Trump und drang (Impeto e Trump) – di Clemente Sparaco

Trump mette fine alla dittatura del “politically correct“. La sua è innanzitutto una rottura di stile e di linguaggio, ma dietro il linguaggio c’è l’idea. Ed è questo che scandalizza.

Parafrasando il noto movimento letterario romantico Sturm und drang (impeto e tempesta), suggeriamo una lettura dell’attuale corso storico che ne evidenzi il carattere di dirompente novità.

di Clemente Sparaco

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Impeto

I primi provvedimenti del neoeletto Presidente USA, Donald Trump, vanno nella direzione di suscitare contraddizioni e divisioni. Fuori dagli schemi, proveniente dall’anti-politica, piuttosto che dall’establishment, il tycoon sembra avere tutti contro. Certamente gli sono contrari l’UE, l’ONU, Merkel, Soros, attori e cantanti dello star system, Zuckerberg, starbecks, i radical chic, nonché gran parte dei media.

La sua irruzione sul palcoscenico mondiale ha segnato l’uscita di scena di Barack Obama, leader dello schieramento progressista, con la sua politica tanto cinica quanto destabilizzante, quell’ipocrisia globale che in nome della democrazia ha seminato morte, distruzione e caos. Il mondo, alla fine della sua amministrazione, si è trovato precipitato in una nuova guerra fredda per le tensioni sollevate nei confronti della Russia, prima messa all’angolo con la crisi ucraina, poi artatamente accusata di influenzare la politica americana con i suoi hacker e i suoi servizi segreti. Il corollario di tutto questo sono state le guerre con centinaia di migliaia di morti in Siria e Libia e milioni di rifugiati. Né è servito a contenere il terrorismo islamico, avvantaggiato, al contrario, dal favore che nell’amministrazione a stelle e strisce hanno trovato quei paesi islamici che lo finanziavano e armavano.

Quella che può essere determinata come la prima fase della globalizzazione è stata, quindi, indirizzata calpestando identità nazionali e religiose, libertà dei popoli e tradizioni, imponendo l’arroganza senza limiti della finanza internazionale e l’invadenza della tecnocrazia. “Obama – ha scritto Antonio Socci nel suo Blog (lo straniero) il 14 gennaio – è stato il vero sponsor di quella globalizzazione finanziaria che ha reso il regime cinese una grande potenza e ha impoverito i ceti medi e le classi lavoratrici occidentali”.

Da parte sua, Trump pare aver ingaggiato da subito un confronto-scontro con il mondo islamico, vietando l’ingresso ai Siriani, a tempo indeterminato, e per 90 giorni ai cittadini di Iran, Iraq, Yemen, Somalia, Sudan e Libia. Contestualmente, ha deliberato che, dopo questo periodo, sarà data priorità alle minoranze cristiane perseguitate. Ritirandosi dalla Trans Pacific Partnership, il progetto di trattato di regolamentazione e investimenti regionali fra 12 Paesi delle 2 sponde del Pacifico, ha preso una decisione che va nella direzione di sanare gli squilibri commerciali Cina-Usa. Del resto, ha più volte minacciato in campagna elettorale alti dazi sulle merci del colosso asiatico. A testa bassa ha attaccato, per bocca di Peter Navarro, numero uno del consiglio nazionale per gli scambi commerciali, la Germania, accusata di usare un euro “esageratamente sottovalutato” ai danni degli USA e degli altri partner europei (intervista al Financial Times del 30 gennaio). Ha firmato un ordine esecutivo di progettazione di un muro al confine meridionale, per interrompere l’immigrazione clandestina.

Trump è sostenuto da quella che i progressisti chiamano sprezzantemente la pancia dell’elettorato, quella stessa pancia che in Inghilterra ha votato la Brexit, in Italia la bocciatura del referendum costituzionale e la fine del governo Renzi. Quella stessa pancia alimenta i populismi che sospingono Marine Le Pen all’Eliseo, che in Austria hanno portato Norbert Hofer al ballottaggio per le presidenziali e che in Ungheria ispirano la politica di Orban.

Ma “populismo” è un’etichetta vuota di analisi che intende solo demonizzare gli oppositori, lasciando irrisolti i problemi che alimentano il fenomeno.

Tempesta

Sul problema immigrazione Trump è entrato a gamba tesa (il muro col Messico e i provvedimenti nei confronti dell’immigrazione da alcuni paesi islamici), suscitando sdegnate reazioni in diverse parti del mondo. Ma il suo predecessore aveva respinto negli 8 anni dei suoi 2 mandati presidenziali oltre 2 milioni e mezzo di migranti e l’UE, che ha criticato la sua decisione (Federica Mogherini, alta rappresentante per la Politica estera dell’Unione, ha dichiarato: “In Europa abbiamo una storia che ci ha insegnato che potresti finire in carcere, se costruisci tutti quei muri il posto in cui ti trovi può diventare una prigione“), nel marzo 2016 ha riconosciuto la Turchia come “Stato terzo sicuro” e si è accordata perché trattenesse 2,7 milioni di profughi (siriani) e riprendesse i migranti dalla Grecia in cambio di 6 miliardi di euro e di visti d’ingresso per i cittadini turchi. Scandalizza poi quella che viene giudicata discriminazione nei confronti di paesi islamici nel decreto sui visti in entrata negli USA. Ma esso è un provvedimento temporaneo, dettato da fondati motivi che attengono alla sicurezza nazionale in materia di terrorismo. Eppure il suo predecessore, fomentando le cosiddette primavere arabe, in quegli stessi paesi ha seminato conflitti sanguinosi con un indotto in termini di vendita di armi di 200 miliardi di dollari (pari al 42% dell’intero ammontare del traffico d’armi in questi paesi).

