Volontariato e ONG: legge dello Stato, sentimenti e artifici “umanitari” – di Marco Toti

Il ministro dei conti pubblici francese con competenza sulle dogane, Gérald Darmanin, si dice “dispiaciuto per il malinteso”. Parla di un “incidente increscioso, ma i doganieri hanno fatto il proprio lavoro”, e si dichiara “pronto, se serve, a rivedere le intese”.

I fatti di Bardonecchia, come è noto, hanno recentemente prodotto un caso diplomatico: la stazione ferroviaria della cittadina frontaliera è infatti presidiata dall’ennesima consorteria di benefattori (“Rainbow4Africa”, già il nome, nella forma e nel significato, fa venire l’orticaria): “operatori umanitari”, appoggiati da “mediatori culturali” e dagli immancabili avvocati, esperti nell’arte del cavillo. Incredibile a dirsi, ma questa è la realtà: mentre la polizia italiana risulta inoperante (una stazione ceduta in concessione dal comune ad una ONG?), quella francese “ha costretto un migrante a sottoporsi ad una analisi delle urine”: una chiara, inammissibile violazione della dignità umana nei confronti di un povero nigeriano, che peraltro ha accettato di sottoporsi al test, ma non sul treno che lo avrebbe condotto in Italia, quindi a terra: forzosamente, in Italia (era sospettato di portare droga in corpo, quindi eventualmente pericoloso: poi risulterà negativo al test). L’Italia, dunque, persevera nel non difendere e/o presidiare i propri confini, le ONG possono fare il bello e il cattivo tempo, oltre ad indignarsi per conto terzi e blaterare (loro!) di “ingerenza”: trasformandosi ora, con una paradossale giravolta, in una sorta di movimento “sovranista”. Cinque agenti francesi che fanno, indirettamente, l’interesse italiano – magari in forme non da galateo, ma qui siamo nella giungla e qualcuno pretende che ci si comporti come a un ballo a corte – determinano un caso diplomatico, mentre i corpi franchi delle ONG hanno piena libertà di azione e movimento: anche, spesso, contro la legge dello stato in cui esse operano, che non prevede affatto, in primo luogo, di “salvare vite umane” (una petizione di principio troppo vaga e moralistica per essere considerata degna di considerazione, a maggior ragione in “stato di necessità”), ma di difendere i propri cittadini.

Oggi, dietro la facciata dei buoni sentimenti  si annidano pericoli esiziali per quel che resta della civiltà europea. Non stiamo facendo un processo alle intenzioni. Senza dubbio, moltissime persone si impegnano nel volontariato e nelle ONG senza secondi fini: retaggio, questo, di un Cristianesimo ormai ridotto allo stato residuale, oltre che spesso inconsapevole. I problemi non sono pochi: uno, tra l’altro, è “di metodo”, potremmo dire. Esso riguarda, per l’appunto, il ruolo dello Stato: se esistono, su larga scala, approvate ed anche ben finanziate, organizzazioni di volontariato e ONG, significa che lo Stato non fa ciò che dovrebbe. Come nel caso del “reddito di cittadinanza”, si può ammettere un tale stato di cose nel caso di una emergenza: non come norma. Servono lavoro e ordine. Non è un caso che oggi, sempre più spesso, si parli di “governance”, che non significa “governo”, ma “amministrazione”: e chi amministra, lo fa per conto di altri. Sarebbe interessante capire chi sono questi “altri”, che parrebbero agenti non del tutto disinteressati, stranamente vicini, nei toni, nei contenuti e nell’agire, all’attuale pontefice.

Il volontariato, lo abbiamo constatato noi stessi, può essere una fuga, o un modo per “lavarsi la coscienza” : abbiamo conosciuto volontari con la mamma a letto, a casa, da sola. D’altra parte, la parola d’ordine delle ONG, ad esempio, è “salvare vite umane”, tramite l’”accoglienza”: due slogan che ben attecchiscono nell’immaginario collettivo, su di un piano talmente profondo che non si possono mettere in discussione. Il termine “accoglienza” lo vediamo ben esposto nelle banche, negli uffici pubblici, negli ospedali. Bergoglio, tra gli altri, ne parla in continuazione.

