Storia di una nazione – racconto di Alfonso Indelicato (prima parte)

Storia di una nazione – prima parte

un racconto di Alfonso Indelicato

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zzzzcttrttC’era, anzi ci fu una volta, tanto tempo fa, una nazione.

Essa aveva vissuto nella sua lunga storia alterne vicende: periodi di grande splendore ed altri di grave crisi. Ma non era mai venuta meno, nella maggioranza del suo popolo, la virtù che consisteva in una saggia bonomia, in una spontanea riluttanza per tutti gli eccessi, in poche parole in una profonda umanità.

Taluni ritenevano che questa particolare virtù fosse dovuta alla  sua lunghissima storia con il succedersi di luminose civiltà, ognuna delle quali aveva lasciato un retaggio di sapienza e bellezza. Altri ritenevano piuttosto che la causa fosse da indicarsi nella soave religione la quale, diffusa da duemila anni presso di essa, aveva ingentilito gli animi e temprato i costumi.

Come che sia, il popolo di quella nazione viveva più serenamente di quanto vivessero gli altri popoli, anche quelli più ricchi e che per varie discutibili ragioni godevano di un maggior credito al cospetto del mondo.  Affrontava la vita con un misto di allegria e disincanto, fantasia e buon senso, fatalismo e determinazione. E i giorni, i mesi, gli anni scorrevano lievi.

A un certo punto di quella storia una guerra combattuta valorosamente contro forze soverchianti, avvelenata dal tradimento e infine perduta, moltitudini di prigionieri costretti a spaventosi esìli e città semidistrutte dalle bombe, infine lembi di terra sacra strappati da un nemico ottuso e feroce, interruppero quel dolce e  raccolto vivere.

Ma non valsero a fiaccare a lungo quel popolo umilmente fiero. Esso ritrovò se stesso e le fonti del suo esistere in una rinascita che sbalordì il mondo. Come in una nuova alba di vita, le città distrutte rifiorirono, gli opifici rinacquero, il nome di quella nazione fu ancora grande.

***

Perché ciò che ne costituiva il cuore pulsante era la famiglia:  le mura delle case e i ponti e gli opifici erano stati distrutti dalla guerra, ma non la famiglia.

La famiglia che educa, protegge, rincuora, assiste nel bisogno, se del caso rimprovera e corregge. Padre e madre uniti in profonda intesa, anche nei miti reciproci rimbrotti. Figli che continuavano a nascere numerosi.

Quella famiglia aveva, col suo ricordo, ristorato i cuori dei combattenti sui troppo numerosi fronti di guerra, e li aveva accolti feriti nel corpo o nell’animo al ritorno dalla battaglia o dalla prigionia.

E ora essa spronava al duro lavoro, confortava nelle difficoltà, accoglieva nelle ore del riposo.

***

Non è facile – parlando in generale – cogliere l’attimo del cambiamento, il lieve incresparsi sulla superficie limpida delle acque che prelude all’onda tumultuosa e poi alla tempesta.

Per quanto riguarda la nostra questione, poi, cominciò tutto in modo assai singolare.

Su alcune riviste dedicate al pubblico femminile comparvero (nello stesso torno di tempo, come se vi fossero stati in proposito delle intese) rubriche dedicate ai rapporti fra uomini e donne. Vi si dava grande importanza alla sessualità, rivendicando alle donne il diritto di viverla in modo attivo e originale.

Nello stesso tempo, e sugli stessi fogli, il maschio della specie umana, non considerato nella sua essenza o nella sua generalità, ma in specifico nella versione occidentale, cominciò ad essere denigrato e quasi sfigurato. Vi si scriveva delle sue pretese di dominio nei confronti della donna, della sua stessa sessualità nel contempo monocorde e proterva, insomma della sua sostanza umana insulsa ma arrogante.

Goccia dopo goccia, questi concetti cagliavano nelle menti  delle sensibili lettrici, le quali appartenevano quasi tutte a un ambiente sociale eminente o quanto meno sufficientemente agiato e pertanto disponevano di tempo e comodità per le loro riflessioni solitarie o comuni. Le mogli cominciarono a guardare i loro mariti con altri occhi, così le fidanzate i futuri sposi. Si formavano nelle menti eccitate oscure riserve. A loro volta molti uomini cominciavano a provare un’intima inquietudine, un sentimento di inadeguatezza e insufficienza.

