VATICANO II. 50 ANNI DOPO, DI DON ENRICO FINOTTI – recensione di Armando Savini

di Armando Savini

 

 

ffcDon Enrico Finotti, parroco di Rovereto e curatore della rivista Liturgia « Culmen et Fons», dopo il successo de “La centralità della Liturgia nella storia della salvezza. Le sorti dell’uomo e del mondo tra il primato della Liturgia e il suo crollo”, edito dalle pregiate edizioni Fede & Cultura, ritorna con un volume di grande attualità, legato al tema del Concilio Vaticano II. Si tratta di un vero e proprio manuale per comprendere il Vaticano II, la sua storia, i suoi testi, le linee guida dei Papi, ma anche la crisi, in particolar modo liturgica, che ha avvolto la Chiesa dopo l’evento conciliare. Un testo che dovrebbero leggere in particolare vescovi e sacerdoti per riscoprire la bellezza del Magistero della Chiesa e la loro chiamata al sacerdozio.

Il libro non ha alcuna pretesa scientifica, ma piuttosto catechistica, tesa cioè, nel quadro di ampi stralci del magistero, soprattutto dei papi Paolo VI e Benedetto XVI – alcuni ormai lontani nel tempo o letti da pochi e in modo superficiale –, a fornire una essenziale base di principi teologici coerenti e indispensabili per la formazione dottrinale dei fedeli e la seguente impostazione pastorale dell’attuale vita della Chiesa”.

In linea con l’ermeneutica della continuità indicata da Benedetto XVI, l’autore, citando per lo più testi del Magistero, come anche di eminenti personalità ecclesiastiche, dimostra che leggere gli atti del Concilio Vaticano II nel solco della Tradizione non solo è possibile, ma doveroso, in quanto le indicazioni date da Paolo VI fino a Benedetto XVI non lasciano spazio a interpretazioni eterodosse. Di qui, l’abbondante letteratura riportata sia nel testo che in nota.

Nella prima parte del volume, l’Autore presenta il Concilio come atto del supremo magistero e mostra la sua continuità sostanziale con i venti precedenti, ma soprattutto il completamento dottrinale con il Concilio Vaticano I, ritenendo “come non sia possibile ritenere il Concilio Vaticano II come un Concilio di esclusiva natura pastorale, ma come il suo carattere dottrinale sia invece inconfutabile”. A sostegno di ciò, il Nostro riporta il discorso inaugurale – da molti dimenticato – di Paolo VI: “E noi crediamo che in questo Concilio ecumenico lo Spirito di verità accenda nel corpo docente della Chiesa una luce più radiosa e ispiri una più completa dottrina sulla natura della Chiesa, in modo che la Sposa di Cristo in lui si rispecchi ed in lui, con vivacissimo amore, voglia scoprire la sua propria forma, quella bellezza, ch’egli vuole in lei risplendente”.

L’analisi si sposta, poi, su quello che è stato definito il paraconcilio (o in altri contesti chiamato postconcilio), inteso come l’insieme di “tutte quelle opinioni, ‘teologie’, costumi, modi di celebrare, tendenze di pensiero, moduli pastorali, orientamenti e scelte politiche, ecc. che in questi cinquant’anni di postconcilio, hanno avuto la pretesa di porsi come autentiche letture ed espressioni del Vaticano II, ma che in realtà furono scelte di parte e sensibilità culturali passeggere, non volute, né avvallate dal Concilio [..] Alla base del paraconcilio vi è la sfiducia e il sospetto nei confronti del magistero della Chiesa, l’abbandono sistematico dei documenti magisteriali del Papa, della Santa Sede e dei Vescovi, che hanno pilotato costantemente con diversi livelli di autorità la graduale attuazione dei documenti conciliari”.

Il “culto del sociologico”, l’abuso dei principi del dialogo, dell’aggiornamento e apertura al mondo, “il taglio sociologico della fede, stimolato certamente dalle filosofie e prassi politiche ateiste e terreniste”, come anche  “il concetto riduttivo di popolo di Dio” sono alcuni tra i fattori di crisi nella Chiesa. In modo particolare, poi, la crisi liturgica avrebbe dato il colpo di grazia. “La crisi dell’aspetto trascendente del culto (ad Deum) e la sua unilaterale accentuazione nell’aspetto psicologico-sociologico (ad hominem) ha portato con sé anche la crisi della dimensione ascetica della vita cristiana, e quindi della vita consacrata, soprattutto contemplativa, e l’oscuramento della dimensione escatologica, con la sua più radicale manifestazione, il celibato consacrato, sia dei religiosi sia dei chierici. Nell’analisi di Finotti, emerge anche un altro aspetto determinante: il culto idolatrico del principio di inculturazione, che avrebbe trasformato la liturgia teocentrica in liturgia antropocentrica. “Anche se a parole si afferma la centralità di Dio e di lui si parla, in realtà il modo di condurre la celebrazione e i frequenti interventi e aggiunte soggettive creano il senso di un eccessivo protagonismo umano dei ministri e dei gruppi volta a volta operanti”.

