SULL’IDEA DI PROGRESSO – di P.Giovanni Cavalcoli,OP

di  P.Giovanni Cavalcoli,OP

 

 

L’attuale discussione circa il motto del Papa “progresso nella continuità” ci invita, mi sembra, a chiarire il concetto di “progresso”, oggi molto usato, ma inteso in maniere differenti, tali da ingenerare equivoci, che vorrei provare a dissipare.

Penso che tutti noi, anche i più accaniti conservatori o tradizionalisti, vediamo con favore, in generale, il fatto del progresso. Tutti siamo contenti del progresso negli studi o nei guadagni, di un progresso nella guarigione da una malattia, o di un progresso tecnologico. Le cose invece si fanno difficili e confuse quando entriamo nel campo dello spirito e ci chiediamo per esempio cosa si deve intendere per progresso del pensiero, progresso storico, culturale, scientifico, morale o spirituale. E in particolare – ed è qui che vorrei puntare lo sguardo, trattandosi dell’interpretazione del Concilio Vaticano II – quando ci chiediamo che cosa è il progresso dogmatico e se nella fattispecie c’è in gioco questo tipo di progresso.

Come sappiamo, i lefevriani vedono bensì del “nuovo” nelle dottrine del Concilio, ma non lo considerano un progresso dogmatico, bensì un compromesso con la modernità e un tradimento o una rottura con la Tradizione. Il Concilio per loro non è dottrinale, è solo pastorale, per cui non è infallibile; il Concilio pertanto sbaglia, per cui bisogna respingere il “nuovo” e stare con la “Tradizione”.

Per converso, i modernisti e i rahneriani vedono del nuovo nel Concilio, anzi per loro il Concilio insegna una rinnovazione o una rivoluzione totale e radicale del cristianesimo, che non lascia nulla di immutato, per cui le dottrine precedenti sono tutte “superate”, un eufemismo che essi usano per dire che sono sbagliate, nel senso storicistico che erano vere ieri, ma oggi sono false, cioè non sono più “attuali”, conformi alla “modernità”. Per loro la regola della verità è la modernità. O forse è meglio dire che mettono la modernità al posto della verità, nella quale sostanzialmente non credono. Infatti siccome i tempi cambiano, ecco che per loro non esiste una verità assoluta.

Ma appunto per loro questo “nuovo” è il vero “progresso”. Da qui l’uso – improprio come vedremo – di chiamarli e chiamarsi “progressisti”. “Modernisti” è il loro vero nome. Per costoro, continuatori dei modernisti dei tempi di S.Pio X, come già suona una loro proposizione condannata dal Santo Pontefice, la verità non èsan tommaso d'aquinoimmutabile, ma “muta” con l’evolversi della storia.

Da questi segnali vediamo come nelle due interpretazioni del Concilio si suppongono due concetti contrastanti di “progresso”: nella prima il sedicente “progresso” rompe con la Tradizione come regola immutabile della fede; nella seconda il progresso rompe con un passato ormai superato e quindi inutilizzabile ed inadeguato alla “modernità”. Ed è normale per loro che il progresso sia rottura col passato, perché, come abbiamo visto, la stessa verità muta col mutare dei tempi. Veritas filia temporis.

Credo allora che sia bene chiarire a questo punto qual è l’idea giusta di progresso, in specie il progresso dogmatico, idea che già a lume di naso fiutiamo che nelle suddette posizioni ha qualche pecca, perché il comune buon senso già da sé intuisce che non necessariamente ogni progresso rompe col passato: se io ho aumentato il mio capitale di 30.000 euro partendo dai 30.000 che avevo dieci anni fa, non per questo butto via quei 30.000 euro che avevo guadagnato allora e che sono stati superati da quelli che posseggo adesso.

Così similmente, per passare al progresso del sapere, se adesso ho migliorato la mia conoscenza delle opere di Aristotele, ciò non vuol dire necessariamente che quanto di lui conoscevo vent’anni fa fosse sbagliato; similmente, per passare alla storia, se S.Domenico era già un sacerdote virtuoso prima di fondare l’Ordine dei Predicatori, ciò non si significa negare quel grado di virtù che il Santo Patriarca possedeva quando era semplice canonico della cattedrale di Osma, prima di fondare l’Ordine.

Per chiarire a questo punto il nostro tema, è utile considerare la parola “progresso”, la quale viene dal latino pro-gradior: avanzo, cammino in avanti. E’ simile a “processo”, pro-cessus, che significa procedere, avanzare, andare avanti. E’ sottintesa, anche se non necessariamente, l’idea di un miglioramento o di un aumento o di un ammodernamento, anche se si può parlare del progresso di una malattia.