Il fatto è che Obama non infrangeva quella regola di stile che si chiama “politically correct” con i suoi assiomi postilluministici e le sue post-verità: laicismo, secolarismo, emigrazionismo, terzomondismo, ecologismo etc.. Al contrario, Trump sbandiera apertamente altre verità. Dice: “America First!”, proponendo un protezionismo che allarma molti partners commerciali, a partire dalla Cina, accusata di non rispettare le regole internazionali sul commercio e sulle valute. Sprona all’orgoglio nazionale: “Facciamo di nuovo grande l’America!”. Addirittura invoca la religione, richiamando i valori non negoziabili di ratzingeriana memoria (anche se declinati in senso protestantico).

Ma ci sono altri temi, se possibile, ancora più sensibili.

Obama e Clinton erano ecologisti e abortisti. Una strana commistione morale, in base alla quale si sostiene che non si può distruggere un uovo di aquila, pena da 250000 $ di multa fino a 2 anni di galera, mentre è legale uccidere un embrione umano. Nel terzo dibattito televisivo per le elezioni presidenziali negli USA, 19 ottobre, la Clinton ha difeso il “partial birth abortion”, l’aborto al nono mese di gravidanza. In altre circostanze ha dichiarato che i bambini non ancora nati non godono di alcun diritto costituzionale: “The unborn person doesn’t have constitutional”, e che la decisione di abortire spetta unicamente alla donna.

Trump invece, già in campagna elettorale, si è impegnato a rendere permanente l’“Hyde Amendment” (introdotto nel 1976 per iniziativa del deputato Repubblicano Henry J. Hyde), che impedisce di utilizzare soldi dei contribuenti per finanziare l’aborto, se non in caso d’incesto o stupro. Egli, che ha fatto del diritto alla vita un argomento politico fondamentale, ha voluto Mike Pence, un paladino del movimento antiabortista, come suo vice. Quindi, con uno dei suoi primi decreti esecutivi, ha sospeso i finanziamenti ad ong e organizzazioni internazionali aventi programmi di controllo delle nascite. Solo pochi minuti dopo l’insediamento, ha fatto cancellare dal sito della Casa Bianca le pagine dedicate alle battaglie Lgbt e al riscaldamento globale. Il primo febbraio ha nominato Neil M. Gorsuch, che si è opposto con fermezza all’eutanasia e al suicidio assistito e all’aborto (ha dichiarato che non c’è alcuna “base costituzionale” che sostenga l’idea di dare priorità alla libertà di scelta della donna invece che alla vita del neonato), Giudice alla Corte Suprema, la più alta Corte federale USA.

Ma questo non gli ha ingraziato i favori del Papa di Roma, che in un’intervista al quotidiano spagnolo El Pais, il 20 gennaio, dopo aver dichiarato di giudicare il Presidente sul concreto, ha fatto improbabili allusioni a Hitler: “Hitler non ha rubato il potere, è stato votato dal suo popolo, e dopo ha distrutto il suo popolo”. “Nei momenti di crisi non funziona il discernimento… Cerchiamo un salvatore che ci restituisca l’identità e ci difendiamo coi muri, con fili di ferro, con qualunque cosa, dagli altri popoli che ci potrebbero togliere l’identità” – ha aggiunto. Dove quello che colpisce è la colpevolizzazione dell’identità e l’ideoligizzazione del giudizio, che proprio del concreto storico con le sue differenze e particolarità non tiene conto (il nazismo costruì il consenso con la violenza in una Repubblica di Weimar figlia della sconfitta, distante anni luce dall’America di Trump con la sua più che secolare tradizione di libertà e democrazia).

6 commenti su “Trump und drang (Impeto e Trump) – di Clemente Sparaco”

  1. Caro (si fa per dire) Bergoglio, paragoni Trump a Hitler… che ha distrutto il suo popolo? Tu stai distruggendo la NON tua Chiesa!

  2. Comunque avrà vita difficile; ha contro tutto il “politicamente corretto” mondiale. Come per Berlusconi si è mossa subito la magistratura conto di lui. Speriamo che sappia barcamenarsi con astuzia tra tutti gli inciampi che gli butteranno tra i piedi e che si sia circondato di consiglieri fidati e capaci.

  3. L’equiparazione di Trump ad Hitler appartiene al più trito repertorio delle banalità radical-salottiere. Vedere un Papa che ne fa uso e’ triste. In che mani siamo!

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