di Piero Nicola
Il malessere del giovane figlio del secolo ha molti punti in comune con le insoddisfazioni dei verdi anni dei padri, dei nonni, dei bisnonni, e via dicendo, eccettuata forse una generazione, quella di mia madre, che suo marito canzonava talvolta per la trascorsa appartenenza alla “gioventù del littorio”, alludendo a certi particolari entusiasmi che avevano l’aria d’esserne un retaggio.
Mio padre era già adulto quando Mussolini salì al potere, e ciò sembrava conferirgli atteggiamenti di disincanto nei riguardi del regime. Però sullo spessore del suo scetticismo ironico, che mamma gli rinfacciava quando diversi anni più tardi egli pareva divenuto nostalgico, ci sarebbe stato da indagare.
Ardengo Soffici, pittore riconosciuto eccellente dagli esperti accreditati e dagli storici delle belle arti (attenti a dimenticare la sua nomina ad accademico d’Italia nel 1939, o pronti a infierire sulla sua persona per questo e in similibus), e scrittore di pagine tra le più belle del Novecento, aveva ventiquattro anni quando nacque il mio genitore, nel 1903. Eppure egli, come molti altri suoi coevi o più giovani, ebbe il destro per liberarsi delle bufere sociali di allora, depurando bensì il raccolto riportato dalle sue esplorazioni artistiche d’avanguardia.
Un’occasione, per la gioventù, era data dall’isola estesa su cui trovare pace e libertà: la Chiesa, la cui cittadella offriva un riparo ben munito. E le plaghe di salvamento divennero due con la guerra, specie con la Grande Guerra. Non è un paradosso. La guerra è una grande opportunità per vincere le debolezze, per affrancarsi da dubbie responsabilità, per superare la morte, per amare commilitoni, comandanti e civili, per cauterizzare le ulcere dello spirito, per avere pietà del nemico, per saltare il fosso della conversione. Bisogna leggere i diari dei cappellani, per apprendere la quantità di conversioni da essi ricevute, e di anime salvate.
Ardengo Soffici, grazie ai suoi talenti artistici, poté fare di più, poté essere luce benefica a rischiarare animi, e animi giovanili, che chiedevano soltanto l’esca per ardere e aggregarsi nei loro ardori, sino ad appiccare incendi. Vi furono fuochi di fiamme rosseggianti e fumose, ma quelle dell’artista e scrittore di Poggio a Caiano, già purificate da un naturale attaccamento alla dirittura e dalla viva misura nel raccontare, splendettero dell’italica classicità conquistata nel presente. Nella scrittura adottò lo “stile economico e sostanzioso del frammentismo il quale non ammette che l’immediatamente sentito, il sinceramente sgorgato” (Prezzolini) e lo destinò a contenuti sempre più elevati. Nella pittura approdò al figurativo guardando ai macchiaioli e a Masaccio.
Torniamo agli inizi del secolo. Dal 1900 al 1907 egli abita a Parigi, dove frequenta il crogiolo cosmopolita dell’arte pittorica e letteraria. Il suo spirito critico vi progredisce parallelamente al suo estro di pittore e scrittore. Forte delle conoscenze acquisite, giunge a discernere il vero dal finto, l’orpello dalla consona applicazione. Alieno dalle rappresentazioni artefatte come dall’esistenza artefatta, vive l’impressionismo, tocca gli estremi del cubismo e del futurismo, che tuttavia non fa mai suo, né finirà nell’astrattismo; si ritrae dalle ambiguità, dalle mere soggettività, torna alla figura. Antitetico all’accademia ottocentesca, e al decadentismo di D’Annunzio, ebbe gli strumenti per foggiare lo stile classico dell’attualità. Il bozzettismo toscano, gli esperimenti linguistici, il bagaglio di cultura accumulata in Francia: ridotti a filtri, a strumenti, per una gentile prosecuzione della migliore tradizione nostra, per farla rivivere onorandola.
Percorso lungo, talora accidentato; ma c’era la stoffa. Al suo ritorno in patria, aveva apprezzato viepiù l’essere dei suoi compaesani e concittadini, valutato il pregio dell’appartenenza alla propria gente. Intanto che ne rivalutava i caratteri, avendo imparato ad accettare le magagne dell’adamitica progenie, detestava la bassezza delle potestà sopraordinate al suo popolo. Per rivolta contro la corruzione che poteva non essere, quella dei potenti locali, specchio della politica imperante, immaginò un castigamatti, scrisse Lemmonio Boreo, l’allegro giustiziere (1911). L’autore vi riporta tratti del suo profilo. Molti hanno gridato all’immoralità, all’anarchia di uno squadrismo ante litteram, d’un raddrizzatore di torti che va spesso per le spicce con mano pesante, eludendo la legge. Costoro sono gli stessi incoerenti che godono delle imprese di Zorro e del bandito che rapina i ricchi per risarcire i poveri. Egli descrisse un paese retto sulla falsità, a pro di demagoghi in combutta con i maggiorenti. Dipinse una vita comune che non aveva futuro, inclinata a deteriorarsi, priva di un correttivo nell’ambito dei propri ordinamenti.
Giuseppe Prezzolini, nello stendere la prefazione delle sue opere, ristampate dal 1959, osserva che “Più tardi si riconobbero nel Lemmonio boreo persino gli echi delle polemiche politiche vociane: ‘evidentemente Lemmonio-Ardengo, sia pureignaro di politica, ha dovuto ispirarsi per quel suo savonaroliano ritratto dell’Italia giolittiana alle critiche implacabili degli amici de La Voce, ed un ricordo di Salvemini sembra echeggiare in quella frase ministri e deputati ascritti alla mala vita’ (Corriere della Sera, 22 giugno 1955, con allusione al libro di Salvemini pubblicato da La Voce contro Giolitti e intitolato Il Ministro della Mala Vita).
