Siamo uomini o caporali (o quaquaraquà). Sul declino delle classi dirigenti

Nel film Siamo uomini o caporali, il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, interpreta la parte di un uomo considerato pazzo per l’avversione a una precisa categoria umana, i caporali. Il suo dialogo con il medico curante è un brano geniale, un pezzo di autentica letteratura di cui ringraziare gli sceneggiatori di quella stagione scintillante del cinema italiano. Dottore, le spiego. L’umanità io l’ho divisa in due categorie di persone: uomini e caporali. La categoria degli uomini è la maggioranza, quella dei caporali per fortuna è la minoranza. Gli uomini sono quegli esseri costretti a lavorare tutta la vita come bestie, senza vedere mai un raggio di sole, senza la minima soddisfazione, sempre nell’ombra grigia di un’esistenza grama. I caporali sono appunto coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando, spesso senza avere l’autorità, l’abilità o l’intelligenza, ma con la sola bravura delle loro facce toste, della loro prepotenza, pronti a vessare il povero uomo qualunque. Dunque, dottore, ha capito? Caporali si nasce, non si diventa: a qualunque ceto essi appartengano, di qualunque nazione essi siano, ci faccia caso: hanno tutti la stessa faccia, le stesse espressioni, gli stessi modi, pensano tutti alla stessa maniera”.

Chi scrive teme, ahimè, che la categoria dei caporali sia almeno altrettanto numerosa di quella degli uomini. Ne era convinto Leonardo Sciascia, lo scrittore siciliano che ne Il giorno della civetta (1961), romanzo diventato un film di successo di Damiano Damiani, fa dire allo scettico padrino don Mariano Arena nel dialogo con il coraggioso capitano Bellodi: “Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezzi uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) piglianculo e i quaquaraquà. Pochissimi gli uomini, i mezz’uomini pochi, che mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezzi uomini… E invece no, scende ancor giù, agli ominicchi, che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi… E ancora giù: i piglianculo che stanno diventando un esercito. E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre”.

Reminiscenze riaffiorate dinanzi al tormentone mediatico legato al potente ex capo dell’Associazione Magistrati Luca Palamara, gran tessitore di carriere, nomine, intrighi politici all’ombra del potere giudiziario, caduto in disgrazia a seguito della pubblicazione di intercettazioni captate attraverso un “trojan”, il programma cavallo di Troia posto nel suo telefono da suoi colleghi. Spionaggio, pura delazione, benché obliqua, autorizzata da leggi sconcertanti.

Nella fattispecie, è la dantesca legge del contrappasso, o, più volgarmente, il vecchio “chi la fa, l’aspetti”. Le conversazioni di Palamara – disgustose nel merito, nel tono e nel linguaggio – hanno scoperchiato un pentolone velenoso che travolge quel che resta del prestigio dell’ordine giudiziario italiano. Recentissimo è il caso delle affermazioni catturate di un magistrato di Cassazione, secondo cui la sentenza di condanna contro Silvio Berlusconi per frode fiscale – evento che ha cambiato la storia politica nazionale – era stata concordata prima del dibattimento.

Ma il nostro scopo non è ragionare sul potere immenso della magistratura italiana o prendere posizione contro o a favore di qualcuno. La questione dirimente è un’altra: il declino, la decadenza irreversibile delle classi dirigenti, specchio del degrado della nazione. È evidente che il comportamento di chi esercita funzioni di responsabilità è il ritratto fedele del Paese, nonché il modello a cui – più o meno consciamente – si attiene la maggioranza. Il pesce puzza dalla testa. Non vi può essere un clima di onestà, senso civico e integrità morale se gli esempi dall’alto sono quelli che osserviamo. È responsabilità di ciascuno, anche mia e vostra, se i caporali hanno avuto partita vinta, se i quaquaraquà – gente senza alcun principio, pronta alla delazione e al tradimento, spesso per meno dei trenta denari di Giuda – si sono impadroniti di tutti i gangli della società, lestamente imitati dal popolo sottostante. Nulla di nuovo: l’uomo è fatto di legno storto, per questo la morale, la religione, la filosofia hanno cercato di rimediare proponendo principi e diffondendo valori etici.

