuno negherà il progressivo declino culturale (e morale) delle classi dirigenti, che trascina in basso il resto degli italiani. Eppure in ogni ambito esistevano tesori di sapienza, volontà, capacità di lavoro, dalle maestranze operaie e contadine sino agli artigiani, agli imprenditori e alla stessa scuola, vertebrata dalla riforma di Giovanni Gentile, il maggiore filosofo italiano del Novecento. Quasi settantenne, il padre dell’attualismo fu assassinato durante la guerra civile. Il primo segnale di una decadenza il cui moto sta accelerando, tra banchi a rotelle, didattica a distanza, perdita di prestigio dei docenti, diplomi e titoli sempre più facili e sempre più svalutati.

Al di là della retorica egalitaria, una scuola che insegna, educa e istruisce con la giusta selezione è un primario interesse nazionale, innanzitutto dei ceti più modesti. L’ascensore sociale si è arrestato e si è allargato il divario tra i ricchi – che possono pagare una preparazione adeguata ai figli – e tutti gli altri. Dilagano tuttavia lauree e master che valgono pochissimo in termini culturali e quasi nulla ai fini del futuro professionale. Un numero sterminato di italiani in possesso di titoli di studio ha difficoltà a leggere, scrivere, comprendere testi: è diventato più ignorante e probabilmente meno intelligente. Si chiama effetto Flynn e riguarda l’intero occidente: da almeno vent’anni diminuisce il quoziente intellettivo dei cittadini. L’istituzione scolastica non può non avere responsabilità, unite con la pigrizia mentale di massa che affida tutto allo smartphone.

Provvedimenti? Lezioni da remoto, promozioni di massa, distruzione programmata, perseguita, delle materie dette umanistiche, quelle che conferiscono la cultura generale e soprattutto dotano di spirito critico e capacità di ragionamento. La sociologa Ida Magli scrisse che la frammentarietà di cui sembra vittima il sapere umanistico è la sua grande ricchezza. Sconfitto perché insegna a pensare, senza che sia aumentata la competenza scientifica.

La scuola, nel migliore dei casi, addestra a svolgere le mansioni decise dall’oligarchia mortificando le eccellenze senza fornire educazione civile. Nel peggiore, è un parcheggio per futuri disoccupati e una possibilità d’impiego poco attrattiva (università a parte) per un numeroso proletariato docente – soprattutto femminile – interessato ad accumulare punteggi per insegnare sotto casa. Malpagati e privi di prestigio, perché dovrebbero sentirsi investiti di una missione, o almeno di un impegnativo ruolo sociale e nazionale?

Misera consolazione è sapere di non essere soli nel degrado educativo. In Spagna una recentissima riforma ha abolito di fatto lo studio della filosofia e ridotto la storia alla cronaca della contemporaneità. Pochissimo spazio per la geografia, matematica “inclusiva” (che cosa vorrà dire?), lezioni sul gender e il neofemminismo. Riduzione a gregge ignorante e manipolabile, là, da noi e dovunque nell’Occidente terminale, tranne che per i rampolli della classe dirigente. Un totalitarismo della tabula rasa che rende le generazioni schiave della narrazione dominante, l’unica conosciuta, la sola autorizzata, che cancella tutto, a partire dalla storia.

Illuminante è una vignetta del quotidiano spagnolo ABC. Un nipote chiede al nonno: “Ti preoccupa che io non sappia chi fu Don Pelayo? (il re che iniziò la Reconquista nell’VIII secolo, fondatore della nazione). No, figliolo mi dispiace che non sai chi sei tu”. Nel caso italiano, l’obiettivo è ridurci a una popolazione residuale travolta dalla vitalità degli stranieri, formata da camerieri, porta pizza, fattorini e schiavi del modello Amazon, operatori della Disneyland a cui ci stanno riducendo. Il destino dei più svegli sarà quello di influencer sulle reti sociali, guide turistiche e museali.

Italia-museo, ovvero cristallizzazione delle glorie passate, rinchiuse in una teca, da osservare a orari fissi, i monumenti e le bellezze naturali semplici fondali, locations per i selfie dei turisti da feste comandate. I modelli saranno sempre più le veline, i calciatori, i partecipanti a programmi come la Pupa e il Secchione; i giochi di ruolo saranno quelli di Uomini e Donne o Amici. L’Italia di Maria De Filippi.

