di Gianandrea de Antonellis
fonte: Corrispondenza Romana
Le edizioni napoletane Il Giglio hanno recentemente ristampato un classico del pensiero cattolico contro-rivoluzionario, opera di Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Trasbordo ideologico inavvertito e dialogo, (Napoli 2012, p. 128, € 15). Il testo, pur essendo stato scritto nel 1965, è interessante – come sottolinea lo studioso Guido Vignelli, che ha curato la traduzione e redatto una corposa postfazione – non solo perché fu (ahinoi!) profetico, ma perché elaborava una proposta di “resistenza” all’attacco relativista che è ancora attualissimo (ed attualizzabile) ai nostri giorni.
Forzando lo spirito di apertura al mondo proposto da Paolo VI nell’enciclicaEcclesiam suam, il mondo anticlericale (allora sostanzialmente filosovietico) riuscì ad usare il “dialogo” come metodo di una propaganda sovversiva che tentava di spingere gli anticomunisti (in particolar modo quelli di fede cristiana), ad occupare una posizione d’inferiorità psicologica e di subordinazione rispetto all’avversario: il “dialogo”, divenuto in breve sinonimo di “ecumenismo”, fu inteso come riconoscimento della verità (e quindi della parità) delle altre religioni e, di conseguenza, aprì la porta all’indifferentismo ed al relativismo.
Plinio Corrêa de Oliveira individuò la radice di questo vizio intellettuale e spirituale, che è necessario rimuovere affinché possa essere possibile risolvere la crisi attuale, altrimenti ogni tentativo di farlo rimarrà frustrato, con la conseguente, per dirla con Benedetto XVI, «dittatura del relativismo». Oggi, a quasi mezzo secolo dalla sua pubblicazione, il saggio rimane attuale: il nemico non è più l’impero sovietico, ma si annida nella nostra stessa società. Il relativismo è attualmente il principale nemico dell’identità cristiana, forse più pericoloso della stessa avanzata islamica perché meno evidente e meno violento (anzi, si presenta con la seducente apparenza della non-violenza).
Basti pensare al termine “multiculturalismo”, che in sostanza significa rinuncia alla Verità (nel riconoscere la parità delle altre culture e quindi degli altri pensieri religiosi), ma che viene percepita come sinonimo di società multietnica (che ha un significato ed un valore molto diversi) e quindi di antirazzismo, diventando quindi una parola “buona” che può facilmente essere accettata da una popolazione un tempo quasi totalmente cristiana e che, nel giro di poche generazioni, sta perdendo molti dei propri connotati religiosi.
Adesso il termine più ricorrente non è tanto dialogo, ma la sua versione post-moderna: il politically correct, figlio del dialogo sessantottino, sostituto verbale delle chiavi inglesi, che viene costantemente brandito per mettere a tacere chi osi affermare un qualsiasi principio, pronto ad essere usato, tanto per fare un esempio, per impedire la realizzazione in una scuola pubblica, di un presepio che “offenderebbe” la sensibilità dei bambini (figli di) non credenti. L’intuizione di Plinio Corrêa de Oliveira – conferma Guido Vignelli – fu quella di aver individuato la dinamica progressiva del “dialogo”, che sposta sempre più avanti il suo traguardo, definendo sistematicamente ogni mediazione raggiunta come “promettente” ma “insufficiente”.
In questo modo, il dialogante estremista spinge il moderato a concessioni sempre maggiori, accompagnandolo verso un inavvertito trasbordo ideologico che lo porterà ad abbandonare le posizioni tradizionali per assumere quelle rivoluzionarie. Questa tecnica, adoperata su larga scala dai progressisti di ogni matrice negli anni ‘60 e ‘70, non è stata abbandonata, ma al contrario è stata diffusa a tutti i livelli, rivestita da un’aura di “buonismo”, di “equilibrio”, di “rispetto delle differenze”.