SHAKESPEARE E IL NICHILISMO DI AMLETO – di Dionisio di Francescantonio

di Dionisio di Francescantonio

 

 

 

ad55/7Amleto è la tragedia di uno spirito titanico che si dibatte nell’angusta prigione d’una natura  assediata dallo scetticismo e dall’abulia. Il principe di Danimarca dubita di tutto, soprattutto di sé stesso e, poiché non è sicuro di nulla, si rifugia in una sorta di claustrofobia esistenziale che lo induce a una ruminazione carica di insofferenza verso ciò che lo vorrebbe pronto all’azione, cioè a compiere quella vendetta che gli ha domandato (e comandato) il fantasma di suo padre. L’esigenza della vendetta costituisce un fortissimo richiamo alla sua coscienza,  ma non è sufficiente a spingerlo ad agire. All’adempimento di quello che pure avverte come un dovere per lui ineludibile, egli  preferisce la riflessione, il borbottio della coscienza,  quel costante interrogarsi su sé stesso e su quanto  accade intorno a lui che sfocia nel famoso monologo  dell’ “essere o non essere”, dove si afferma , in sostanza, che non v’è certezza di nulla, anzi che il nulla sta al centro dell’essere e che dietro ad ogni cosa c’è il vuoto.  Una constatazione che ci appare come una compiuta dichiarazione di nichilismo.

Certo, al tempo di Shakespeare la definizione non esisteva e sarebbe passato del tempo per coniarla e – come dire – per tratteggiarne le caratteristiche. Ma sta di fatto che dopo Shakespeare il nichilismo, questa mortale malattia dello spirito, si diffonde come una peste nella coscienza degli uomini dell’Occidente. A definirla, a parlarne in termini via via sempre più chiari e vicini alla sensibilità contemporanea, ormai diffusamente permeata di nichilismo, ci penseranno autori, tra altri, come Dostoevskij, Nietzsche e Kierkegaard, le cui opere probabilmente non sarebbero state possibili senza la comparsa del principe di Danimarca. E’ Dostoevskij che fa pronunciare a un personaggio dei Karamazov la famosa frase: “Se Dio non c’è, tutto è permesso”.  Il nichilismo, sfrondato della retorica di chi l’ha avvolto per promuoverlo e caldeggiarlo, e ridotto all’essenziale, si può, parafrasando la frase del personaggio dei Karamazov e ponendosi in una prospettiva meno spregiudicata della sua, rappresentarlo con quest’altra frase: “Se Dio non c’è, la vita non ha senso”. Non si sa se Shakespeare fosse un credente, ma quand’egli compose le sue opere lo scisma anglicano era già comparso in Inghilterra e si può immaginare che un trauma religioso e spirituale di quella portata avesse scosso molte coscienze, specie quelle di intellettuali e poeti, coloro insomma che più si interrogano sul senso della vita e della morte, e Shakespeare apparteneva per l’appunto a queste categorie. Benché molti personaggi dei suoi drammi invochino il favore o la clemenza di Dio nel corso delle loro traversie, non è possibile sostenere che il grande drammaturgo inglese sentisse come proprio il fervore religioso che, in talune circostanze, attribuisce ai suoi protagonisti. Non posso affermare di ricordare ogni vicenda dei numerosi personaggi inventati da Shakespeare (non è mia intenzione fare, qui, un lavoro di critica sulla sua opera, quindi non mi sono impegnato a rileggerne tutti i drammi) ma mi pare proprio che non compaiano mai, nei suoi lavori, apologeti della fede e meno che mai martiri cristiani.

Ma ci basta restare sul terreno dell’opera in esame per rilevare immediatamente che la passione che la domina, e che determina il tragico destino dei suoi protagonisti, è lo spirito di vendetta, un sentimento che si pone esattamente all’opposto di quello del perdono predicato da Cristo. Ad ogni modo, Amleto non è certo l’opera di un uomo che ritenga che “tutto sia permesso” o che la vita “non abbia senso”; per meglio dire, l’impressione che si ricava dalla lettura della tragedia è che Shakespeare non sembri ancora pervenuto, almeno lui, a questo stadio di nichilismo.  Vediamo perché. Shakespeare non appare come un partigiano di Amleto, poiché non fa di lui un eroe positivo, anzi insiste a mostrarcelo in tutta la sua negatività umana.