“È vero: c’era persino indicato col nome di Ghiozzi un deputato socialista popolare in Firenze che si chiamava Pascetti”.
Nel 1922 il libro ricompare e riscuote il favore del pubblico, scarso in precedenza.
In Passi tra le rovine (memorie della prima gioventù pubblicate nel 1952) l’autore rammenta: “Siccome a quel tempo io non capivo nulla di ciò che fosse politica militante, codeste manifestazioni non m’interessavano né punto né poco: mi contristavano per quel che c’era di desolazione da una parte, di tronfia menzogna dall’altra, e basta.
“Giovanni Bovio, (palesatomisi solo più tardi quale pensatore massonico e autore di un Cristo alla festa di Purim, dramma che mandava in bestia i curati), Enrico Ferri, Felice Cavallotti… ignoravo affatto che cosa costoro volessero… Ciò di cui solo mi rendevo conto era che la retorica o una prosaica volgarità dominavano in quelle concioni; e quanto a quelle folle disordinate e plaudenti, ciò che mi colpiva soprattutto era la loro miseria materiale e morale che faceva loro accettare come verità i tumidi sofismi e gl’interessati inganni di quei suoi imbonitori.
“In quegli stessi mesi ebbi lo spettacolo anche della loro ferocia e miserabilità insieme. Fu un giorno che doveva poi diventare storico: quello dei Fatti di Milano”.
Segue il racconto della sommossa scatenata dalla plebaglia fiorentina, cui egli fu presente da incauto, mettendo a repentaglio la sua incolumità.
Dopo aver collaborato a La voce, rivista di cultura poliedrica e ardita, diretta da Prezzolini e Papini, continuò la ricerca di rigenerazione culturale con Lacerba, fondata insieme a Papini. E venne la guerra. Come si era distanziato dai francesi, scegliendo la civiltà toscana e italiana, Soffici respinse il mondo germanico: oscuro e minaccioso, a prescindere dalle terre irredente rivendicate.
“Dobbiamo anche notare” scrive Prezzolini, interventista e tuttavia poco amico dei conflitti, “che in tutta la letteratura di guerra che in quel tempo escì in tanti paesi (il cui prototipo fu il celebre Nulla di nuovo sul fronte occidentale del Remarque) non ci son libri così pieni di colore, di gioia, di ottimismo come quelli di Soffici, e non soltanto Kobilek, che è un libro di vittoria, ma anche La ritirata del Friuli, che è un libro di sconfitta. Son libri che hanno il pregio, in molte pagine, dei suoi precedenti: ossia contengono delle notazioni di natura dirette, evidenti all’occhio…
“La descrizione delle masse militari e delle civili in confusa fuga, è molto più vera e bella di quella famosa in tutto il mondo di Hemingway, nel suo Addio alle armi”.
Ma la differenza tra i due uomini è dal giorno alla notte. Soffici combatté duramente, pericolosamente, soffrì le crudezze del fronte, fu ferito, ammirò il comandante che anima tutti i suoi con la sua impavida serenità; nella ritirata assai disastrosa restò sopra gli avvenimenti e in essi senza freddezza e alienazione. L’americano invece se la squagliò da disertore facendosi schermo di pretesti e sofismi.
Ma chi era per intero il nostro soggetto ce lo riferisce ancora l’ipercritico e assai incontentabile Prezzolini, citando Papini: “Ardengo Soffici non è una creatura scomponibile. Tutte le volte che mi provo a parlar di lui riscopro l’indissolubilità naturale ed ammirevole delle sue tre nature: uomo nella vita, pittore nella natura, scrittore nel vero e nella poesia. Chi vuol discorrere di lui artista, non può lasciar dapparte il poeta, il critico, l’apostolo; non già perché la sua pittura sia, come si dice, letteraria (…) ma perché ad intendere i suoi disegni nel giusto valore non si può fare a meno di risalire a quelle medesime qualità sostanziali che danno vita alla sua letteratura. Quando descrive un paese o un uomo colle parole non è soltanto poeta ma pittore, tanta è l’evidenza plastica e cromatica della descrizione…
“Sintesi e fonte di tutto è la personalità di Soffici… Sembrerebbe un’offesa lodare per l’onestà uno dei nostri simili, ma tanto rara fu sempre la rettitudine nativa rafforzata dalla consapevolezza della ragione – specialmente fra gli artisti moderni – che non si fa ingiuria a Soffici affermando ch’egli è stato ed è soprattutto, nella pienezza del prezioso significato, un gran galantuomo…
“Attraverso tutte le sue esperienze… egli ha mantenuto intatta la sua fondamentale natura di onesto ricercatore del vero e del meglio, senza mai lasciarsi tentare, neanche un giorno solo, dalle sollecitazioni ignobili degli onori, dei guadagni, delle lodi e dei compromessi. Sempre ha detto liberamente il pensier suo, senza guardare in faccia a nessuno, senza computi prudenziali delle conseguenze prossime e lontane…”
Giorgio Pisanò che, ventenne, lo conobbe nel campo di prigionia di Collescipoli (Terni), lo ricorda, con ingenuità, “grande mente e famoso scrittore, reo solo di essere stato fascista”.
3 aprile 2011