di Gerardo Viscidi
È interessante per chiarezza, e fa riflettere, un articolo di Piero Gheddo pubblicato sul quotidiano “Avvenire” dello scorso 21 dicembre. Esso si intitola “Il Rinascimento? Fu solo in Occidente” e riprende, commentandolo, un precedente articolo di Paolo Mieli apparso nella pagina culturale del “Corriere della sera” (14 dicembre 2010), il quale inizia con queste parole «Il Rinascimento non fu un unicum nella storia. E, se questo è vero, va messa in discussione l’ipotesi di una superiorità dell’Occidente ai nastri di partenza della corsa che avrebbe avuto come traguardo capitalismo, industrializzazione e modernità».
Paolo Mieli, in questo intervento sul giornale milanese, riprende a sua volta (condividendola, ci sembra) la tesi avanzata da un professore emerito di Cambridge, Jack Goody, nel libro Rinascimenti. Uno o molti?, opera fatta tradurre in italiano dall’editore Donzelli di Roma.
Anche il saggio del professor Goody, come l’articolo di Gheddo, contiene nel suo titolo un punto interrogativo. Ma la domanda di Goody – uno o molti? – risulta puramente retorica perché lo studioso britannico attribuisce grande importanza non ad una, ma a una moltitudine di rinascenze: un mondo intero estraneo all’Europa – come scrive Paolo Mieli – che «conobbe fenomeni in qualche modo assimilabili al Rinascimento». «L’Europa non è un’isola culturale» – prosegue Mieli – tanto che le cosiddette “tigri asiatiche” (Cina compresa) sono oggi all’«avanguardia della modernità».
Nessuno negherà le fioriture culturali d’ogni epoca e luogo che gli specialisti dei diversi settori accademici conoscono molto bene e continuano a studiare e ad approfondire ciascuno nel proprio campo di interesse. Ma con il rispetto per le culture diverse dalla nostra, la modernità che abbiamo visto affermarsi al di fuori della scena occidentale non coincide con il complesso di valori che riteniamo “universali”. Piero Gheddo chiama giustamente in causa, nel suo articolo sull’«Avvenire», alcuni storici e sociologi che hanno elaborato un’interpretazione della storia diversa da quella di Jack Goody.
Christopher Dawson – ad esempio – dimostra che «l’emergere e l’affermarsi della civiltà occidentale su tutte le altre non trova altra spiegazione se non nella visione messianica e ottimistica che la Bibbia e il Vangelo hanno dato, liberando le forze dell’uomo per le scoperte e l’impegno nel trasformare il mondo».
Altri due storici della civiltà citati da Piero Gheddo, cioè i belgi Jean Laloup e Jean Nélis, riconoscono il debito che la civiltà occidentale ha maturato nei confronti della religione cristiana per quanto riguarda le idee di uguaglianza, di libertà e di carità fraterna. Le forme di rispetto della persona – secondo Laloup e Nélis, ma anche secondo altri – sono dunque conquiste originali dell’Occidente.
Infine Arnold Toynbee (lo storico celeberrimo della civiltà), giunse alla conclusione che la civiltà occidentale è l’unica “universalizzabile”, perché permeata di princìpi e valori che discendono dalla parola di Dio.
La Carta dei diritti dell’uomo, varata dall’ONU nel 1948, si fonda infatti su princìpi biblici ed evangelici, anche perché nel dopoguerra le nazioni cristiane detenevano la maggioranza all’interno delle Nazioni Unite. In seguito, dietro pressioni dei paesi non cristiani, si tentò di dar vita ad una Carta dei diritti che prendesse in considerazione i punti di vista degli islamici, degli indù e dei buddhisti. Nonostante fossero stati istituiti all’ONU appositi comitati di studio con l’obiettivo di emanare un nuovo documento, non emersero alternative valide a quello che potremmo chiamare il modello occidentale, perché il padre del mondo moderno va riconosciuto in quell’epoca splendida che fu il Rinascimento occidentale.