Ugo Foscolo, nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, fa dire al suo protagonista, “in tutti i paesi ho veduto gli uomini sempre di tre sorta: i pochi che comandano, l’universalità che serve e i molti che brigano”. Per Alexis Tocqueville, aristocratico di nascita e intelletto, la vera causa che conduce alla rovina nelle varie epoche le classi di potere è l’indegnità a esercitare il comando, ossia l’infimo livello personale, culturale e morale. I molti che brigano di Jacopo Ortis sono diventati il gruppo sociale più corrotto, sporco e amorale della nostra morente società, di cui sono ormai i becchini. La nostra è la fase terminale, convulsa, agonica, di una grande civiltà giunta al capolinea: le sue classi dirigenti non potrebbero essere diverse, né si può pretendere che il popolo – noi – non sia lo specchio, la scimmia che ne riproduce i difetti.

La differenza rispetto al passato è l’estensione dei fenomeni degenerativi e l’infima qualità delle varie caste che esercitano il potere, economico, amministrativo, culturale, educativo, politico. Possiamo dissentire dall’ideologia di Aldo Moro, Amintore Fanfani o Enrico Berlinguer, ma il loro livello era infinitamente più alto dell’attuale classe politica. Analogo discorso per i potenti dell’economia: personalità forti come Giovanni Agnelli, Enrico Cuccia, il vecchio Angelo Costa, capo di Confindustria per decenni, hanno lasciato il posto a gente che, avrebbe detto Giosuè Carducci, tira quattro paghe per il lesso. Un lesso, invero, con ampio comfort e svariati privilegi.

Brigare: sembra questo il verbo più amato dalle varie caste dirigenti. Questa è la verità amara, o, se perdonate il pessimo gioco di parole, pal…amara. Intendiamoci: il magistrato romano non è il peggiore. È soltanto uno che è incappato nella tela di ragno che aveva contribuito a creare. Chi lo giudicherà, all’interno della medesima corporazione, non è migliore. Sgomenta che l’esercizio del potere non abbia più alcun rapporto con la responsabilità. Noblesse oblige, recitava l’adagio francese, la nobiltà obbliga. Così dovrebbe essere per le funzioni direttive, che richiedono, oltre alla competenza, doti di equilibrio e l’esercizio quotidiano della responsabilità. Tocca dare ragione al mafioso don Mariano Arena di Sciascia: oltre gli ominicchi, tra le sedicenti classi dirigenti pullulano le mezze figure interessate solo ai privilegi della carica, ma inadeguati, abili solo nel coltivare relazioni di potere e soprattutto nell’ignobile arte dello scaricabarile.

Esiste una prova sicura per individuare gli indegni: sono coloro per i quali è sempre colpa di qualcun altro, tranne, ovviamente, se qualcosa va per il meglio, nel qual caso il merito è prontamente rivendicato a sé. A questo pensavamo ascoltando una delle interviste di Palamara, divenuto un protagonista del sistema informativo. Nel ricostruire il suo ruolo di gran tessitore di relazioni, garante di carriere, avanzamenti e guerre interne, ha incolpato un atto di governo che stabilì un termine alle funzioni direttive dei magistrati. Ecco il male, la carica a tempo determinato! Di lì le rimostranze della categoria, bisognosa di protezione per non perdere la cadrega faticosamente conquistata. Poveri cocchi, tanta fatica per sedersi sulla poltrona ambita e poi, d’un tratto, dopo un tot di anni, che brutto doverla abbandonare. Meglio la monarchia: il trono è a vita!

