SPECIALE GUARESCHI L’eroe della macchina da scrivere – di Cristina Siccardi

Nel 2018 ricorrono il centodecimo anniversario della nascita e il cinquantesimo della morte di Giovannino Guareschi (Primo maggio 1908 – 22 luglio 1968). Riscossa Cristiana gli dedica queste due giornate nella certezza un cristiano della sua razza abbia ancora tanto da dire alle persone di buona volontà in tempi così difficili.

 

Era verso la fine degli Anni Ottanta quando conobbi Carlotta e Alberto Guareschi, ovvero la Pasionaria e Albertino, secondo il vezzo letterario del loro grande e umile papà. Erano giunti a Torino per inaugurare la mostra itinerante «Tutto il mondo di Guareschi», una delle prime delle 135 tappe finora realizzate di questa iniziativa organizzata e allestita dall’Associazione Club dei Ventitré, con sede a Roncole Verdi (PR), un Centro studi fondato per volontà dei figli di Giovannino Guareschi nel 1987.

All’epoca mi dividevo fra gli studi universitari e il lavoro nella redazione del settimanale nazionale cattolico «il nostro tempo», diretto all’epoca da Domenico Agasso senior, grande estimatore di Guareschi e che conosceva le mie passioni e le mie simpatie, perciò mi inviò a quella mostra. Ne ero felice. Ma la mia felicità accrebbe quando conobbi personalmente Albertino e la Pasionaria. Nacque così, nel corso del tempo, una stima reciproca. Attraverso di loro compresi al meglio il clima familiare in cui erano cresciuti grazie alla presenza dell’eroe, perché tale fu, della macchina da scrivere e della loro mamma Margherita, mamma per davvero.

Giovannino Guareschi ha accompagnato molti miei giorni non solo grazie ai film che poi avrei rivisto da sposata con mio marito Carlo, anche lui da sempre amante di Guareschi, e dai nostri figli Stefano ed Elena, innamorati di Don Camillo e Peppone, ma anche grazie ai libri che Carlotta e Alberto non mancavano mai, anno dopo anno, da quando ci eravamo conosciuti, di regalarmi con un immancabile cartoncino che recava amabili messaggi e dove era stampata l’immagine di loro bambini nelle piccole e divertenti caricature eseguite da loro padre. Così, per una sorta di magia guareschiana, si è formata una biblioteca che ha un valore immenso sia per l’affetto ad essa legato, sia per il contenuto di quei volumi. Un contenuto che è cresciuto ancor più di preziosità: se al loro nascere erano sacchi di pepite d’oro, oggi sono sacchi di lingotti d’oro. Questi libri raccontano come uno scrittore, un giornalista, un umorista e caricaturista Monarchico e Cattolico, sia riuscito, nonostante l’invasione totalizzante della cultura progressista, sessantottina e modernista, non solo a stare in piedi, ma a divenire – nonostante i tanti nemici, i non critici letterari, i non amici da salotto, le non amicizie politiche, il campo di concentramento e la galera – uno degli scrittori italiani più tradotti e più venduti nel mondo, con oltre 20 milioni di copie. Il suo dire la verità politica, sociale e religiosa con l’allettante e avvincente tecnica dell’ironia e con l’abilità letteraria di un genere divenuto tutto suo, ha reso la sua battaglia apprezzabile ovunque. Ed è diventato, senza rendersene neppure conto, benefattore dell’umanità. «Io vivo isolato come un vecchio merlo impaniato sulla cima di un pioppo. Fischio, ma come faccio a sapere se quelli che stanno giù mi sentono fischiare o se mi scambiano per un cornacchione?»[1].

Ma questi libri illustrano altresì come l’Autore sia riuscito a comprendere, leggendo negli avvenimenti di 50, 60, 70 anni fa, ciò che le rivoluzioni repubblicane, comunista e liberista, nonché modernista, in seno alla Chiesa, avrebbero prodotto. E non perché fu “profeta”, parola assai inflazionata, ma perché non si ubriacò di menzogne e non si intossicò, rimase lucido e con gli occhi ben aperti. E così che nelle sue pagine troviamo filosofia, saggezza, fede, ragionevolezza e realismo di cui abbiamo necessità come l’aria che respiriamo e dell’acqua che beviamo.

