Temo questo occidente e i suoi “valori”

È raro che un politico strappi una franca risata, specie in campagna elettorale, festival della finzione e dell’ostentata serietà di personaggi in cerca d’autore, o meglio d’elettore. Stavolta è successo: Enrico Letta ha dichiarato che in caso di vittoria dei suoi avversari politici “per l’Italia la pacchia è finita”. Solo il professore di scienze politiche parigino può pensare che la stagione presente sia una pacchia, tra pandemia, crisi economica, energetica, timore del futuro, pericolo di guerra, debito, dissoluzione del legame sociale.

Si tratta forse della risposta – improvvida quanto esilarante – a un’altra frase da comizio, di Giorgia Meloni, per la quale il suo governo determinerà la fine della pacchia per l’Unione Europea. Questo è il livello della classe politica. Peraltro, che altro possono fare, se non insultarsi, pronunciare sciocchezze o battute d’avanspettacolo, giocare a chi la spara più grossa, se i programmi sociali, economici e geopolitici sono pressoché sovrapponibili?

Questo pensa la maggioranza degli italiani e noi con loro. Nessun dubbio che la sconfitta e la vittoria, la stessa partecipazione popolare alle urne, si giocheranno sull’apparente maggiore credibilità sui temi economici, le tasse, la risposta alla pandemia e ai costi dell’energia. E tuttavia… Oltre le preferenze contingenti su chi amministrerà l’esistente in conto terzi – questa è la modesta posta in palio nelle elezioni – uno Stato è soprattutto una civiltà. A lungo termine contano i principi su cui si regge, i valori che promuove, ciò che considera bene e male.

Vi è un enorme tema rimosso, evitato, trattato con le pinze da tutti i contendenti: è il dibattito tra modelli esistenziali e comunitari ormai opposti, irrimediabilmente divergenti. Parliamo dei cosiddetti “diritti”, ovvero della scelta antropologica finale tra modi di vita, valori e principi morali inconciliabili.

Secondo chi scrive il problema numero uno è la denatalità, l’inverno demografico che affligge l’Italia e l’Europa. Tale convinzione non può essere condivisa da un elettorato educato al più totale soggettivismo, a un individualismo che esclude dall’orizzonte della vita, dai pensieri e dai valori ogni dimensione comunitaria. E sì che la preoccupazione comincia a diffondersi in ambienti insospettabili come la fondazione che porta il nome di Jacques Delors, uno dei padri di questa UE. Fatto sta che il tema denatalità non è sollevato da alcuna delle forze in campo, segno che non procura vantaggi elettorali, l’unico argomento che smuove i politici di ogni orientamento.

La realtà, tuttavia, vince sempre e non si riesce a immaginare senza un brivido di orrore un’Italia e un ‘Europa senza i loro abitanti originari, eredi e discendenti della civiltà, dei popoli e delle razze (osiamo dirla, la parola impronunciabile) che l’hanno costituita, improntata, custodita. Primum vivere. Nessuna politica, nessun futuro attende i morti.

Dunque, occorre suscitare il dibattito che non c’è sulla vita che manca e che sfuma, sui figli che non abbiamo, a partire da due domande decisive. Vale la pena trasmettere il nostro sangue e la nostra visione del mondo? E l’altra: perché siamo arrivati a questo punto? Alla prima rispondiamo un sì convinto e disperato. La seconda è il cuore del problema, il motivo per cui perfino le forze politiche e culturali meglio orientate evitano il dibattito, ancor più in campagna elettorale. Troppo divisivo, dicono.

L’obiezione è ovvia: la libertà presuppone divisione, contrasto di idee, progetti, principi e interessi. La democrazia rappresentativa è stata inventata per dare regole al conflitto sociale e ideale senza trasformarlo nella guerra di tutti contro tutti di Hobbes.

Secondo Pierre Drieu La Rochelle, l’intellettuale è oggi dove gli altri saranno domani. Ha il compito di mostrare i problemi, individuare soluzioni, riflettere su ciò che accade in prospettiva futura. L’inverno demografico è in atto e porterà alla rapida fine dei popoli e delle civiltà che non si riproducono più a partire dal ricambio delle generazioni. La demografia è una scienza pressoché esatta, in grado di indicare scenari e numeri in costanza dei fenomeni che osserva. Senza un deciso cambio di rotta, siamo finiti come nazioni, e conseguentemente tramontano le visioni del mondo e i valori di cui siamo portatori.

