UNO SCRITTORE MISTICO – di Piero Nicola

di Piero Nicola

 

 

Adesso più che mai, allorché si sente d’un narratore cattolico, anche troppi cattolici, tendenti a separare l’arte e la scienza dalla Religione, lo giudicano limitato, condizionato, moralista, quando invece è l’opposto. Circa il pensiero, lo scrittore non cattolico si priva di un dato essenziale della realtà: il soprannaturale presente in essa conformemente alla Provvidenza per noi assai misteriosa, e secondo certi fenomeni che non possono essere sempre attribuiti ad agenti e processi naturali, ma possono, e talvolta devono, consistere in effetti miracolosi o diabolici.

Fedele a questo assunto, Nicola Lisi, sia attenendosi a fatti concreti giunti a sua conoscenza o immaginati, oppure autobiografici, sia che egli si dia alla fantasia che immagina interventi di angeli o parabole con animali e cose parlanti, ci immette in un mondo spirituale posto tra natura e trascendente, il quale è il vero mondo dell’anima.

Però uno spiritualista dedito a simili rappresentazioni occorre sia cattolico, e cattolico ortodosso. E Lisi lo è.

Quale letteratura d’invenzione, mistica e irreprensibile, non partorita dalla mente d’un santo, ci è dato rinvenire nelle nostre lettere contemporanee? Se prescindo da Alfredo Orbetello (Frati Minori, 1955, un altro, assai ignoto, fuoriclasse nella resa del rapporto tra visibile e invisibile), a meno di non rivolgersi a questo fiorentino nato a Scarperia nel 1893, spirato a Firenze nel 1975, si resta senza alternativa. Egli ci induce a considerare come sovente, anziché il caso, le coincidenze, le cause naturali, altro determini gli eventi sorprendenti, meravigliosi, felici o disgraziati. Egli li narra in un’atmosfera rarefatta, pacifica, pianamente drammatica, dove alla fatalità e a certe leggi fisiche si sostituisce Dio e tutto il suo regno, dando piena soddisfazione agli eterni interrogativi. Le brutture dell’esistenza non sono escluse – per quanto, non di rado, egli tratti di situazioni e momenti incontaminati o preservati dall’attacco del nemico, che pure esistono – ma il male è accettabile nell’accettazione dell’umana peccabilità; esso silisistempera nell’immancabile giustizia divina che, se non la conosciamo nella sua perfezione, è tuttavia comprensibile, compresa nelle esperienze religiose e nel contatto col Creato, donde sorge l’amore per le creature, per la meravigliosa vicenda delle stagioni, per le meraviglie del cielo. Tutto ha spiegazione: nessuna assurdità, nessuna ingiustizia, nessuna impossibilità di soluzione e di riscatto. Se poi il demonio è sempre in azione, il Lisi predilige vederne la sconfitta, carezza i buoni, privilegia le vicende delle anime elette, di frati e romiti, le contemplazioni, che sono connaturate alla sua mitezza, meglio, alla sua aspirazione alla mitezza, giacché egli si confessa inquieto per le sue debolezze.

Le fasi della produzione di Nicola Lisi, pur somigliandosi, hanno tono e oggetto variato. Nel Paese dell’anima (1934) l’ispirazione appare maggiormente pura, l’unità del clima mistico risulta più intima e compiuta; analogamente a quanto avverrà col Diario di un parroco di campagna (1942). Lo stile, d’aspetto dimesso, spiana le visioni, gli apologhi, in una semplicità quasi banale, con chiuse spesso inaspettatamente indifferenti. Angeli e portenti scesi dall’alto quasi gratuitamente, sono qua e là inframmezzati da crudeltà di bambini inferte alle bestiole, da minacce di animali che incutono angosce, da richieste di trapassati che implorano suffragi per uscire dal Purgatorio.

Fantasie sobrie, pacate, pie, suscitano sentimenti di pietosa e pensosa dolcezza. Per la sete di vita terrena, il fantasma di una giovane suicida compare a sua madre. Il prete le consiglia di pregare per lei. E si rivela la dannazione della ragazza. Abbandono e malattia della povera donna, cui appare la Vergine. Visione della figlia bambina innocente, prima che ella renda l’anima. – Lite con un ladro e sua uccisione. L’omicida seppellisce il morto nella propria vigna. Questi gli riappare. Egli pianta una croce sulla fossa, e cerca di nasconderla. Torna l’apparizione del defunto, che lo ringrazia del bene ricevuto, e l’uccisore viene trovato morto con quella croce addosso.

