di Piero Vassallo
Vito Mancuso, avventuroso teologo appartenente alla radunata dei pensatori, che l’acrobatico don Verzé e il desolato professor Cacciari hanno allestito nell’Università “San Raffaele”, sfoggiò i più logori argomenti della sofistica crepuscolare al fine di sbalordire i lettori del settimanale “Panorama” svelando le presunte contraddizioni e le immaginarie incongruenze contenute dal Catechismo pubblicato da Benedetto XVI.
Purtroppo l’articolo che l’impetuoso teologo pubblicò nel numero di “Panorama” datato 7 luglio2005, non fu altro che un affannoso e ingannevole giro di parole (e di tavolette) intorno alla bimillenaria domanda sul male – si est Deus unde malum? – per mezzo della quale gnostici e manichei si erano illusi di confutare e umiliare la fede cristiana.
Trascinato dalle fumose suggestioni di Hans Jonas intorno alla morte di Dio ad Auschwitz, Mancuso sostenne, infatti, che la teologia non è più capace di comporre la bontà di Dio con la sua onnipotenza: “Oggi è impossibile comporre i due tradizionali volti di Dio: il reggitore del mondo e l’Amore. Il Novecento ha rappresentato un mondo segnato dal dolore, opposto a quello governato con amore dall’alto”.
Di conseguenza l’inflessibile pensatore si ritiene autorizzato a montare in cattedra, bacchetta in pugno, per impartire una lezione intesa a correggere ed aggiornare il Catechismo del Papa: “L’aderenza al vero suggerirebbe che se ne prendesse atto. In non farlo espone il Catechismo a una serie di obiezioni piuttosto forti alle quali il testo non dà risposta”.
Le obiezioni forti, secondo il debole pensatore, verrebbero dalla lettura critica di due articoli del Catechismo, il 57 (“Dio non è in alcun modo, né direttamente né indirettamente, la causa del male”) e il 58 (“Dio non permetterebbe il male se dallo stesso male non traesse il bene”).
La lettura critica proposta autorizzerebbe a concludere che il Catechismo cade in puerile contraddizione, ora negando ora affermando che Dio è causa del male.
Se non che l’affermazione dell’articolo 58, secondo cui Dio non permetterebbe il male, se non fosse capace di trarre il bene dallo stesso male, non contraddice ma conferma quel che è detto nell’articolo 57, secondo cui Dio è innocente.
I due articoli in questione non pretendono di dare una risposta alla domanda sulle misteriose e insondabili ragioni ultime di Dio, ma affermano la bontà divina così come può essere compresa dalla limitata intelligenza umana.
In altre parole: gli articoli 57 e 58 fanno parte della teodicea, la “giustificazione razionale di Dio”, e perciò non pretendono di svelare ultimamente il mistero del male.
Il magistero cattolico, interpretato con rigore dal catechismo, ha sempre respinto le pretese soluzioni filosofiche al problema del male.
Al proposito scriveva padre Cornelio Fabro: ”Il problema del male non ammette alcuna soluzione puramente filosofica: le soluzioni che ne hanno dato i vari sistemi, ottimisti e pessimisti che siano, sono semplici invenzioni di un deus ex machina che non significano nulla per l’uomo esistente, anzi l’offendono” (Cfr.: “Riflessioni sulla libertà, Edivi, Segni 2004, pag. 327).
Maritain ad esempio, propone una soluzione che nel male contempla una novità non prevista da Dio.
La novità sembra mettere in discussione l’onniscienza e di Dio: “L’opera di Dio corre dei rischi, dei rischi reali, perché il dramma non è soltanto rappresentato, ma realmente vissuto … (le azioni dei malvagi) stupiscono l’autore stesso del dramma, nel senso che se egli conosce nella sua scienza di semplice intelligenza tutto il male possibile, non è però lui, ma la creatura che inventa il male esistente e in tale invenzione va al di là d’ogni attesa” [1].
Ora il ragionamento di Mancuso con un piede sosta sull’inganno che attribuisce al Novecento la scoperta dell’antichissimo problema del male, con l’altro piede si distende sulla confusione di teologia dogmatica e filosofia.