Si può ancora dire la verità o – come capì George Orwell – proclamarla, in tempi di menzogna universale è un atto rivoluzionario? E sia, facciamola questa rivoluzione verbale, tentando di indicare alcune cause dell’imminente fine dei nostri popoli per consunzione biologica, rammentando sinistre analogie con la fine dell’impero romano.

La romanità si esaurì per denatalità e incapacità di difendere i confini. Le motivazioni erano la ricchezza ereditata, il desiderio di comodità, la fiacchezza interiore, l’abbandono dei costumi che avevano garantito grandezza e universalità. Si chiamava mos maiorum, gli usi degli antenati, il nucleo della morale tradizionale della civiltà romana. Finì con imperatori dissoluti e debosciati, con i discendenti di forti guerrieri truccati e travestiti da donna in cerca di piaceri di ogni genere, incapaci di lottare e di esprimere una cultura. La Roma di Eliogabalo finì con il povero Romolo Augustolo, l’imperatore adolescente nel cui nome si chiuse un millennio di storia, dopo che i Romani si erano affidati a generali barbari che rovesciavano esangui imperatori e aristocrazie diventate parodia di se stesse.

Ci vollero secoli perché, con San Benedetto, tornassero lavoro, scienza, cultura, nel deserto di città abbandonate, campi diventati sterili, vite destituite di senso. Ora et labora, era il motto: prega e lavora, impegnati, studia, costruisci e ricostruisci. Assomiglia all’inascoltato difendi, conserva, prega a cui esortava l’ultimo Pier Paolo Pasolini, nonostante le pratiche pederastiche e la fascinazione per il degrado espressa nella sua opera cinematografica.

Troppe circostanze rimandano alla penosa, lunga agonia dell’impero. Oggi tutto avviene in gran fretta ed è dubbio che esistano margini per cambiare rotta, ossia invertire l’inversione e lottare contro la dissoluzione. Specie se riflettiamo sull’esortazione dell’Unione Europea alla Serbia a consentire il gay pride con la motivazione che esso fa parte dei “valori europei”. Non è dunque la manifestazione – legittima – di chi ostenta condotte che altri hanno ogni diritto di contrastare e ritenere distruttive, ma addirittura un valore dell’Europa e dell’Occidente.

Acquista un significato il programma civile invertito, il terribile “viva le devianze” di Enrico Letta a margine di alcune polemiche su questioni liquidate sbrigativamente: “temi etici”, come se la morale di una società non ne fosse il centro e il motore. Ne sono consapevoli, tanto è vero che propongono l’asilo obbligatorio, ossia strappare i figli ai genitori per educarli sin dall’infanzia al nuovo mondo, quello delle devianze e dei valori capovolti.

Viva le devianze, viva le dipendenze, tanto diffuse, il tratto unificante della società. Dal sesso, dalle droghe, dal gioco, dal denaro, dal successo individuale, dai farmaci, da una libertà irrazionale e priva di scopo spacciata per progresso e per diritto, da un materialismo assoluto di cui abbiamo sperimentato gli effetti nel terrore pandemico. Scrisse Thomas S. Eliot che è difficile che una società possa sopravvivere senza una religione, una spiritualità condivisa. Oggi dobbiamo rilevare, con l’esempio di varie civiltà scomparse nel tempo, che nessuna può sopravvivere alla perdita della morale sessuale.

Non si nasce per mille motivi: rifiuto delle responsabilità, desiderio di affermazione soggettiva, paura. I figli, come i diamanti della pubblicità, sono per sempre, impegnano e sottraggono tempo a divertimenti, successo, ossia alla cosiddetta realizzazione. Non si nasce perché tante coppie sono prigioniere del precariato di vita e lavoro, in corsa perenne con la valigia a rotelle: le relazioni sfumano, si sfarinano nell’universo liquido. Non si hanno figli perché lo Stato non aiuta, privilegiando l’individualismo e la folla solitaria. Da mezzo secolo il sesso è sganciato per via farmacologica dalla procreazione, e si chiama libertà la più assoluta promiscuità, con legislazioni e modelli di vita che fanno sì che dall’incontro sessuale tra uomo e donna (sconsigliato, impopolare, residuo del passato, poiché le altre forme di sessualità sono i valori d’occidente) non scaturisca ciò che è normale per natura, la nascita di nuovi membri della società.