Ad un gradino superiore di riflessione, il gradino della cultura universitaria e della saggistica antropologica, le stesse cose invero erano state già dette da qualche tempo, e per la prima volta nei pensatoi universitari d’oltre oceano, là dove fermentava tutto ciò che era destinato a cambiare il mondo, o almeno una parte di esso. Ma ora venivano divulgate presso un pubblico più ampio, certo con qualche semplificazione ma con un’efficacia dirompente.

E alta cultura e divulgazione si trovarono d’accordo, e ora agivano insieme, come due ferrate ganasce della stessa tenaglia.

Sorsero allora nella società dei movimenti di opinione e di lotta. In particolare un piccolo partito, che fino a quel momento aveva avuto un ruolo del tutto marginale nella vita della nazione, improvvisamente salì agli onori delle cronache. Si trattava di poco più di una pattuglia di personaggi finora ignoti, ai quali dall’oggi al domani, ancora una volta come per un comune disegno, altre e ben più cospicue formazioni politiche riconobbero il ruolo di punta di lancia nella lotta per quelli che chiamavano diritti civili.

L’uno e gli altri, in ogni modo, riprendevano le idee di indipendenza e liberazione dei sacri tomi e delle pagine patinate, ma urlandoli nelle piazze e per le strade delle città. Per la prima volta nella storia di quella nazione, uno dei due sessi si levava contro l’altro e rivendicava di poter vivere senza l’altro, in una completa e totale e assoluta autonomia.

Il mondo delle istituzioni politiche non poteva rimanere insensibile a tutti questi fermenti.

***

zzzzfmglntcLe leggi civili che vigevano da tempo immemore in quella nazione, pur modificandosi secondo le diverse temperie storiche, avevano sempre riconosciuto all’interno della famiglia un principio di autorità. L’esercizio di questo principio era affidata al padre.

Tale principio era nei fatti temperato dall’amore, dall’affetto, dalla consuetudine, dalla convenienza di non inasprirsi vicendevolmente, da ultimo dalla volontà di rimanere insieme per amore dei figli e dal timore della riprovazione sociale, e funzionava come un ultimo appello, cui peraltro il marito raramente ricorreva. In ogni modo la sposa sapeva dell’esistere di quel principio, e ciò la consigliava a non incattivirsi contro il suo sposo  oltre un certo segno.

Ma ciò che era sempre apparso come un istituto di saggezza, sembrò all’improvviso odioso e vetusto.

Il nuovo diritto di famiglia, approvato infine dal parlamento a larga maggioranza, stabilì che fra marito e moglie vi fosse una perfetta parità di prerogative  quanto alla scelta della dimora, alla gestione economica della famiglia, all’educazione della prole e ad ogni altra opera comune.   Ma questa si rivelò presto una parità fittizia.

In nessuna società naturale infatti, animale o umana, sussiste una simile perfetta parità: essa sarebbe fonte di contrapposizione e disquilibrio, come una bilancia i cui piatti, sospesi nell’aria e non gravati da alcun carico, oscillano a ogni soffio di vento. L’autorità riconosciuta come tale, al di là delle qualità e dei difetti di chi la incarna, è  fattore di stabilità e infonde sicurezza a quanti si raccolgono attorno ad essa. E quando i difetti di chi la esercita sono in eccesso, non ci si sogna per questo di contestarla: si aspettano tempi migliori, confidando nella santa pazienza. Così era sempre stato. Così più non fu.

Inoltre, tutto quel movimento di cultura e di divulgazione e di piazza che  operava il cambiamento raggiunse allora punte di virulenza non ancora sperimentate. Chi aveva in animo di resistere ad esso ne rimase sconcertato o annichilito.

Di lì a pochi mesi fu introdotto il divorzio.

***

Quanti si aspettavano una ferma reazione da parte dei ministri del culto in difesa dei sacri principi ebbero presto modo di disingannarsi. Dai pulpiti si modulavano voci flebili e intimidite, levate come per onor di firma.