Nella storia del pensiero occidentale si notano tuttavia tre idee di progresso intellettuale o morale, che fanno capo a tre grandi filosofi greci: Platone, Eraclito ed Aristotele. Questi pensatori hanno trattato di funzioni così importanti ed universali del pensiero umano, che chiunque cerca di farsi un’idea di cosa è il progresso in ogni campo del pensiero e dell’esistenza, deve fare i conti, lo voglia o non lo voglia, lo sappia o non lo sappia, con uno di questi tre.

Questo pertanto avviene anche per i teologi cattolici. Il teologo, per quanto affermi e creda, come fanno soprattutto i protestanti, di basarsi esclusivamente sulla Bibbia e sulla “Parola di Dio”, o di farsi portavoce diretto di questa Parola, scevro da ogni “precomprensione filosofica”, è un illuso o un impostore; in realtà, lo sappiano o non lo sappiano, lo vogliano o non lo vogliano, non possono fare a meno, nel momento in cui usano la loro ragione (e guai a non usare la ragione in teologia!), di lasciarsi influenzare da una certa idea di progresso la quale ha le sue radici storiche in uno di quei grandi pensatori classici, e quindi di applicare questa idea alla concezione cristiana del progresso.

Così possiamo senz’altro affermare che, mentre i lefevriani sono influenzati dall’idea platonica di progresso e i modernisti risentono di quella eraclitea mediata da Hegel, i cattolici normali, ossia pienamente fedeli al Magistero della Chiesa e quindi veri interpreti del Concilio, si rifanno, anche se forse alcuni non lo sanno, ad Aristotele mediante S.Tommaso d’Aquino. E così solo costoro, a differenza degli altri, in forza della loro giusta idea di progresso, sono in grado di spiegare il rebus del Papa per il quale è possibile conciliare continuità e progresso, mutabilità e immutabilità o, per esprimerci in termini metafisici, essere e divenire.

Vediamo di delineare brevemente le radici filosofiche di queste tre concezioni del progresso. Per Platone il progresso si riduce, un po’ come nella filosofia indiana, a ricordare o a prender coscienza di valori ideali, assoluti, eterni ed immutabili, esistenti già da sempre nella coscienza, o meglio vorremmo dire nell’ “inconscio” del soggetto: ciò che la filosofia moderna, a partire da Kant, chiamerà l’“apriori”.

Per cui, secondo i Platonici, il vero divenire, nel senso di apprender cose nuove o anche nel senso ontologico o cosmologico, non esiste, perché per Platone la vera realtà non è quella sensibile ma quella ideale. Tutto è nel passato (nella “Tradizione”: vedi per esempio René Guénon), tutto è già saputo, non c’è nulla da imparare; solo dev’essere ritrovato, un po’ come nell’esoterismo massonico la ricerca della “parola perduta”.

Il divenire in Platone è il manifestarsi di ciò che c’era già da prima e da sempre. Per questo per i lefevriani il progresso dogmatico è una conoscenza migliorata della Tradizione già da sempre immutabilmente presente nella Chiesa. E ciò non è sbagliato. Il “nuovo”, però, per loro, non è un acquisto o un aumento del sapere rivelato, ma un allontanamento dalla “Tradizione”. Il nuovo è di per sé da respingere, come il novum del quale aveva terrore la religione romana. La “novità” è sinonimo di falsità.

Essi non escludono in linea di principio che un Concilio possa far conoscere meglio questa Tradizione con esplicitazioni o chiarimenti dottrinali o dogmatici – portano ad esempio per questo il Concilio di Trento e il Vaticano I -, ma secondo loro non è questo il caso del Vaticano II, il quale, come ho detto, anzi con le sue dottrine “nuove” contraddice alla Tradizione precedente e quindi va respinto.

L’idea di progresso invece propria dei modernisti ha per sfondo Hegel, il quale a sua volta, come è noto dagli storici della filosofia, si basa su Eraclito. In questa concezione che non ammette né una realtà nè una verità permanenti, il progresso non avviene sulla base di una continuità o di una identità, ma al contrario si pone come conflitto o contrasto col passato, perché, come ho detto, nulla permane ma tutto fluisce o, secondo il famoso detto di Eraclito, “panta rei”.