Ecco perché le manovre di Palamara diventavano una sorta di servizio sociale reso all’ego ipertrofico dei suoi colleghi e, più prosaicamente, alle loro natiche bisognose di una comoda poltrona su cui accomodarsi per esercitare non una delicata, cruciale funzione pubblica, ma un potere. Talvolta, osiamo pensare, sdebitandosi con i benefattori, altre, chissà, guardando con maggiore o minore favore questo e quell’imputato o procedimento. Tutta colpa della dannata rotazione degli incarichi, come si dice in burocratese. Ne sappiamo qualcosa, per essere vissuti in un’agenzia ministeriale per quarant’anni.

Strano davvero: da un lato si raccontano favole sul merito da premiare, gli obiettivi da conseguire, la necessità che gli incarichi siano a tempo. In realtà si agisce in senso contrario. Non c’è ambiente direttivo – immaginiamo anche nel settore privato – in cui non siano costituiti gruppi di pressione, cordate, non vogliamo dire bande, ma è quel che pensiamo, tese esclusivamente a promuovere le carriere dei componenti. Le armi usate? La politica, i sindacati, l’appartenenza, la fedeltà ai capi, e con sempre maggiore frequenza, la guerra intestina, la maldicenza verso gli altri, i nemici interni, specialmente i non allineati, i cani sciolti non sostenuti da gruppi o amicizie. Analoghi maneggi potranno essere raccontati da chiunque abbia vissuto da spettatore o da vittima in un gruppo “dirigente”. Non ci si può stupire: la nostra è una società fortemente competitiva, a ogni livello siamo messi gli uni contro gli altri. La regola vale per tutti, ma diventa imperativo categorico per chi aspira a posizioni di potere, per chi le ha conseguite e le vuole mantenere a ogni costo; anche – è la cosa più triste – per chi non è d’accordo, ma è costretto a difendersi dalle manovre altrui.

Il sistema è disfunzionale: premia i peggiori, scoraggia gli onesti, respinge i meritevoli. I gruppi dirigenti lavorano a promuovere se stessi, mantenere il potere o riconquistarlo con ben maggiore lena, spreco di tempo ed energie che per svolgere le proprie funzioni. Il caso Palamara ne è l’esempio lampante. Una conseguenza è la disumanizzazione dei rapporti, ridotti sempre più alla dimensione strumentale, il mancato rispetto per gli altri, la volontà di avere tutto e subito. Pensiamo ai manager d’azienda, impegnati a realizzare profitti immediati per soddisfare la fame degli azionisti e intascare stipendi e premi esorbitanti, senza progetti di lungo termine, privi di visione generale, interessati solo alla più vicina trimestrale di cassa, ai listini di borsa odierni

Abbondano misteriose figure professionali, spesso millantatori o autentici mascalzoni, faccendieri, mediatori, “facilitatori” d’affari di ogni genere: la parodia di una classe dirigente. In genere, la gente comune si ritiene migliore dei suoi capi: non è così. In assenza di pregi, imitiamo i difetti. Come loro, attribuiamo la responsabilità delle sconfitte a qualcun altro, come loro pratichiamo quando capita il malaffare e l’illegalità. La giustifichiamo perché siamo noi a commetterla, e, perbacco, abbiamo “le nostre buone ragioni”. Lo pensa indubbiamente anche Luca Palamara, che non è affatto il simbolo del peccato, ma solo un protagonista della banalità del male di cui parlava Hannah Arendt, uno strumento, un impiegato di concetto, astuto e bene introdotto, di un sistema generale marcio a ogni livello. Ripetiamo: non crediamo affatto che coloro che lo condanneranno – l’esito è inevitabile, già scritto come capita sempre alle decisioni “esemplari”, prese per lavarsi la coscienza – siano migliori dei capri espiatori.

Un’astuzia formidabile del potere vero – quello che si mostra poco e comanda molto – è alimentare il disprezzo popolare verso pezzi di classi dirigenti per sviare l’attenzione dai veri problemi: armi di distrazione di massa come l’indignazione a comando nei confronti della casta politica. Pessima gente, qualità imbarazzante, è vero, ma in fin dei conti si tratta del livello più basso della classe dirigente. Nascono così le campagne contro i vitalizi. Privilegi, certo, ma dal costo totale assai inferiore ai mille affaracci in cui il livello politico svolge semplicemente il lavoro sporco dell’economia e della finanza. Trovato il colpevole, la folla persuasa che “uno vale uno” è placata e la giostra continua.

