Si può ancora parlare di Dio, dopo Auschwitz? – di Francesco Lamendola

 

Dov’era Dio, ad Auschwitz? Si può ancora scrivere una poesia o parlare dei fiori, dopo Auschwitz? chiedeva Theodor W. Adorno; e rispondeva: no, sarebbe una barbarie. E fare filosofia, fare teologia, si può? chiedeva Hans Jonas. Soffermiamoci su questa seconda domanda; lasciamo stare i fiori e le poesie, e parliamo di ricerca filosofica.

Scriveva Hans Jonas (1903-1993), discepolo di Heidegger, nel suo libro Il concetto di Dio dopo Auschwitz (Genova, Il Melangolo, 1997, pp. pp. 20-35):

Chi accetta il fallimento nel dominio del sapere filosofico, rinuncia, è vero, e a priori, allo scopo di conoscere razionalmente Dio, ma deve comunque riflettere e meditare poiché le cose in questione rivendicano pur sempre un senso e un significato. D’altra parte l’affermazione che nella teologia filosofica non vi è né senso né significato, può essere facilmente respinta come un sillogismo tautologico del tutto simile a un concetto vizioso. E ciò in quanto, avendo definito in anticipo come “senso” unicamente ciò che si può verificare mediante dati sensibili, tale affermazione identifica ciò che non ha senso con ciò che è possibile conoscere. A questo atto di forza per definizione, deve obbedire solo chi l’ha accettato. Si può perciò lavorare sul concetto di Dio, anche se non vi è nessuna prova dell’esistenza di Dio. (…)

In questo contesto si impone la domanda: che cosa ha aggiunto Auschwitz a ciò che da sempre siamo in grado di sapere sulle proporzioni delle cose spaventose e terribili che gli uomini sono capaci di commettere verso loro simili? A ciò che da sempre hanno commesso? E che cosa in particolare, che noi ebrei non abbiamo conosciuto in una storia millenaria di sofferenze e di dolori, patrimonio essenziale della nostra memoria collettiva? (…)

Questo doloroso inasprimento della domanda di Giobbe – cui non sfugge il nostri problema – poteva essere inizialmente chiarito dai profeti biblici – ricorrendo ancora una volta all’alleanza: il popolo che l’aveva stipulata con Dio, era diventato infedele. Ma nei lunghi secoli di fedeltà che seguirono, nessuna colpa poteva essere invocata per giustificare il dolore; si ricorse allora all’idea di testimonianza, categoria sorta originariamente nell’età dei Maccabei e che i posteri hanno ereditato col concetto di martirio. Secondo questa idea proprio gli innocenti e i giusti sono chiamati a sopportare lo scandalo del male. (…)

Nulla di tutto ciò può essere di una qualche utilità per comprendere l’evento che ha nome Auschwitz. Non vi è più posto per fedeltà o infedeltà, fede o agnosticismo, colpa e pena, o per termini come testimonianza, prova, e speranza di salvezza e neppure  per forza e debolezza, eroismo o viltà, resistenza o rassegnazione.

Di tutto ciò non sapeva nulla Auschwitz che divorò bambini che non possedevano ancora l’uso della parola e ai quali questa opportunità non fu neppure concessa. Chi vi morì, non fu assassinato per la fede che professava e neppure a causa di essa o di qualche convinzione personale.  Coloro che vi morirono, furono innanzitutto privati della loro umanità in uno stato di estrema umiliazione e indigenza; nessun barlume di dignità umana fu lasciato a chi era destinato alla soluzione finale – nulla di tutto ciò era riconoscibile negli scheletrici fantasmi sopravvissuti nei Lager liberati. E tuttavia – paradosso dei paradossi – fu proprio l’antico popolo dell’alleanza – alleanza a cui nessuno di quanti presero parte allo sterminio, assassinati e martiri, più credeva -, fu proprio questo popolo e non un altro ad affrontare il destino dell’annientamento totale con il falso pretesto della razza il più mostruoso capovolgimento della elezione in maledizione che rese ridicolo ogni tentativo di attribuirvi un senso. Quindi un qualche nesso sussiste – del tipo più perverso – con coloro che cercarono Dio e coi profeti, i cui discendenti furono tratti dalla dispersione e riuniti nell’unità di una morte comune. Dio permise che ciò accadesse. Ma quale Dio poteva permetterlo? (…)