Ma le leggi dello Stato, prima che “salvare vite umane”, hanno il supremo imperativo del bene dei cittadini di quello stesso stato; allo stesso la Chiesa dovrebbe avere a cuore, sommamente, la “salute delle anime”. La cittadinanza non è un bene fungibile, né un titolo meramente burocratico o formalistico, che si può conseguire sostenendo esame di italiano o con la semplice occupazione del suolo italico per un dato numero di anni. Essa costituisce un valore, quantomeno, profondamente “culturale”. I confini, fisici, culturali, sociali, politici e religiosi sono assolutamente necessari: sono vincoli che introiettano chiarezza.

Ora, un conto è essere cittadini (titolari cioè di pieni diritti, a parte chi li perde, ad esempio per esser stato giudicato colpevole di un delitto), un conto immigrati ospiti, un conto profughi, un conto clandestini. Checché ne dica un qualsiasi mediocre scriba come Formigli, o l’attuale, volutamente confusionario pontefice. Il reato di clandestinità esiste, anzitutto per una questione di ordine pubblico: anche se poco viene applicato, un po’ per correttezza politica, un po’ per beota tolleranza, un po’ per inefficienza; e se viene applicato, spesso lo è in modo kafkiano. Inoltre, se entrassero dieci milioni di profughi, l’Italia sarebbe obbligata a “accoglierli” tutti? Ovviamente, no: l’interesse nazionale – espressione che suona oggi quasi minacciosa, mentre è la prima legge, in quanto tale non scritta, dello Stato – ne verrebbe esizialmente danneggiato. Un cittadino comunitario è obbligato ad esibire i propri documenti di identificazione, se desidera entrare in un paese UE: e ciò, per una regola di buon senso su cui non vale neanche la pena soffermarsi troppo. Altri possono entrare più o meno liberamente senza fare nulla di tutto questo, rifiutandosi anche di fornire le proprie impronte digitali.

Tra l’altro, se l’Occidente ha delle colpe (guerre scatenate in modo iniquo, ed a lungo termine forse anche irrazionale, dal proprio punto di vista: a meno che la strategia non soggiaccia ad imperativi “caotici”), queste non possono essere certo fatte ricadere sul cittadino incolpevole ed inerme: che anzi andrebbe tutelato (dall’invasione potenziale e contro l’invasione reale). Da quando in qua il moralismo (dietro cui spesso vi sono precisi interessi economici e “globali”, su cui la stessa magistratura italiana sta indagando, tra mille ostacoli) viene prima della politica?

È anche interessante notare come dietro la retorica dei buoni sentimenti si celino (non sempre in modo invisibile) precise tecniche e “procedure”. Quelle, ad esempio, che “impongono”, non si sa per quale imperativo morale o anche solo logistico, a scaricare i cosiddetti “migranti” tutti in Italia, Paese peraltro non proprio in salute: quando i porti più vicini alla Libia – da dove queste masse informi partono in numero spesso enorme – sono ben altri. Sentimentalismo e proceduralismo vanno spesso insieme, quindi: costituendo le due facce di una medesima medaglia, in un impasto “culturale”artificioso, in quanto sommamente ingannevole, e cui difficilmente ci si può opporre, anche solo sul piano della “dialettica” delle parole.