All’autore va sicuramente tributato il merito di aver evidenziato la sostanziale differenza tra l’antropocentrismo del paraconcilio e l’antropologia del Concilio Vaticano II. Il primo si presenta come un antropocentrismo materialista, che non trae le sue origini nei testi del Concilio, ma dal “contro-spirito” (o Gegengeist, come lo definì l’allora card. Ratzinger) di un paraconcilio privo di basi metafisiche. Diversamente, l’antropologia del Concilio è un antropocentrismo aperto al trascendente, che mette al centro l’Uomo secondo il progetto di Dio, come anche delineato da Giovanni Paolo II nella Redemptor Hominis. “L’attenzione all’uomo e alla sua situazione esistenziale è stata offerta magistralmente dalla Costituzione Gaudium et spes, la quale ha proclamato la necessaria comprensione dell’uomo e della storia in coerenza con il mistero dell’Incarnazione. Tuttavia una sua lettura isolata dal panorama globale della dottrina conciliare ed ecclesiale, in cui è affermato il primato di Dio, ha portato a quelle accentuazioni di cui oggi sentiamo le conseguenze. Il riferimento a uno ‘spirito’ della Gaudium et spes, slegato dalla lettera, soprattutto della sua parte dottrinale (I parte), ha portato a un’apertura al mondo talvolta ingenua e a una laicizzazione acritica e difforme dall’intento stesso del documento conciliare”.

Secondo l’autore, le cause del paraconcilio possono rinvenirsi, non tanto nelle persone e nelle correnti (e qui, forse, si scorgono i limiti della sua analisi), bensì nell’aberrazione delle due formae mentis che hanno plasmato il Concilio: la discussione e la pastorale. “La discussione esorbitò dai suoi legittimi argini e divenne discussione su tutto da parte di tutti. [..] Mettere tutto in discussione e che tutti abbiano titolo a discutere di tutto è un modus operandi tipico della mentalità paraconciliare, nato nell’immediato postconcilio e tuttora in auge” per cui “ogni ricorso al principio di autorità, come riferimento al magistero della Chiesa o anche quello delle Scrittura, è sospetto”. Per quanto riguarda la pastorale postconciliare, essa si separò dall’orizzonte metafisico con la crisi dell’adorazione, con il crollo della liturgia. “Anziché tenere in indissolubile unità i due termini a quo (il mistero di Dio) e ad quem (l’uomo che ne è destinatario) si perse il primo termine e, immersi nella ricerca dell’uomo, si oscurò l’orizzonte di Dio. [..] Qui sta la radice della pastorale debilitata dal suo fine soprannaturale e intrappolata nel contingente. Così in essa l’opinione è più importante della verità, il senso religioso naturale più del sacramento, le esigenze esistenziali più della legge naturale eterna. L’evangelizzatore, partito con il Cristo e il suo Vangelo nel bagaglio, si ritrova col bagaglio colmo dei problemi degli uomini, ma vuoto di Cristo e del suo mistero”.

Nella seconda parte dell’opera, Finotti dimostra la centralità della liturgia nel Concilio Vaticano II per poi fare un’attenta analisi della crisi postconciliare della liturgia stessa, indicando gli abusi (la santa Comunione sulla mano e l’assenza dell’atto di adorazione, l’offertorio creativo organizzato dai laici, la preghiera universale divenuta preghiera dei soli fedeli in contrapposizione al clero, la desacralizzazione dell’altare e della stessa liturgia a fronte dell’estro di preti e laici un po’ fantasiosi, etc) e le responsabilità di sacerdoti troppo accomodanti e vescovi poco vigilanti. Dopo una riflessione sul Beato Rosmini e l’accoglienza dell’indizione dell’Anno della fede da parte di Benedetto XVI, l’autore guarda con speranza “a Pietro, che vive nei suoi successori, i Vescovi di Roma. Proprio perché fu così estesa e protratta la defezione dal magistero della Chiesa e incrinata quell’adorazione che negò a Dio la necessaria e filiale obbedienza, sarà necessario non perdere ancora inutilmente il nostro tempo e le nostre energie e ritornare con fiducia e convinzione al luogo che Dio ha scelto, cioè alla Sede Apostolica, maestra di tutti i fedeli. Su quella base, su cui poggia la forza e la solidità di tutta la Chiesa, il Concilio risplenderà di nuova luce e la sua lettera sarà compresa nello spirito più autentico per ritrovare nella verità e non nelle opinioni quella unità e comunione che oggi è necessaria per annunziare con efficacia Cristo a tutte le genti, e ancor prima far sì che non si estingua il senso stesso di Dio nel mondo intero”.


– Finotti E. (2012) Vaticano II. 50 anni dopo, Fede & Cultura, Verona.  – clicca sull’immagine di copertina

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