Come ho cercato di dimostrare, Auschwitz rappresenta quindi per l’esperienza ebraica della storia una realtà assolutamente nuova e inedita, che non può essere compresa e pensata con le categorie teologiche tradizionali. Quindi chi non intende rinunciare sic et simpliciter al concetto di Dio (e il filosofo può legittimamente rivendicare il diritto a non rinunciarvi), deve pensare questo concetto in modo del tutto nuovo e cercare una nuova risposta all’antico interrogativo di Giobbe. (…)

Strettamente connessa con i concetti di un Dio sofferente e di un Dio diveniente è l’idea di un Dio CHE SI PRENDE CURA, di un Dio che non è lontano e distante e chiuso in se stesso, ma coinvolto in ciò di cui si preoccupa. (…) E con ciò ci avviciniamo al punto veramente critico del nostro avventuroso tentativo di proporre una teologia speculativa: questo non è un Dio onnipotente? (…)

Tuttavia questo non può bastare, poiché di fronte alle cose veramente inaudite che, nel creato, alcune creature, fatte a sua somiglianza, hanno fatto ad altre creature innocenti, ci si dovrebbe aspettare che il Dio, somma bontà, venga meno alla regola che si è imposto di trattenere in sé la propria potenza e intervenga con un miracolo di salvezza. Ma questo miracolo non c’è stato; durante gli anni in cui si scatenò la furia di Auschwitz Dio restò muto

Con tutto il dovuto rispetto per la sofferenza di quanti morirono ad Auschwitz, e che qui non è in discussione, questa pagina di prosa è, dal punto di vista speculativo, un esempio di non filosofia. Non c’è nulla, neppure una frase, neppure un rigo, che abbia una qualità filosofica: è tutto giocato sul terreno della emotività. E tale terreno, con tutto rispetto per quelli che soffrirono e morirono, non ha niente a che fare con la filosofia, né con la teologia, come qui il Nostro vorrebbe far credere.

In fondo, il suo atteggiamento è il corrispettivo ebraico dell’illuminista Voltaire, che nel Candido, o dell’ottimismo, si fa beffe dell’idea di un Dio che provvede al bene degli esseri umani, perché nel 1755 Lisbona venne rasa al suolo da un terremoto che provocò migliaia di morti. Erano del tutto sbagliate le premesse filosofiche di Voltaire, come abbiamo già osservato in precedenti lavori, così come sono del tutto sbagliate quelle di Hans Jonas, il quale crede di fare filosofia o teologia, ma fa solamente della retorica, nel senso letterario e tecnico dell’espressione.

La premessa concettuale è un non significato. Egli dice che anche chi accetta “il fallimento”, termine che, in filosofia, non significa proprio nulla, è chiamato comunque a riflettere e meditare, il che non è fare filosofia, ma chiacchiera da bar; poiché le cose in questione rivendicano pur sempre un senso e un significato. Ora, fare filosofia non è accettare che le cose “rivendichino” un significato, ma individuare il loro significato. Le cose non rivendicano niente di niente; le cose sono solo cose: a dar loro un significato è chiamata la filosofia, se lo può, e non viceversa, a vedersi imporre da esse la ricerca del significato. Se non lo può, allora la filosofia si arrende, rinuncia a se stessa.