Fra tutte le migliaia e migliaia di pagine che ha lasciato c’è n’è una che desidero qui riportare, tratta dal tomo La famiglia Guareschi. Racconti di una famiglia qualunque 1953-1968 a cura di Alberto e Carlotta Guareschi (prefazione di Giovanni Lugaresi, Rizzoli, Milano 2011, pp. 1303-1307) e che venne presentata per la prima volta da Mario Palmaro il 15 giugno 1997 su «Avvenire». Si tratta di una puntata, rimasta per anni inedita, del «Corrierino Radio-Tv». Nel 1967 Guareschi inviò, infatti, questo racconto al settimanale «Oggi», ma non fu pubblicato dal Direttore Vittorio Buttafava per non urtare la categoria dei magistrati. Sapete di che cosa si parlava? Dell’omicidio di un bimbo mai nato.

Ricordiamo che la stragista legge 194 arriverà 11 anni dopo, il 22 maggio 1978. Il titolo del racconto è L’embrione. Protagonista, quindi, è il figlio di una donna incinta e adultera, uccisa dal marito. L’assassinio è considerato dalla magistratura un delitto d’onore e in quanto tale, secondo la legge del tempo, il responsabile viene scarcerato. Nei giorni del processo un vecchio giudice si sente tirare la toga e «chinatosi, vide che si trattava d’un bambino piccolo piccolo, che pareva fatto d’aria. “Che cerchi?” domandò burbero l’uomo togato. “Cerco giustizia” rispose il piccolino. “E vieni a cercare giustizia proprio qui?”, ridacchiò l’uomo. “Tu devi davvero essere piovuto giù da un altro mondo”. “Effettivamente sì” rispose il piccolino. “Io sono il figlio dell’Esterina. Ammazzando mia madre, mio padre ha ammazzato anche me. E di questo si doveva pure tener conto!”. “No ragazzino. Non si può uccidere chi non è nato. Se un individuo non è nato, legalmente non esiste. Il Codice parla chiaro: ‘La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita. I diritti che la legge riconosce a favore del concepito, sono subordinati all’evento della nascita’.” Il piccolino che, mentre aspettava s’era sfogliato i Codici, replicò: “E allora come mai è stabilito che chi interrompe la maternità di una donna senza il consenso di lei è punibile con la reclusione da sette a dodici anni? Mia madre non aveva davvero acconsentito che lui ammazzasse anche me!”. “Non facciamo confusione, ragazzino” disse l’uomo togato. “Prima di tutto, qualora la maternità venga interrotta per ‘motivi d’onore’, si può ottenere lo sconto anche del cinquanta per cento. Secondariamente, l’art. 554 non è qui applicabile perché l’azione di Nazzareno non aveva lo scopo di interrompere la gravidanza di tua madre, bensì quello di uccidere tua madre. Se Nazzareno voleva semplicemente interrompere la gravidanza di tua madre, non occorreva davvero che ammazzasse anche il suo amante. Il fatto che abbia ucciso anche l’amante della moglie, dimostra le intenzioni perfettamente legali della sua azione”. “D’accordo”, esclamò il piccolino. “Ma siccome, ammazzando mia madre ha ammazzato anche me, praticamente si tratta di un crimine contro la maternità!”. “No, ragazzino. Prima di tutto, quando si agisce per ‘motivi d’onore’, le pratiche cosiddette ‘illecite’ non sono da considerare contro la maternità. Esempio: secondo un marito, il figlio che la moglie sta per dargli è il prodotto di una relazione extraconiugale: se il marito interrompe la gravidanza della moglie non si tratta di pratiche contro la maternità, ma contro la paternità. Egli non agisce contro il figlio della moglie ma contro il figlio dell’amante della moglie. Secondariamente tu non hai nessun diritto da accampare perché non sei una persona fisica. Tant’è vero che non sei nato!”. “Però sono morto!”. “E come può morire chi non è nato? D’altra parte, se non volevi grane, dovevi sceglierti una madre più onesta!”. “O magari un padre meno cornuto!” replicò il piccolino perdendo la calma. Il vecchio togato s’indignò: “Screanzato! Come osi offendere un uomo che, per tutelare il suo onore, non ha esitato a ammazzare la moglie e l’amante di lei? Nessuno ha più diritto di chiamare il buon Nazzareno con quel termine dispregiativo. Perché Nazzareno è apposto con la coscienza e con la legge. Gli articoli 551, 578, 587 eccetera del codice penale sono stati creati per consentire a tutti i galantuomini, offesi nell’onore, di ammazzare la moglie infedele!”. […] Credi non c’è niente da fare: dura lex sed lex. Oltre al resto io non capisco come tu ce l’abbia tanto con quel bravo giovanotto di tuo padre. Alla fine, che t’ha fatto di male?”. Il piccolino spalancò le braccine: “Visto in che razza di mondo avrei dovuto vivere” borbottò “direi che mi ha reso un buon servizio”. Poi s’infilò in una fessura del pavimento e scomparve. Il vecchio scosse il capo: “Che gioventù” gridò indignato. “Non sono ancora nati e già accampano dei diritti! E si erigono a giudici del padre!…”».