Dopo i Racconti seguono i Dialoghi. Negli uni e negli altri ricorre una strada lunga, diritta, in salita in un ambiente idillico. Un abete si lamenta d’un assassino che gli torce i rami, fra i quali l’uomo si è nascosto. Viene l’angelo riparatore della natura oltraggiata: “L’estrema musicalità della sua voce e l’assoluta bellezza della sua figura han composto un sereno incanto, privo d’ogni trattenuta ansietà, nel quale vivono ora, come se fosse un nuovo elemento di respiro, tutte le creature del prato”. – L’Addolorata apparsa a un afflitto incredulo: “Considera invece il privilegio di cui godi: sei al piede della scala delle pene, la quale per amor mio e per il tuo bene devi salire. Se mi ubbidisci mi vedrai tra poco in tutt’altro modo”.

Quasi tutte le novelle de L’arca dei semplici (1938) e di Concerto domenicale (1941) vennero raccolte in un volume di Racconti (1961). Si tratta di quadri e quadretti maggiormente realistici, di ambientazione paesana, animati da villici e provinciali. Un giovanotto s’innamora d’una forestiera bellissima, che parte anzitempo. Avviene un fatto che saprebbe di feticismo. Egli è riuscito a impossessarsi delle calze della sconosciuta. L’oggetto di vestiario infilato in una gamba di manichino da vetrina non fa che dare vivezza alla persona assente, al bel ricordo. Le sorelle dell’idolatra scoprono la reliquia e la seppelliscono nel giardino. Il giovane, intuito il significato del loro gesto, ne ride, ormai pago del suo sogno. – Una vacca che usa bagnarsi in uno stagno per riacquistare la salute, attira i pesci. Il padrone intende usarla per la pesca; le attacca ami alle corna ed alla coda. La bestia coi pesci già appesi alle lenze si ribella, entra nel fiume e va con la corrente sino a perdersi in mare.

Gli episodi del Diario di un parroco di campagna (che ebbe il suo momento di buona notorietà) non sono meramente inventati. Egli conobbe il curato, e prese consiglio da lui per comporre il libro. In uno dei casi occorsigli, il protagonista viene richiesto di esorcizzare lo spirito maligno che possiede una ragazza avvenente. Egli consiglia i parenti di rivolgersi a un esorcista, ma, incalzato dalle circostanze, si induce a intervenire. “Con l’aspersorio innalzato, avanzai in punta di piedi verso il calessino. Mi ero prefisso che avrei data la benedizione allorché fossi giunto al mozzo della ruota. Ma non avevo ben considerato le possibilità conoscitive di un demonio, fosse pure celato in corpo umano. La donna, senza che facesse un movimento, prese a bestemmiare, con voce continuativa, indifferente (…) Lo straordinario era che non ripigliava nemmen fiato e che le pronunciava intelligibili pur avendo in bocca il ramoscello (…) Attesi dunque, contrapponendo mentalmente giaculatorie alle bestemmie.

“Ravvisai nella stanchezza della donna la sopraggiunta stanchezza del demonio, poiché ella si sedette sul calesse (…) Non so se fu combinazione: udii un eccitato canto degli uccelli (…) e, insieme, dalla bocca della donna, un impreciso bisbiglio seguito da un alternarsi di sospiri con respiri. La bagnai d’acqua santa sopra il dorso.

“Si alzò, fece un urlo e scese già dal calessino (…) Capii che con la benedizione avevo raggiunto l’efficacia soltanto di uno scotimento. Camminava strisciando la mano sulla stanga, come se avesse avuto bisogno di sorreggersi. Era quella una finta del maligno (…) prese in mano il ramoscello e lo portò alla bocca del cavallo. Gridai al vetturale che lo strappasse di tra i denti della bestia, mentre (…) diedi alla donna, e questa volta in piena faccia, ancora la benedizione.