Ma se è questo il concetto di “fallimento”, allora cade anche la necessità di trovare un significato: è più coerente e più onesto dire che un significato non c’è, o che non è alla portata delle possibilità umane. D’altra parte, Jonas concede che il “senso” delle cose non può essere circoscritto all’osservazione dei dati sensibili. Questo dovrebbe far cadere tutto il suo successivo argomentare: che senso ha avuto Auschwitz, visto che Dio lo ha permesso? Perché i disegni di Dio, e quello che ha un senso dalla prospettiva di Dio, non è, per definizione, osservabile o misurabile da parte dell’uomo.

Ma il punto debole di tutta la sua impostazione sta proprio qui: in quanto egli rivendica che, all’interno della tradizione teologica giudaica (e questo, di nuovo, non è fare filosofia: perché fare filosofia è ragionare in universale, non in questo o quel contesto culturale e in questa o quella tradizione teologica) l’uomo può conoscer qualcosa di Dio, sia pur limitatamente e imperfettamente. Si faccia attenzione a questo concetto: esso equivale a porre la questione della conoscenza del divino in una dimensione quantitativa.

Infatti, solo per questa via Jonas può porre la domanda: dov’era Dio all’epoca di Auschwitz? Perché Auschwitz, come lui intende questo concetto, è un fatto storico più grave di altri fatti storici, ma solo sul piano quantitativo, in quanto l’atrocità dell’uomo contro l’uomo, l’ingiustizia della persecuzione degli innocenti, non sono per niente fatti nuovi o particolarmente insoliti nella storia. Va da sé che, una volta portata la riflessione filosofica su questo piano, la filosofia prende congedo: non ha più nulla da fare. Subentra la storiografia. E se la storiografia, poniamo, dimostrasse, un domani, che non furono sei milioni gli ebrei che perirono ad Auschwitz e negli altri lager, tutta l’impostazione di Jonas verrebbe meno. Tuttavia, noi non vogliamo portarci su questo terreno; vogliano restare, al contrario, per quanto possibile, sul terreno filosofico, che è quello in cui si pensano gli universali e non i particolari. La domanda, quindi, è come mai Dio abbia potuto permettere una cosa come Auschwitz; e, visto che l’ha permessa, se per caso ciò non sia la prova che Dio non esiste; oppure, in subordine, che Dio non possa più esser pensato come veniva pensato prima, cioè come misericordioso e al tempo stesso come onnipotente. Se è misericordioso, infatti, perché ha permesso Auschwitz? Forse perché non è onnipotente? Altrimenti, resta solo l’ipotesi che non sia compassionevole.

Jonas pone così la questione: che cosa ha aggiunto Auschwitz a ciò che da sempre siamo in grado di sapere sulle proporzioni delle cose spaventose e terribili che gli uomini sono capaci di commettere verso i loro simili? In verità, la risposta è di per sé evidente: nulla. Ci sono già state atrocità e massacri; ci sono già stati anche genocidi. È evidente, perciò, che si vuol far passare per unico il genocidio subito dagli ebrei; inoltre, lo si vuol presentare come il misfatto più atroce mai avvenuto nella storia dell’umanità, quello per il quale non disponiamo neppure di categorie morali, per non dire intellettuali, per descriverlo. Ma perché? Evidentemente, per un fatto quantitativo. Se si obiettasse che i rom, fatte le proporzioni, hanno subito, contestualmente agli ebrei, un trattamento ancor più duro; o che lo avevano già subito, prima di loro, gli armeni da parte dei turchi, il discorso cadrebbe. Tuttavia abbiamo deciso di non porci sul piano storiografico; lasciamo che altri facciano la tragica contabilità dei massacri e dei genocidi; ci limitiamo a osservare che la quantità non è mai una categoria filosofica, né dà origine, di per sé, a una riflessione che sia filosoficamente nuova e diversa rispetto a ciò che già si conosce.

