TORNA NELLE LIBRERIE UN GRANDE ROMANZO, “L’ALFIERE” DI CARLO ALIANELLO – di Gianandrea de Antonellis

di Gianandrea de Antonellis

 

Sembrava destinato all’oblio o meglio ad essere ricordato solo nei ristretti gruppi dei nostalgici “borbonici” e invece, finalmente, a trent’anni dalla morte di Carlo Alianello (1901-1981), il romanzo L’alfiere viene riproposto da una grande casa editrice.

alfierePubblicato per la prima volta da Einaudi (1942), poi riproposto da Valleccchi (1957), Feltrinelli (1964) e Rusconi (1974), era però assente da troppo tempo dalle librerie. È vero che la coraggiosa casa editrice Osanna di Venosa, in omaggio alle radici lucane di Alianello, aveva pubblicato i tre lavori del ciclo “borbonico” – i due romanzi L’alfiere e L’eredità della priora ed il trittico di racconti Soldati del Re – ma queste peraltro eleganti edizioni non erano riuscite ad avere la visibilità che l’opera dello scrittore meritava.

L’alfiere apre una serie di lavori dedicati alla caduta del regno delle Due Sicilie che si ambientano rispettivamente durante la rivoluzione del 1848 (Soldati del Re, 1952), durante l’invasione garibaldina (L’alfiere, 1942), nel periodo del brigantaggio (L’eredità della priora, 1963) ed un trentennio più tardi, durante lo scandalo della Banca Romana (L’inghippo, 1973). A queste opere narrative andrebbero affiancate un breve dramma (La luna sulla Gran Guardia, 1955, ambientato sempre nel 1848) ed il saggio La conquista del Sud (1972), che tra i primi ebbe il coraggio di definire “conquista” e non “liberazione” l’aggressione piemontese del 1860.

La prima opera scritta fu appunto L’alfiere, che ebbe alterne vicende: da un lato fruttò al suo autore la condanna al confino per disfattismo (risale al periodo bellico), dall’altro fu apprezzata dai giovani combattenti della Repubblica Sociale che in qualche modo identificavano la propria lotta con quella dei soldati borbonici, destinati alla sconfitta, ma legati al giuramento prestato al loro Re.

L’alfiere narra le vicende militari e sentimentali del giovane ufficiale Pino Lancia, appena licenziato dall’accademia militare e precipitato in una guerra che si prospettava come una semplice rivista e che si concluderà con la fine di un regno antico otto secoli. Pino Lancia è il tipico rappresentante del “mondo di ieri” napoletano: appartiene alla piccola aristocrazia, ha studiato alla Nunziatella (dove ha incontrato Francesco De Sanctis di cui non conserva un ottimo ricordo), spera di sposare l’affascinante e fredda Renata, ma nella sua vita entreranno anche la sensuale Ginevra e la dolce Titina. Le tre donne rappresentano i tre aspetti della società contemporanea: Renata è una borghese voltagabbana (non a caso figlia di un ufficiale traditore), Ginevra una popolana “garibaldina” che s’illude che con l’arrivo della camicie rosse giungerà anche una rivoluzione sociale; ed infine Titina è un’aristocratica di campagna, che rappresenta l’attaccamento ai valori tradizionali, sia in campo politico che morale, e che alla fine risulterà quella più importante per la vita del giovane alfiere.