Non si possono non salvare le vite umane: detta così, chi potrebbe negarlo? Chi si oppone a questa regola generale (e vaga) è un mostro, un nazista, uno “xenofobo. La guerra delle parole, fondamentale, è perduta: la neolingua stupra il buon senso. Ma la paura implica, per lo meno, l’esistenza di uno “slancio vitale”, volto alla conservazione di quel che resta di sé (che va sempre difeso, anche se si è su posizioni di estrema debolezza); e si deve anche tenere conto dei due valori di “bene supremo dello Stato” e di “stato di necessità”, oggi negati da vaghi e imbelli universalismi. Si deve salvare la vita (?) di estranei (lo si farebbe in casa proprio, mettendo a repentaglio la vita dei propri cari?); si può, però, allo stesso tempo e per quello stesso motivo rovinare la vita ai cittadini del proprio Stato: e non solo per problemi di ordine “logistico”, ma anche, ad esempio, con l’abbassamento vertiginoso dei salari indotto dall’introduzione delle masse migratorie nel paese, oltre che con l’approfondimento del senso di precarietà ed insicurezza, che crea una sorta di disagio psicologico di massa. L’instabilità, non solo materiale, produce di necessità individui instabili. E accenniamo solo en passant alla questione forse più dirimente: la distruzione del cattolicesimo da parte di chi lo dovrebbe difendere e diffondere.

Ma, niente paura, per questo disagio, oltre che per quelli evidenti dei “migranti”, ci sono prontissime torme di psicologi e preti-operatori sociali, avvocati e “mediatori culturali”, mentre i sociologi ci spiegheranno la necessità della “integrazione”, e i tecnici-economisti e i politicanti ripeteranno il “mantra” secondo cui i migranti servono a pagarci la pensione (che i “giovani”, in realtà, non avranno mai. Insieme a un lavoro ed ad un salario fissi, e decenti), proponendo un nuovo stile di vita cui saremo presto felicemente proni. Un bel circolo virtuoso, non c’è che dire.

La noia produce paranoia (anche quella degli psicologi e dei preti moderni); la precarietà di cui tanto si discetta non è tanto e solo materiale, quanto esistenziale, e quindi ancor più reale e pervasiva. Su ciò – su un universo culturale, quello cattolico-europeo, in stato comatoso — si innestano le immani invasioni in corso d’opera: il colpo di grazia contro tutta una civiltà, si potrebbe dire anche se non, ovviamente, auspicare. Il nemico interno ha lavorato, ed ora quello che vediamo in atto è più un effetto che una causa. Lo stato di precarietà di massa è quindi indotto anche dall’immigrazione: anche certi fenomeni “reattivi” vengono direttamente prodotti dall’incontro di civiltà spesso “forti” (si pensi alla religione islamica) con paesaggi culturali in stato degenerescente (quello “occidentale”), percepiti dalle prime come degenerati. Lo stesso Islam, religione già di per sé aggressiva, si trasforma quindi tramite l’inevitabile contatto con l’Occidente, diventando altro: spesso qualcosa che non ha molte connessioni con la versione originale, e talora qualcosa di molto pericoloso (oltre che, paradossalmente ma non troppo, di molto “occidentale”). Invece di favorirlo per i più vari motivi (ingenuità, errore politico-strategico, malafede dettata da precisi interessi materiali, volontà di sperimentare nel laboratorio-Italia), si dovrebbe fare di tutto per evitare questo “incontro”, che prelude e produce (ed ha già, purtroppo, prodotto) conflitti, a loro volta facili latori della distruzione di ciò che resta dell’Occidente. Noi, nel nostro piccolo, ci limitiamo a constatare più con angoscia che con stupore come il triviale sacrista della dissoluzione, Bergoglio, non faccia che accelerare questo processo con le sue improvvide, diuturne declamazioni.

1 commento su “Volontariato e ONG: legge dello Stato, sentimenti e artifici “umanitari” – di Marco Toti”

  1. E’ chiaro che quanti pretendono dallo Stato l’accoglienza dei clandestini sono quanto meno ignoranti, riguardo alla morale cristiana. Assai peggiori sono i vari profittatoti del sentimentalismo più o meno ignaro: la signora incinta e clandestina come era salita sul treno poteva e doveva scendere, salvo prova contraria. Se i tutori della legge hanno dovuto portarla a terra di peso, ciò ha aggravato la sua colpa, e i suoi familiari sono stati colpevoli con lei. Ma i vari persuasori in mala fede, in testa molti preti e prelati, hanno inculcato pregiudizi bugiardi nelle teste credule, sentimentali e sovente complici della comoda menzogna.

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