A questo punto Jonas interroga le categorie della teologia rabbinica e osserva che la questione era già stata posta nel Libro di Giobbe e aveva già trovato risposta nella imperscrutabilità, ma anche nella misericordia e provvidenzialità di Dio, e prima ancora nella infedeltà degli uomini all’Alleanza con Lui. Che cosa c’è, dunque, ad Auschwitz, che rende insufficiente questa risposta? E che cosa rende inadeguata, secondo Jonas, anche la risposta dei Libri dei Maccabei, ossia il valore di testimonianza che la sofferenza dei giusti e degli innocenti rende a Dio, riscattando il mistero e lo scandalo del male? Senza addentrarci troppo sia nel discorso su Giobbe sia in quello sui Maccabei – ripetiamo che la filosofia è pensare in universale, non pensare secondo le categorie di un certo popolo o di una certa tradizione religiosa – ci par di capire che la differenza, per Jonas, sia sempre di tipo quantitativo: Auschwitz… divorò bambini che non possedevano ancora l’uso della parola (dove Auschwitz, si noti, diventa un Moloch, una divinità assetata di sangue).

Inoltre, egli afferma che i morti innocenti di Auschwitz non possono essere incolpati d’infedeltà all’Alleanza, né si può pretendere da loro che si siano offerti come martiri, cioè come testimoni, perché, sono parole sue, nessuno di quanti presero parte allo sterminio, assassinati e martiri, più credeva all’Alleanza. Ma se non ci credevano, perché li chiama martiri? Martire è colui che rende testimonianza. Perché dunque egli fa, delle vittime di Auschwitz, dei martiri? È incoerente: chiede conto a Dio perché abbia permesso che ciò accadesse, però chiama quei morti col nome di martiri. Se non credevano all’Alleanza, non erano martiri: erano solo vittime. Come ce ne sono state altre, e ce ne sono tuttora, nella storia umana.

Infine se la prende con Dio perché non ha fatto il “miracolo” d’intervenire a salvare quei martiri. Da quel mancato miracolo, Dio, ai suoi occhi, è rimasto azzoppato: non è più onnipotente, posto che sia, almeno, compassionevole. Il fatto è che questo giudizio è “passato” nella cultura contemporanea. Jonas, che ragiona secondo categorie ebraiche, trova scandaloso che Dio non sia intervenuto per salvare il suo popolo; ma ora tutti gli uomini, cioè anche i non-ebrei, schiacciati dal senso di colpa per Auschwitz, hanno fatto proprio il giudizio di Jonas. I non ebrei, però, non si rendono conto che lo scandalo, per Jonas, è che Dio non abbia salvato i suoi, non che non abbia salvato genericamente degli innocenti e dei bambini. Questo è il lato inconfessabile, ma evidente, per chi lo vuol vedere, della prospettiva ebraica. Siccome gli ebrei sono il popolo eletto, Dio doveva salvarli. Ma se fossero stati non ebrei, era diverso: si legga il Libro di Ester e ciò apparirà chiaro. Perciò non è “Dio” a essere accusato, ma il loro Dio: Yahweh…

10 commenti su “Si può ancora parlare di Dio, dopo Auschwitz? – di Francesco Lamendola”

  1. Dio ad Auschwitz c’era: era con santa Teresa Benedetta della Croce e con san Massimiliano Maria Kolbe, che in quel lager ha offerto la sua vita per salvare quella di un altro uomo.

  2. vorrei che ogni tanto si parlasse anche di altri genocidi. Per esempio del genocidio degli indigeni della Terra del Fuoco e della Patagonia deciso da Julius Popper (indovinate di che etnia era!!!)

  3. dei 18 milioni di indiani d’America sterminati dagli invasori inglesi e francesi, di altrettanti amerindi sterminati dagli invasori spagnoli e portoghesi, dei 100 milioni di morti causati dal comunismo,
    quando si porranno la questione, questi signori???