Siamo di fronte ad un capolavoro di verità, di semplicità e di cognizione di ciò che è giusto e di ciò che è ingiusto. Perché la verità è semplice, in quanto è la coscienza profondamente cattolica, come quella di chi ha vergato questo racconto, basata sulla Verità rivelata da Nostro Signore Gesù, che rende semplice la visione della realtà, naturale e soprannaturale. Sono gli orgogliosi, coloro che vogliono fare a meno di Dio, a elucubrare tesi, utopie e norme per complicare la vita, quella propria e quella degli altri.

Sì, Guareschi parla all’uomo moderno, al cattolico “adulto”, alle donne con la cravatta o le minigonne, ai bimbi mai nati e ai bimbi costretti a vivere in famiglie (genitori “aperti” oppure omosessuali) non famiglie, ai sacerdoti che non conoscono più la loro identità, ai Papi che hanno scelto lo spirito del mondo, ai politici “democratici”. Leggere le sue opere è un tuffo non certo nella nostalgia, ma nella reviviscenza. Hanno capovolto la società cristiana e ne hanno fatto un campo di sterminio morale (corruzione) e fisico (aborti ed eutanasia) e Guareschi, con la sua sagacia e la sua lungimiranza, aveva già svelato tutti i trucchi degli ingannatori.

Alessandro Gnocchi, che conosce Guareschi come le sue tasche, ha introdotto e commentato ultimamente alcuni articoli pubblicati sul «Borghese» fra il 1963 e il 1968, è venuto fuori un avvincente dialogo fra un avo e i suoi posteri, traslato in un bellissimo libro dal titolo Lettere ai posteri di Giovannino Guareschi (Marsilio). Ciò che sconcerta, in questo testo, è una cosa assai palese agli assennati: perché lui – e pochi altri – vedeva la realtà quale era, mentre tutt’intorno erano accecati? È un mistero, un mistero che forse scopriremo soltanto nell’aldilà. D’altra parte Gesù stesso lo chiese agli stessi discepoli: «Non intendete e non capite ancora? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite?» (Mc 8, 17-18). È sempre la stessa storia… e nell’età in cui si dice di non toccare Caino, Abele continua a morire. Il nome di Abele, in questi giorni, nel mondo, è quello di Alfie Evans.

«Sei quello della pietra e della fionda, / uomo del mio tempo. […] T’ho visto: eri tu, / con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, / senza amore, senza Cristo. […] E questo sangue odora come nel giorno / quando il fratello disse all’altro fratello: “Andiamo ai campi”. […] gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.». Una gran verità, benché l’abbia scritta un poeta amico di Peppone.

[1] A. Gnocchi, Lettere ai posteri di Giovannino Guareschi, Marsilio, Venezia 2018, p. 19.

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