Il cammino di Amleto tra i suoi simili si configura da subito come un avanzare di morte che lo indirizza fatalmente verso la distruzione e l’autodistruzione. Ciò che è più vicino al suo cuore, la dolce e tenera Ofelia, (stando almeno a ciò che dichiara quando ne conosce la triste sorte), egli è solo capace di spingerla, col suo comportamento insensato e crudele (tra cui la futile uccisione del padre di lei), alla follia e alla morte. E alla morte spinge anche la madre e sé stesso, cadendo nel tranello del finto duello con Laerte, una trappola tesagli dal re, lo zio che ha assassinato il padre. Il finale, pur così tragico e denso di eccidi, tra cui quello dello stesso zio, ormai tardo compimento della vendetta assegnatagli dal fantasma del padre, è un altro elemento che ci indica la presa di distanza di Shakespeare da Amleto, giacché la fine che gli riserva non è una fine eroica, com’è consuetudine nelle tragedie (almeno al tempo del teatro elisabettiano), ma una fine che ha un acre sapore di ironia; la fine scempia, insomma, di chi non ha voluto assumere fino in fondo il ruolo che il destino gli ha assegnato, quello di fare giustizia di un usurpatore che ha preso il posto del padre nel regno e nel letto di sua madre, ma di chi ha preferito temporeggiare, rinviare e delegare, fino a cadere ingenuamente nell’inganno del re che lo lusinga con la scommessa fatta sulla sua capacità di tener testa in duello al provetto spadaccino Laerte, il quale, per inciso, è il fratello di Ofelia e il figlio di Polonio, ossia le due persone che Amleto ha condotto a morte, e che perciò ha un doppio motivo per vendicarsi di lui, cosa che il molto perspicace principe di Danimarca non dovrebbe permettersi di sottovalutare.

Ma la posizione di Shakespeare nei confronti di Amleto è ambivalente e fortemente ambigua, poiché  l’ironia con cui distacca da sé il personaggio non riesce a nascondere la predilezione ch’egli ha per lui, dal momento che lo dota d’un grandissimo carisma intellettuale e umano; un carisma capace di indurre ognuno di noi ad ammirare senza condizioni  il principe di Danimarca. Di fronte ad Amleto, dobbiamo ammettere sinceramente che siamo immediatamente soggiogati dalla sua intelligenza e dalla sua arguzia, dalla forza del suo ragionamento e del suo linguaggio, non ultimo dal suo humour (per quanto macabro). La nostra ammirazione vince anche la sua gratuita crudeltà, quella verso Ofelia e verso il padre di lei, verso Rosencranz e Guilderstein, mandati a morte senza necessità, e infine verso sua madre, accusata di connivenza nel delitto dello zio anche se tutto induce a credere il contrario.

Dunque una predilezione verso Amleto, da parte di Shakespeare, che, intanto, sarebbe riduttivo attribuire all’impegno dell’autore e al suo compiacimento per essere riuscito a restituirne tutta la complessità del carattere e le sottigliezze intellettuali. E’ verosimile ritenere che la figura di Amleto sia scaturita dalla mente del grande drammaturgo perché essa occupava un posto privilegiato nel suo animo e rappresentava una componente importante del suo essere. E l’ironia adottata da Shakespeare nel muoverne i passi verso il destino che il personaggio sembra voglia scavarsi con le sue stesse mani, è dettata dal bisogno di guardarlo obiettivamente, ossia con distacco, per “costruirlo bene”, oppure dal timore di scoprirsi lui stesso, Shakespeare, un uomo che cominci a pensare che l’esistenza accusi un calo di senso e che dietro di essa si profili lo spettro di quel nulla che egli ancora tentava di esorcizzare, mentre altri dopo di lui lo avrebbero accolto e propugnato per superbia, insensatezza o spirito autodistruttivo?

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