Hegel dialettizza secondo la sua famosa dialettica della contraddizione il divenire assoluto identificandolo con l’essere; i concetti, dice Hegel, sono “fluidi”, “non stanno fermi”, “passano l’uno nell’altro”, il successivo è la negazione del precedente, benchè comunque il precedente – non si sa come -, sia “superato e mantenuto” nel successivo.

E’ la famosa Aufhebung, effetto – parole testuali di Hegel – del “potere magico del negativo”. Quella parola fatidica “magico” sembrerebbe un vero e proprio lapsus freudiano. La filosofia infatti in Hegel diventa un potere demiurgico della ragione sull’essere utilizzando il principio della negazione, già teorizzato dalle speculazioni magiche di Giordano Bruno, per il quale, come si sa, l’idealismo tedesco nutriva molta ammirazione.

Non dunque la distinzione-unione, che trova il sommo analogato nel mistero dell’Incarnazione secondo la formula di Calcedonia (distinzione-unione delle due nature umana e divina), ma la contraddizione-separazione-identificazione, che vuol essere l’interpretazione hegeliana del divenire e quindi del progresso che caratterizza l’essenza stessa di Dio, Egli stesso assoluto Divenire secondo un fraintendimento della formula giovannea dell’Incarnazione del Dio che “diviene” uomo. Una vecchia eresia dei primi secoli, del monaco Eutiche.

Qual è invece la giusta idea di progresso dottrinale che ci è suggerita dalla Bibbia? Il suo messaggio, come ha dimostrato S.Tommaso d’Aquino, in ciò raccomandato dalla Chiesa, trova una soddisfacente interpretazione grazie all’utilizzo della concezione aristotelica dl divenire.

Infatti, in questa concezione il divenire non compromette il principio di non-contraddizione come avviene in Hegel; da qui l’affermazione della continuità e dell’immutabile, mentre non riduce il divenire a mera apparenza o addirittura ad illusione come avviene nel platonismo, ma anche il divenire, come passaggio dalla potenza all’atto, appartiene al reale. Il divenire tuttavia non ha il primo posto. Il primato spetta all’immutabile, dal quale Aristotele parte del dimostrare l’esistenza del Motore immobile che “muove il sole e le altre stelle” come dice Dante, tanto che, secondo un famoso detto dello Stagirita, “se non ci fosse l’immutabile, non ci sarebbe il moto”.

Il pensiero aristotelico – in ciò perfettamente d’accordo con la Bibbia – distingue Dio immutabile dal mondo mutevole e ben lungi dall’opporli, pone il primo come motore del secondo, anche se, come è noto, Aristotele non arriva all’idea di una causa creatrice e provvidente.

Nel piano del pensiero, poi, Aristotele spiega il progresso del pensiero con la teoria del sillogismo dimostrativo secondo la modalità dell’induzione e della deduzione. Per aver colto perfettamente in ciò il movimento naturale della ragione, Aristotele si trova in coincidenza con quanto si può ricavare dalla Sacra Scrittura circa il procedere dell’umana ragione. Da qui il fondamento biblico del metodo teologico e dello sviluppo del dogma, che, nella storia del cristianesimo, si sono realizzati appunto seguendo le leggi della deduzione e della esplicitazione razionale inizialmente elaborati dall’Organon aristotelico.

L’aggancio con Aristotele ci fa capire peraltro che il principio “continuità nel progresso” non è solo una chiave ermeneutica di lettura del Concilio, ma possiede un’ampiezza sconfinata di carattere trascendentale fino a raggiungere il rapporto metafisico tra l’essere e il divenire, nonchè la teoria generale del divenire del pensiero. Questo principio pertanto è di un’importanza incalcolabile data l’infinità di campi dell’essere e del pensiero nei quali è possibile la sua applicazione ai fini di una giusta visione della realtà e della storia, nonchè di un retto modo di pensare e pertanto di una fondamentale ed armoniosa regolamentazione dell’agire morale.

Concludiamo dunque dicendo che il progresso dogmatico – e ciò è quanto avviene generalmente nei Concili, non escluso l’ultimo – non è che un’applicazione delle leggi del progresso teoretico scoperte da Aristotele e perfezionate da S.Tommaso e dalla sua scuola all’indagine del significato e della portata della divina Rivelazione, così come ci è trasmessa dalla Tradizione e dalla Scrittura nell’interpretazione della Chiesa. Le novità che si deducono dal dato rivelato lungo la storia dei dogmi sono ottenute per lo più precisamente con l’applicazione di questo metodo che salva la continuità nel progresso e realizza il vero infallibile progresso della conoscenza della Parola di Dio.

 

Bologna, 6 giugno 2011


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