Ma le vicende sentimentali fanno solo da contorno a quelle militari: la campagna del 1860-1861 è descritta dalla parte degli sconfitti, tra cui troviamo un ufficiale idealista come Pino; un frate uscito dal convento per andare incontro a Garibaldi e poi divenuto cappellano dei borbonici come fra’ Carmelo da Acquaviva; un sacerdote conscio dell’ineluttabilità del fato come don Giuseppe Buttà (un personaggio realmente esistito); un sottufficiale come il sergente Lo Russo che – dopo aver mancato per un soffio di uccidere Garibaldi a Calatafimi – troverà più adeguato al suo stato lasciare l’esercito per entrare nella camorra e gestire l’ordine pubblico alle dipendenze di Liborio Romano… Contrappuntano gli avvenimenti di guerra e d’amore profonde considerazioni filosofiche e psicologiche (e talvolta anche umoristiche), concorrendo così alla creazione di un vero e proprio capolavoro di stampo manzoniano: non a caso Giuseppe Tomasi di Lampedusa ne teneva una copia ampiamente chiosata sulla scrivania, mentre lavorava al suo Gattopardo.

Allora è lecito chiedersi come abbia fatto un così bel romanzo ad essere dimenticato.

Nella prefazione della nuova edizione Piero Gelli, docente di Letteratura Italiana alla Bocconi e consulente delle principali case editrici italiane, ricostruisce il clima culturale in cui Alianello operava (pur senza risparmiare qualche strale al suo lato umano) descrivendo un ambiente avverso allo scrittore, che aveva il duplice “torto” di essere dichiaratamente cattolico e di utilizzare uno stile considerato sorpassato.

Il cattolicesimo di cui Alianello si dichiarava fieramente un praticante – faceva parte della Congregazione Mariana e si sentiva un cavaliere medioevale al servizio della Madonna: «nella cerimonia d’ammissione io mi son votato a Lei, come, secondo la vecchia formulazione feudale, cavaliere a Dama e Signora» – gli alienava “naturalmente” le simpatie dei salotti culturali. Così si espresse nel saggio autobiografico Lo scrittore o della solitudine (Paoline, 1970): «Il fatto è che, per certa critica, anzi per una consorteria di sprovveduti, fra critici, autori ed editori, i quali altra ricchezza non hanno che l’appoggio dei politici, anzi d’una sola politica, quella dei sinistrorsi d’ogni sfumatura, carminio, rosso scarlatto, rosa, rosaceo, malva, cinabro o solferino, nonché dei grossi capitalisti che gli sono alleati, i quali altro interesse non hanno che ridurre l’arte a un fatto industriale, qualunque arte è diventata cosa bigia, tetra, miserabile».

Per quel che riguarda l’altro problema, quello dello stile, da un lato è vero che Alianello viene posto tra due giganti della letteratura europea come Manzoni e Balzac, ma si tratta pur sempre di due giganti del secolo precedente: e nulla poteva essere peggiore per il secondo Novecento che avere un sapore di passatismo. Venivano ben viste tutte le avanguardie, dal Gruppo 63 ai “Cannibali”, ma non si poteva prescindere dall’innovazione nello stile e nel contenuto, confondendo il nuovo con il bello o, peggio, preferendo per partito preso il nuovo al bello. In una simile situazione, per uno scrittore che sapeva troppo di prosa “ottocentesca” l’oblio diventava inevitabile.

Adesso, superato quel periodo e messa da parte l’esaltazione per lo sperimentalismo fine a se stesso, si può dare un giudizio più sereno sull’intera opera di Alianello e si può legittimamente sperare che dopo L’alfiere, anche gli altri suoi lavori possano rivedere la luce, visto il nuovo interesse che questa figura sta suscitando, testimoniato anche dal documentario televisivo “Carlo Alianello, la voce dei vinti” di Rosso Fiorentino.

 

Carlo Alianello, L’alfiere, Rizzoli, Milano 2011, p. 496, € 11,90  – per acquisti on line CLICCA QUI

1 commento su “TORNA NELLE LIBRERIE UN GRANDE ROMANZO, “L’ALFIERE” DI CARLO ALIANELLO – di Gianandrea de Antonellis”

  1. eduardo simonelli

    Per me il più grande scrittore italiano del “900. L’Alfiere è un libro che andrebbe letto nelle scuole, almeno in quelle del Sud. Questo sugnifica scrivere in italiano .

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