Sappiamo quanto sia impopolare toccare certi tasti, ma a che cosa porta, se non a una società sterile, egoista e dipendente dall’immediato e dalla comodità, affermare l’aborto come diritto universale, addirittura modificando le parole: interruzione volontaria di gravidanza e adesso l’orribile, zootecnico “salute riproduttiva”? L’argomento è tabù, come affermare che la vita deve essere difesa anche nel malato, nel debole, nell’anziano. Meglio una bella punturina e via, la “buona” morte, l’eutanasia, il prossimo diritto universale degli occidentali, morti viventi in attesa che qualcuno assesti il colpo finale.

Ma no, sei un catastrofista, un apocalittico che scambia per fine del mondo quel che non gli piace o – peggio – che non capisce. Un rottame del passato, diranno i più. Ma se una macchina del tempo e dello spazio ci trasferisse nelle varie civiltà che gli uomini hanno costruito sul pianeta Terra, ci accorgeremmo che tutte si sono basate sull’amore di sé, su qualche forma di spiritualità, sulla famiglia intesa come incontro ed alleanza tra uomo e donna, o, se preferiamo il linguaggio biologico, tra gli esemplari maschio e femmina della specie.

Agli albori della civiltà nostra che muore insepolta e non tanto gaia tra suicidi, depressione e psicofarmaci, due personaggi rappresentarono la verità negata che porta a conseguenze drammatiche. Cassandra, la figlia del re acheo Agamennone – da lui sacrificata – la cui tragedia era conoscere il futuro senza essere creduta. E poi Laocoonte, unico troiano a capire che il cavallo d’Ulisse non era un dono degli dei, ma un’arma dei greci. Anch’egli non fu creduto e Pallade Atena, che parteggiava per gli invasori greci, lo fece morire avviluppato con i suoi figli – distruggendone anche la discendenza – dai serpenti marini. Virgilio, nell’Eneide, scrisse versi immortali. Questa è macchina contro le nostre mura innalzata, e spierà le case, e sulla città graverà: un inganno v’è certo. Non vi fidate, Troiani. Sia ciò che vuole, temo i Dànai, e più quand’offrono doni.”

Timeo danaos et dona ferentes, temo i greci e i loro doni. Temo questo occidente e i suoi “valori”, la libertà senza direzione, la pletora di “diritti “, che fanno vivere in una sorta di dirittismo senza fine, giacché l’officina del dio Mercato e la cultura della dissoluzione travestita da libertà inventa sempre nuovi traguardi.

Nulla di strano che i temi antropologici, esistenziali, relativi alla condizione umana, al bene e al male, siano rimossi anche in tempo di elezioni, cioè di decisioni. Troppo perturbanti (unheimlich, “non di casa”), come capì Sigmund Freud. La post modernità terminale, l’Occidente di tutte le libertà in corsa verso il nulla celebra la vittoria dell’Es, ossia di ogni spinta pulsionale e inferiore sull’Io – la persona – e il Super Io, le norme naturali e comunitarie introiettate per mantenere e trasmettere la civiltà.

Nulla importa ai politici e assai poco agli elettori, che sembrano applaudire un mondo rovesciato, globalizzato dal Mercato, dalla materia e dal denaro. Per Guy Debord in un mondo unificato non ci si può neppure esiliare. Si può soltanto, se si ha il coraggio, l’incoscienza o la temerità, fare la parte di Cassandra o di Laocoonte, tra frizzi, lazzi e derisione.

Il risultato sarà probabilmente il medesimo, ma avremo assolto a un dovere morale, descrivendo il mondo con gli occhi della verità. Ci resta la lezione di Ernst Jünger nel Trattato del ribelle: l’arroganza del progresso incontra il panico, il comfort supremo si infrange contro il nulla, l’automatismo contro la catastrofe, che assume le sembianze di un incidente stradale. Il progresso dell’automatismo e quello della paura sono strettamente legati, in quanto l’uomo, a prezzo di riduzioni tecniche, limita la sua capacità di decisione. Guadagna ogni sorta di comodità. La persona non è più nella società come un albero nella foresta; sembra il passeggero di una nave veloce che porta il nome di Titanic, o addirittura Leviatano. Finché il cielo rimane limpido e la vista gradevole, a malapena si accorge dello stato di minore libertà in cui è caduto. Al contrario, irrompe l’ottimismo, la sensazione di onnipotenza offerta dalla velocità. Tutto cambia quando si segnalano isole che sputano fiamme o iceberg.”

Sul Titanic morirono danzando. A Bisanzio discutendo del sesso degli angeli. A Roma e Babilonia tra vizi ed eccessi. Noi moriamo di diritti. E di devianze.

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