E questi furono in realtà gli esempi di maggior fermezza. Altri infatti, semplici sacerdoti e presuli, accondiscesero alla nuova legge in nome della libertà di coscienza, la quale sembrò allora diventare un nuovo e più imperativo precetto in aggiunta a quelli che già vigevano consacrati dalla tradizione e raccomandati nei luoghi sacri al popolo di Dio.

Fu da questo punto della sua storia che, nel corso di pochi anni, la nazione vide corrompersi e franare dentro di sé quell’antico cuore pulsante.

La famiglia cedeva. Era stata una rocca difesa con tutte le armi. Quelle della santa religione e della morale. Quelle meno nobili ma non meno efficaci della consuetudine e del pubblico decoro. Perfino quelle dell’ipocrisia e del peccato, in nome del ragionevole , in questo caso, male minore. Ma ora una nuova morale insegnava che, quando la famiglia diventava un intralcio al libero dispiegarsi del singolo individuo (alla sua crescita, come si era preso a dire), o quando quest’ultimo vedeva logorarsi il legame  col proprio coniuge (quello che le patinate riviste chiamavano ora partner) non era colpa liberarsi dell’ostacolo, ma lo sarebbe stato, piuttosto, il perseverare in un rapporto conformistico e insincero.

Così in nome della sincerità famiglie si frantumavano e altre unioni si formavano mischiando frantumi a frantumi.

***

In quelle di esse che resistevano, si accendevano dispute fra genitori e figli, spesso insanabili. Erano genitori e figli, sangue dello stesso sangue, ma all’improvviso guardandosi negli occhi appartenevano come a due ere diverse. I padri avevano combattuto in guerra o comunque della guerra avevano sofferto i rigori,  avevano creduto in un’etica di sacrificio onorabilità dirittura; i figli erano nati e vissuti nella dovizia guadagnata per loro dai padri, impegnati in altra guerra dopo quella vissuta nelle steppe, nei deserti e sugli acrocori fangosi.

Così in nome dell’emancipazione atomi umani, espulsi dalla loro piccola società familiare, si ritrovavano spesso in condizioni di indigenza e bisognosi di sostegno.

I figli dimoravano di solito con le madri, a queste affidati da una giurisprudenza favorevole più che dalla lettera delle leggi. E si avvezzarono a vedere il nuovo amore della madre condividere con lei il talamo dove erano stati concepiti, coricandosi sulla sponda là dove il loro padre usava coricarsi. E vedevano il padre, quando potevano frequentarlo, assumere parvenze ed atti giovanili per sembrare conforme alla sua nuova compagna e così poterle piacere. E i padri dopo alcuni anni non riconoscevano più i loro figli e arrivavano perfino ad odiarli, poiché non avevano partecipato alla loro educazione e più non li sentivano propri, ma di altri. E si può credere che a loro volta i figli non erano lieti della morte della loro famiglia, e non ne ricavavano motivi di intimo equilibrio.

Anche  le spose che in forza di qualche lontano retaggio erano incapaci di abbandonare il marito, smarrirono comunque verso costui la creanza e il rispetto. A lui toglievano la parola in pubblico, e pubblicamente lo dileggiavano. I  mariti si ridussero così fra le pareti domestiche a figure umbratili e fioche, e sospettosi interrogavano le mogli con lo sguardo quando stavano per proferire una parola che credevano potesse ad esse spiacere, affrettandosi a un loro cenno a dichiarare che no, non si erano ben spiegati, o avevano già mutato intendimento. E capitava che le mogli recuperassero il rispetto e l’amore dovuti d’un tratto, di fronte al feretro dello sposo appena defunto: allora piangevano strepitosamente intuendo quale abisso sarebbe stata la loro vita d’ora innanzi, e improvvisamente invocavano colui che per anni avevano umiliato e insolentito. Ma la vicenda umana insieme era ormai consumata: non ci sarebbe stato per loro un secondo tempo, né in questa vita, né nell’altra.

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(fine della prima parte. Per leggere la seconda parte, clicca qui)

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