Certo, raramente si era vista una quantità tanto ingente di nullità al governo, riconoscibili alcune già dall’aspetto fisico – il linguaggio non verbale del corpo – ma siamo convinti che le vere oligarchie scelgano accuratamente classi dirigenti – politiche, burocratiche e in una certa misura anche economiche – di basso livello, più facili da condizionare, ricattare e sostituire. Basta seguire il nuovo manuale Cencelli: un tanto di quote rosa, la giovinezza, anzi l’inesperienza come criterio privilegiato; l’immagine, il look e la capacità di bucare lo schermo, ovvero fingere, raccontare panzane con successo, diventano requisiti essenziali. Non è difficile, in quelle condizioni, che la decadenza generale di una civiltà sia testimoniata dal livello dei suoi dirigenti. Perfino il curriculum vitae risponde a regole grottesche: si scrivono manuali per compilarlo al meglio, cioè per confezionare prodigi d’immagine sul nulla e, attenzione, va presentato nel “formato europeo disponibile online”. Puoi essere Einstein, ma le forche caudine delle corporazioni, dei gruppi di pressione, della genuflessione a chi è già potente, ti escluderanno senza remissione.

Avanzeranno, dovunque, i Palamara della situazione. Figlio di un magistrato, conosce il sistema fin dall’infanzia. Ha costruito la sua immagine e il suo futuro su di esso, praticandolo dall’interno. Ha vinto il magico concorso – per carità di patria tacciamo sul sistema dei concorsi e sui metodi di selezione dei dirigenti – e da allora si è dedicato a edificare un sistema di potere, entrando nelle correnti “giuste” della magistratura, vicine alla politica che conta, quella che sta sempre al potere o nelle sue vicinanze, ha stretto amicizie altrettanto “giuste “, sinonimo di potenti, influenti. Il resto è venuto da solo. Peccato per il trappolone in cui è finito, ma l’Italia intera, in tutte le stanze di potere, è piena di Luca Palamara, ma è addirittura affollata di ipocriti pronti a abbandonare al loro destino chi li ha beneficati ed è finito nella polvere, tutti già impegnati nella lotta per prenderne il posto.

Arlecchino, servitore infingardo di due padroni, non è per caso la maschera italiana più rappresentativa, insieme a Pulcinella, opportunista, chiacchierone, bastonatore bastonato. Nord e Sud uniti nella mediocrità e nel culto del “particulare”. Chissà perché ci viene l’uzzolo di paragonarli al povero Palamara, bastonato dopo anni di vacche grasse da personaggi non migliore di lui. Una nazione di antica vocazione servile, del resto, non può avere una classe dirigente di alto profilo, se non in rari intervalli di consapevolezza civile. Oggi, tutti insieme, i membri delle consorterie di potere ci imbrogliano con un patriottismo falso come l’oro di Bologna e con l’ipocrita appello affinché in tempi difficili il popolo mostri disciplina, una virtù della quale essi non hanno mai dato prova.

Triste è concludere con una frase del drammaturgo Jacinto Benavente Martìnez ne Gli interessi creati, affresco su vizi e virtù degli esseri umani, fantocci che si muovono per il mondo guidati dai fili dell’interesse: “la disciplina consiste in un imbecille che si fa obbedire da altri più intelligenti di lui”. Meno intriganti, meno avidi e meno attaccati al potere. Purtroppo.

1 commento su “Siamo uomini o caporali (o quaquaraquà). Sul declino delle classi dirigenti”

  1. Splendida analisi di una società neanche più liquida, bensì allo stato gassoso, disordinato, senza radici che diano fermezza, solidità.

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