Nondimeno, non pochi giovani riscoprono il sacro, recuperano un rapporto diretto con la natura e la terra fuori dalla retorica di Gaia e dell’ambientalismo d’accatto. In molti fuggono dalle città per ritrovare in campagna il senso della vita, recuperano ed aggiornano la sapienza profonda dei mestieri agricoli ed artigianali. Minoranze, le uniche su cui riporre speranze. La scuola, oltreché scadente, è privatizzata e non insegna più neppure la lingua comune. Alcuni atenei impartiscono le lezioni in inglese, specie nelle materie economiche e finanziarie, un segno disperante di colonizzazione sottoculturale.

Quando la scuola si apre alle famiglie la chiamano Open School e perfino i pensionati, per accedere alle prestazioni previdenziali, si devono connettere a MyInps. Del passaporto vaccinale, green pass, portale della digitalizzazione dell’esistenza, meglio tacere per carità di patria. La scuola non educa alla libertà, ma al conformismo e a una religione secolare basata sulla tecnica. Mancano i maestri, sovrabbondano gli istruttori, mentre i giovani si apprestano a recitare il ruolo di militi inconsapevoli di un sistema che li vuole fragili, sottomessi, incolti, lontani dalle domande sul senso della vita, sullo spirito e sulla libertà. Signorini soddisfatti e uomini massa, come previde José Ortega y Gasset.

Tutt’al più, i più dotati diventeranno specialisti, persone che conosceranno sempre di più su un argomento sempre più piccolo, e da questa perizia settoriale, angusta, impartiranno lezioni su tutto, dopo aver ascoltato il telegiornale unico, letto la stampa Unica, per ricevere istruzioni. Istruzioni per l’uso, un gigantesco tutorial (si dice così, adesso) scaricabile on line, la nuova enciclopedia della vita a gettone, per la quale è sufficiente saper utilizzare la tastiera degli apparati elettronici, di cui l’Homo digitalis è diventato propaggine.

Nulla è più terribile di un’ignoranza attiva, scriveva Goethe. Cervantes osservava che è volgo, plebe chiunque non sappia, sia pure principe e signore. Ma chi sono costoro, chiede il signorino soddisfatto, barbaro di ritorno che tuttavia sa tutto di Fedez ed Elettra Lamborghini. Forse – il paradosso e il capovolgimento sono le cifre dell’epoca – diminuire le spese per l’istruzione è un bene: meno scuola – questa scuola – meno danni alle menti in formazione.

Ha ragione l’americano Rod Dreher, teorico della cosiddetta “opzione Benedetto”, che teorizza la nascita e lo sviluppo di comunità unite dalla cultura e dal desiderio di futuro, che svolgono autonomamente il lavoro educativo abbandonato dalle istituzioni e dai loro padroni oligarchici. Fu l’intuizione di San Benedetto nel buio seguito al crollo dell’impero romano, che ridette vita, speranza, lavoro e cultura all’Europa illuminando lo straordinario Medioevo. Dovremo ricostruire noi, dal basso – con iniziative piccole e grandi, reti di prossimità, libere associazioni – ciò che viene disfatto dall’alto. Una tela di Penelope contro i nuovi Proci.

Per le giovani generazioni italiane – le ultime di un popolo in estinzione? – vediamo tre alternative. La prima riguarda il gregge: accettare la situazione e, all’italiana, cercare di trarne profitto personale. È la regola da otto secoli, da quando ci dividemmo tra Guelfi e Ghibellini per conto di stranieri. La seconda, triste ma inevitabile, è emigrare, riprendere in mano il proprio destino rompendo con una nazione morente, indifferente ai suoi figli, disinteressata a riprodurre se stessa e trasmettere i tesori ricevuti di civiltà, conoscenza, cultura, prosperità a generazioni capaci di ridar loro vita. La terza opzione è lottare, da posizioni di minoranza – estrema, incompresa, spesso ridicolizzata – per rendere testimonianza a chi ci sostituirà come abitatori di questa piccola penisola.

Non tutti vollero cancellare l’Italia, la cultura, il suo popolo, la sua lingua, il suo specifico ruolo nel mondo. Non tutti investirono sulla fine, l’oblio e l’ignoranza. Forse a qualcuno interesserà, domani o dopodomani. Oggi, non resta che stringere i denti, non cedere allo scoraggiamento, non contribuire al deserto che avanza.

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