    1. Oswald Penguin Cobblepot

      Le questioni non si porranno mai, e per il più semplice dei motivi: i popoli da lei citati non hanno le spalle coperte da potenti lobbies e da uno stato molto forte (anche per motivi di ragionevole autodifesa, sia ben chiaro). Inoltre, per quello che concerne le popolazioni amerindie, il colpevole del loro presunto genocidio c’è già, ed è Colombo con i suoi conquistadores ed i frati, poiché è più facile insultare un esploratore di 5 secoli fa che stati ancora esistenti. Non parliamo poi dei milioni di morti in conseguenza delle politiche economiche sovietiche, oppure dei grandi balzi in avanti del maoismo: quelli non sono innocenti assassinati, ma sporchi caduti reazionari, oppure le necessarie vittime del luminoso progresso sulla strada del socialismo. Un saluto da Gotham, il Pinguino.

  4. Si parla sempre (giustamente) dei lager nazisti che sono finiti nel 1945 e durarono solo nei 12 anni del regime nazista, ma sembra dimenticato il ricordo dei gulag siberiani sovietici che sono rimasti funzionanti per tanti decenni, dal tempo della rivoluzione bolscevica fino al tempo del compagno segretario Leonid Breznev e forse anche di qualche suo “benemerito” successore tipo Andropov negli anni ’80. Tutto fu documentato da Solgenitzin nel suo libro “Arcipelago Gulag”. E’ già tanto che ora si parli dei massacri delle foibe carsiche, per troppi anni dimenticate ed oscurate dal PCI e dalla DC. Si potrebbe ricordare anche il massacro di Katyn ad opera del KGB che fu uno dei peggiori crimini di Stalin il quale rimane sempre il peggior criminale di tutta la storia dell’umanità distanziando di parecchio anche Hitler.

  5. Non Metuens Verbum

    Il giudaismo talmudico ha creato nei secoli una narrativa affabulatoria , della quale vertice e compimento è la denominata Shoà, con il fine di dichiararsi creditore nei confronti di Dio, e anzi dichiararsi esso stesso Dio al quale tutti noialtri uomini non-uomini siamo debitori. Jonas non fa che rendersene voce.

  6. Mi associo alle richieste di interrogarsi anche sugli altri genocidi, perpetrati ai danni di popolazioni o etnie o gruppi religiosi, spesso con numeri ancora più abnormi rispetto a quelli del c.d. “olocausto”. E già che ci siamo, chiediamoci a quale popolo appartenevano gli ideologi quando non gli esecutori di queste stragi. A proposito di storia condivisa, storia riscritta e storia occultata, invito tutti a leggersi il recentissimo articolo di Blondet “BIBI A VARSAVIA”, specie nella sua parte conclusiva. Illuminante.

  7. Ogni vero cattolico sa che si può e SI DEVE ancora parlare di Dio dopo Auschwitz!
    Comunque, se fosse lecita quella domanda da immanentisti, sarebbero altrettanto lecite (e forse ancora di più) le seguenti:
    Si può ancora parlare di Dio dopo la legalizzazione dell’aborto?
    Si può ancora parlare di Dio dopo la legalizzazione della contraccezione abortiva?
    Ci riflettano bene coloro che vorrebbero negare i funerali religiosi ai mafiosi e che li vorrebbero permettere ai politici abortisti!
    Ma i prelati cattolici si ricordano ancora che TUTTE le vite umane DALL’ISTANTE DEL CONCEPIMENTO hanno la medesima identica importanza e dignità e che non c’è differenza di gravità di peccato fra un’omicidio e l’altro?

  8. La sofferenza umana -insegna la religione cristiana- è conseguenza delle scelte deliberate dall’arbitrio degli uomini quando ripetono l’errore di Adamo (lo conferma il Siracide).L’errore , tl peccato, introducono j’ingiustizia nell’ordine naturale. Ma è necessario credere che nel mondo soprannaturale , in Dio che è, come San Tommaso afferma, la stessa Giustizia, saranno risanate le ferite che derivano dalla volontà del male , consolate le sofferenze

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