Narciso Feliciano Pelosini, Maestro Domenico, Solfanelli, Chieti 2011, p. 128, € 11
di Gianandrea de Antonellis
L’editore Solfanelli ha recentemente ripubblicato un piccolo gioiello, Maestro Domenico dello scrittore pisano Narciso Feliciano Pelosini (Calcinaia 1823 – Pistoia 1896), docente di diritto penale all’Università di Firenze, Accademico della Crusca, deputato e poi senatore del Regno. La carriera accademica e politica non gli impedì di rilevare i danni provocati dall’invasione piemontese, che compendiò nel 1871 in un grazioso racconto (che preferì pubblicare sotto pseudonimo) in cui il protagonista, il falegname Domenico che, sapendo leggere e scrivere ed insegnandolo ai ragazzi si era guadagnato l’appellativo di “maestro”, compie una gita fuori porta e si addormenta magicamente nella Toscana granducale per risvegliarsi, dopo oltre dieci anni, nel 1870 nell’Italia unita.
Per l’onest’uomo la vita sotto il Regno d’Italia è un vero e proprio inferno, fatto di prezzi altissimi, di tasse decuplicate, di regole e di multe, ma soprattutto del disprezzo nei confronti di ciò che il buon Maestro Domenico ha di più caro: il senso religioso, trasformato in «una piccolezza… un pregiudizio dei tempi antichi». È un mondo in cui «non c’è più religione, né timor di Dio», in cui le congregazioni sono non tanto abolite, quanto addirittura decadute, perché «i giovani si vergognerebbero a venire al mattutino e alla buona morte».
Niente meglio dello stupore attonito di Maestro Domenico – che non ha vissuto il pur veloce evolversi degli eventi, ma subisce lo choc della immediata consapevolezza – per comprendere quale violento mutamento sia stato imposto alla società italiana con il Risorgimento. «Proprio come ai tempi dei Francesi?» chiede stupefatto il Nostro, memore dei racconti sull’invasione giacobina del 1799 e dintorni. «Anche peggio» gli viene risposto.
Il racconto Mastro Domenico costituisce dunque un interessante contributo letterario alla causa tradizionalista con un sostanziale rifiuto dell’Unità italiana, almeno nei termini e nelle modalità con cui essa è stata realizzata: con pochi tratti Pelosini mette bene in evidenza il contrasto tra la semplicità dell’antico costume ed il materialismo dell’era unitaria, riuscendo a far intendere ai propri lettori il senso della caduta da un magnifico passato fatto di pratiche religiose, sano lavoro e culto della famiglia ad un presente che consiste in un caos organizzato, frutto di una rivoluzione in cui si intersecano furbizie e accaparramenti tra lusso e utilitarismo.
Così il racconto diventa messaggio e denuncia: vengono passati in rassegna l’oppressione del potere, la stoltezza della burocrazia, la superficialità della stampa, l’inettitudine della politica, la volgarità dei costumi, la diffamazione della religione.
Una rivoluzione apparentemente non violenta
Ma il breve romanzo si presta anche ad un’altra considerazione, estremamente attuale: la Rivoluzione spesso non è – nella sua interezza – violentemente sanguinaria. Lo è in alcune sue espressioni, ma, affinché risulti vincente, di solito cerca di raggiungere il proprio scopo attraverso una serie di piccoli atti, eventualmente supportati da qualche grande evento (magari violento e sanguinario).
Prendiamo il caso della Rivoluzione italiana, comunemente conosciuta come Risorgimento: nella sua fase finale l’atto violento (l’invasione della Sicilia da parte dei volontari garibaldini e la conseguente discesa dell’esercito piemontese – ufficialmente per soccorrere gli Stati assaliti) era stato preceduto, fu accompagnato e venne seguito da una serie di azioni, di prese di posizione culturali, di mode, di battage propagandistico, di leggi che aveva contribuito a cambiare la mentalità della popolazione e che permise di giudicare quella che era a tutti gli effetti una guerra di aggressione come una lotta popolare di liberazione.
Ciò non capita al buon maestro Domenico il quale, grazie al ventennale salto dovuto al sonno, non subisce quella lenta metamorfosi dei costumi che aveva reso indifferenti i più, ma nota immediatamente la profonda, abissale differenza tra il “mondo di ieri” e il “meraviglioso mondo nuovo”.
Tale discorso può essere applicato al principio rivoluzionario in generale e quindi a tutte le sue espressioni concrete: dal crollo della Belle époque in seguito alla prima guerra mondiale alle modificazioni liturgiche postconciliari, dai mutamenti della morale della seconda metà del Novecento alle degenerazioni artistiche di quello stesso periodo, e via enumerando.
Evidentemente non si può invertire a tavolino il corso naturale della società: le utopie sono mere astrazioni, ma si può, invece, erodere lentamente le basi di una sana struttura sociale minandole poco alla volta, oggi con una legge favorevole all’aborto (pardon, sulla “ivg”, termine asettico che non scuote le coscienze – l’uso della lingua ha un’importanza fondamentale in questo processo), domani all’eutanasia; oggi alla libera circolazione della droga e all’equiparazione dei matrimoni omosessuali, domani all’antispecismo (applicazione alla specie dell’antirazzismo, deriva estrema dell’animalismo) e al matrimonio dei sacerdoti. Il tutto corroborato da una “coscienza” dell’ineluttabilità del progresso, della modernizzazione, dell’aggiornamento.
Eppure basterebbe immaginare un nostro nonno o bisnonno fatto risvegliare in un moderno quartiere-alveare o comunque in una casa che – quali che siano state le sue condizioni economiche – non potrà non sembrargli minuscola; attorniato, anziché da camerieri o nipotini, da strani elettrodomestici di tutti i tipi; assordato dai rumori del traffico, delle radio e delle televisioni; assediato da eventi per lui inimmaginabili (uomini che si travestono da donne, politici che dichiarano i propri innaturali gusti sessuali, invertiti che marciano vantandosi della propria devianza, nudi esibiti nei giornali, nei manifesti pubblicitari, nei film e negli spettacoli teatrali, parolacce negli spettacoli per bambini…). Probabilmente il bisnonno riterrebbe di stare assistendo ad un sogno, anzi ad un incubo, ed il suo stupore sarebbe ben maggiore di quello del maestro Domenico.
Noi, invece, suoi nipoti, riusciamo a vivere tutto questo con assoluta, incosciente accettazione.
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