La natura argillosa del primo piede messo avanti da Mancuso si dimostra ricordando, appunto, che il tormentoso problema del male non è una scoperta del Novecento ma l’oggetto di dispute che accompagnano la storia della metafisica occidentale fino al punto morto segnato da quella disputa sul “migliore dei mondi possibili” che oppose l’esorbitanza del pensiero di Leibniz all’irridente ma disperato scetticismo di Voltaire.
Il fatto è che la metafisica occidentale, grazie al genio di San Tommaso d’Aquino, si era elevata alla dottrina dell’atto d’essere, sintesi della nozione platonica di partecipazione e della dottrina aristotelica intorno alla potenza e all’atto.
La geniale sintesi dell’Angelico ha consentito il passaggio della metafisica attraverso la cruna dell’ontologia di Parmenide. Posta su retta via, la chiusa ontologia di Parmenide si apriva al soprannaturale e diventava idonea a dimostrare il raccoglimento in Dio di tutte le perfezioni, a cominciare dalla onnipotenza e dalla bontà.
Se non che la mente umana può riposare sulla dimostrazione della perfettissima divinità solo a patto di rinunciare alla soluzione del mistero che avvolge la volontà del Dio, che ha creato un Adamo defettibile quando poteva creare un’umanità libera e impeccabile. La consapevolezza che la metafisica razionale può sopravvivere solo rinunciando alla pretesa di svelare il mistero, infatti, giustifica l’audacissima e geniale scelta di Cornelio Fabro, il filosofo che ha dimostrato come sia possibile sottrarre le verità della metafisica alla devastazione del dubbio e dell’angoscia valendosi della mistica dell’abbandono assoluto, con la quale Kierkegaard si era opposto alle mezze misure della teologia conformista dell’Ottocento liberale.
Fabro, dopo aver restaurato il tomismo, ne ha affidato la tutela alle intuizioni kierkegaardiane sulla integralità della religione: “Colui che non si mette in rapporto con Dio nel modo dell’abbandono assoluto, non si mette in rapporto con Dio. Rispetto a Dio non ci si può mettere in rapporto fino ad un certo punto, poiché Dio è proprio la negazione di tutto ciò che è fino ad un certo punto” (Citato da Fabro,”considerazioni sulla libertà”, op. cit., pag. 311).
Nell’esporre la sua tesi, Fabro ricorda che l’esempio più luminoso di abbandono dell’anima in Dio è stato, per Kierkegaard come per la pietà cattolica, la Madre di Dio, la Vergine Maria.
La fede di Maria, osserva infatti Kierkegaard, è unita con vincolo indissolubile all’accettazione del paradosso: “Certamente Maria mise al mondo il Bambino in modo miracoloso; ma la cosa tuttavia avvenne in lei al modo delle altre donne, e questo fu un tempo di angoscia, di sofferenza, di paradosso”.
Solo il perfetto, eroico abbandono al mistero di Dio, solo la ripetizione del ”fiat” di Maria, può infatti salvare le luminose conquiste della metafisica dalle minacce avanzate e dalla tracotanza (ultra – cogitare) di Leibniz e dal funesto scetticismo di Voltaire.
In questa prospettiva si comprende perché la crisi della metafisica e la sua caduta nel nichilismo non hanno inizio dalle superabili (e superate) obiezioni di Kant ma, per un verso, dalla pretesa leibniziana di risolvere il mistero mediante la insostenibile tesi sul “migliore dei mondi possibili”, per l’altro dall’intento volterriano di affondare la ragione nelle e grottesche avventure e nei volgari lazzi del “Candide”.
E’ illegittimo per non dire ridicolo ritenere che Benedetto XVI ignori tali precedenti ed è assurdo sospettare che cada vittima degli errori banali che gli attribuisce Mancuso. Più arduo ancora è ritenere addirittura che abbia inteso nasconderli tra le righe trasparenti del catechismo.
La verità è che il magistero cattolico non ha mai assecondato l’incontinente desiderio di dirimere il mistero del male. Pretesa che invece animava i pensatori moderni che furono tormentati e fuorviati dalla replicante suggestione gnostica: Dostoevskij, Bonhoeffer, Turoldo, Quinzio. Purtroppo sono questi i testimoni che Mancuso chiama in causa nell’intento di confutare il papa. Se non che i testimoni citati per avvalorare le accusa al Catechismo di Benedetto XVI non hanno rapporto alcuno con la verità cattolica e con il buon senso.
[1] Dieu et la permission du mal, II, 6.
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