“Il vetturale fece un balzo, s’impadronì del ramoscello e me lo porse (…) Risolsi che non appena fossi rimasto solo ne avrei fatto un falò con della paglia. Stavo per posarlo sopra lo scalino, quando la donna alzò da terra il candeliere e, all’uso che mi ero proposto mentalmente, me lo porse. Ebbi quindi una riprova della sua temporanea o definitiva liberazione dal demonio (…) La guardai bene in faccia per la prima volta, e così mi accorsi che era di angelica bellezza”.

Dal 1916 al 1918 Nicola Lisi serve sotto le armi sui campi di battaglia. Nel 1923 fonda con Bargellini e Betocchi il Calendario dei pensieri e delle pratiche solari, che poi diventa Il Frontespizio, cui collabora fino al 1940. Nel 1946 pubblica Amore e desolazione, un diario personale che va dal gennaio al luglio 1944. Riflessioni, scorci di vissuto, ricordi, sogni notturni, note di cronaca, vite spezzate dolorosamente, gesti francescani, dove la trasparenza della scrittura si perde un poco, forse per le ansie dovute ai bombardamenti e ad armi da fuoco in agguato e omicide, che precedono l’arrivo dell’esercito alleato. Egli riprende l’emblematico abbraccio avvenuto tra S. Francesco e S. Domenico, sebbene propenda per l’amore verso le creature piuttosto che per la carità della dottrina; riprende l’amore carnale come impulso impuro ma emendabile e da servire all’amore spirituale, attraverso un prototipo di donna amata, quasi una Beatrice. Tra le sue conoscenze di religiosi, compare un solo frate freddo e stizzoso e, altrove, un solo prete avaro.

Non si può essere del suo avviso quando, secondando il suo essere uomo pacifico, che rifugge da ogni violenza anche istintiva degli animali, concepisce una società pacificata stabilmente, degna d’un dolce regime legale venuto ad instaurarsi; come se la guerra, cominciata per colpa o per giustizia, sia superabile, archiviabile.

In occasione di un triduo fatto alla Santissima Annunziata per chiedere la pace, “Ne dedurrei” egli dice, “che per questo miracolo della fine della guerra, Iddio sarebbe costretto ad intervenire in modo sì violento che, per la cecità e transitorietà della nostra percezione intellettuale e sensitiva, sarebbe causa di uno sconquasso ancor più terribile della guerra stessa”. Ammesso che Dio voglia retribuire il merito insufficiente di un popolo indegno, per castigarlo diversamente, il guaio è che il Lisi si aspetta di meglio dalla prosecuzione del conflitto così come esso evolve e va a parare. “Propendo quindi nel credere che una assai più efficace preghiera sarebbe quella che mirasse non già ad ottenere la pace esterna; ma bensì la pace interna, la nostra pace (…) la guerra si spengerebbe come fiamma che, dal basso, non tragga più alimento”. Siamo all’utopia.

“A chi osservasse (…) che un popolo della mia fatta sarebbe un popolo di servi, risponderei che in tutto il mondo relativamente pochi sono coloro che nei confronti delle armi provano la mia inibizione, e che avremmo, in definitiva, pace e giustizia se lo sparso lievito fermentasse”.

Un simile animo dovette fargli desiderare la fine di Mussolini, e un regime addolcito, scevro da violenze; dimenticando le lotte sempre intraprese dalla Chiesa stessa contro gli apportatori del male, per la difesa del gregge e l’espansione del Verbo. Sicché una violenza delle potestà è ineliminabile, di quelle potestà citate da San Paolo, quando dice che esse, concesse da Dio, proteggono gli inermi dai malfattori, e per questo vanno rispettate. Non è dunque l’uso della forza condannabile, ma il suo cattivo uso responsabile.

Nel 1949 il bravo Lisi ha terminato di scrivere La nuova Tebaide, che è tutta religiosità, un paese di grazia che coinvolge anche fiori, piante, animali; tutta armonie celestiali scese quaggiù; con seguito finale di monaci di ogni ordine religioso nelle loro quotidiane vicende spirituali.

La faccia della terra (1960) non aggiunge nulla di nuovo e di migliore.

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