di Piero Vassallo
L’umiliante dipartita della destra politica dalla scena italiana ha prodotto un inatteso beneficio collaterale: l’opportunità di riflettere sulla storia del Msi sine ira et studio.
Poiché l’intenzione di esorcizzare il non più esistente appartiene alla sfera dell’insensatezza, il torrido pregiudizio antifascista deve arretrare all’area riservata alle passioni inutili.
D’ora in avanti la ricerca della verità storica sarà legittima, quantunque disturbata dalla prevedibile insorgenza dei forestari di jungeriana memoria.
Un sagace e appassionato storico, Antonio Carioti, intanto, ha compiuto la difficile impresa di scrivere e pubblicare per i tipi della milanese Mursia, “I ragazzi della fiamma I giovani neofascisti e il progetto della grande destra 1952 – 1958″, un’obiettiva, attendibile cronaca degli anni cruciali della gioventù missina. Ascoltate diligentemente e selezionate le testimonianze attendibili dei protagonisti, Carioti stabilisce una verità nascosta dalla storiografia in cattedra: la via percorsa dall’avanguardia giovanile militante nel Msi era felicemente indirizzata all’intesa con la destra cattolica.
Tale scelta implicava la rinuncia agli elementi dell’eredità fascista che il fatto storico e la ragione avevano ridotto all’improponibilità: la dittatura, il mito dell’impero coloniale, il progetto della socializzazione delle [strutturalmente refrattarie] imprese, l’influsso di pensatori estranei alla genuina tradizione italiana.
La romantica fedeltà al fascismo integrale costituiva un ostacolo non facilmente superabile dai giovani missini. Se non che negli esponenti dell’avanguardia giovanile (intelligentemente ispirati da Enzo Erra, Primo Siena, Giano Accame, Fausto Gianfranceschi e Fausto Belfiori) si era affermata una visione della storia compatibile con la dottrina cattolica.
Di qui l’intesa della corrente giovanile (detta dei figli del sole) con l’ala moderata e filo cattolica del Msi, costituita da Arturo Michelini, Ernesto De Marzio, Carlo Costamagna, Nino Tripodi e Vanni Teodorani (e implacabilmente avversata da Giorgio Almirante).
Intervistato da Carioti, Primo Siena, influente protagonista della vita culturale a destra, conferma che nell’avanguardia giovanile stava prevalendo la convinzione che il male da combattere fosse la sconsacrazione del nostro tempo e che pertanto era accertata l’urgenza di adottare una linea di destra religiosamente ispirata.
La possibilità di un accordo con il mondo cattolico, peraltro, non era campata in aria, se perfino Baget Bozzo, un prestigioso collaboratore della dossettiana “Terza generazione“, nel 1954 dichiarava di apprezzare l’ispirazione dei giovani neofascisti a un’unità civile e morale degli italiani.
Decisiva è però la testimonianza autorevole del professore Giulio Alfano, che è stato molto vicino a Luigi Gedda: “A partire dal 1949 Gedda accarezza l’idea di creare un secondo partito cattolico, nel quale coinvolgere magari anche elementi provenienti dalla destra. Se avesse avuto successo, forse sarebbe riuscito a condizionare la Dc, a evitare che essa adottasse il compromesso con l’avversario, come pratica costante di governo. E ritengo che Pio XII guardasse a quel disegno con un certo favore”.
Certo è che, in quel cruciale 1954, la segreteria di Stato vaticana indirizzò un telegramma all’assemblea del Giovane Italia fondata da Massimo Anderson: “Perché nuova Associazione studentesca sia campo fecondo formazione culturale e religiosa, Augusto Pontefice invia di cuore dirigenti et iscritti implorata apostolica benedizione”.
I cattolici progressisti insinuarono che Pio XII non conosceva l’ispirazione neofascista della Giovane Italia. Ma Giulio Alfano afferma risolutamente: “A mio parere Pio XII era certamente consapevole di che cosa fosse la Giovane Italia”. L’opinione di Alfano è confermata da un analogo fatto: nel 1954, la “Rivista romana” dedicò un numero speciale al XXV dei Patti lateranensi; una copia fu fatta recapitare a Pio XII, che rispose notificando al direttore, il conte Vanni Teodorani, genero di Arnaldo Mussolini, il gradimento dell’omaggio e della dichiarazione di devozione filiale.
Dal suo canto Giulio Caradonna rammenta: “Ero molto legato a Teodorani e insieme partecipammo alla trattativa con Gedda. Volevamo togliere di mezzo i democristiani di sinistra e costringere la Dc a scegliere l’alleanza con la destra”.
Favorevole al progetto era perfino il pensatore neopagano Julius Evola.
Opportunamente Carioti ha intervistato Giulio Maceratini, il quale ha rievocato un deludente incontro di Evola con i contestatori dell’opzione cattolica: “Evola si rivolse a noi con accenti che mi parvero addirittura moderati, lontanissimi da quell’estremismo che pulsava nei nostri vent’anni tanto è vero che nella disputa tra Michelini e Almirante mi parve che le simpatie di Evola andassero al primo e, comunque, a molti degli uomini che stavano accanto a chi allora guidava il Msi“.
Il successo della politica filocattolica perseguita dal Msi sembrò a portata di mano nel gennaio del 1954 quando la caduta del governo di Giuseppe Pella aprì un crisi politica, che la Dc tentò di risolvere candidando Amintore Fanfani alla presidenza del consiglio.
Fanfani non condivideva la pregiudiziale antifascista “non a caso Alberto Giovannini sul Tempo presenta Fanfani come un politico che potrebbe superare lo sterile bisticcio tra fascismo e antifascismo e arrivare, attraverso considerazioni concrete al ritrovamento di comuni ideali, nazionali e sociali”.
Purtroppo Fanfani, ignorando il conflitto tra Michelini e Almirante, avanzò la proposta di collaborazione al capo dell’opposizione missina, scelta che destò ingiustificati sospetti e alla fine dettò la decisione di respingere la proposta.
Erra, che nel gennaio del 1954, votò contro Fanfani, oggi sostiene che “fu un grosso sbaglio non accogliere il suo appello: ci lasciammo influenzare troppo dal fatto che fosse un ex dossettiano. Ma Fanfani era un uomo energico, che avrebbe potuto porre un argine alla partitocrazia. Se lo avessimo appoggiato sarebbe diventato molto più difficile isolare e discriminare il Msi”.
A differenza dei postini, la fortuna non bussa due volte. Gettata al vento l’occasione irrepetibile, il Msi (e con esso la corrente giovanile) si attorcigliò intorno a discussioni futili e a viscerali rivalità.
Il partito neofascista entrò a far parte delle maggioranze a sostegno di governi a conduzione debole e non propizie al superamento della dialettica antifascista (Antonio Segni e Adone Zoli) prima di naufragare (nel giugno del 1960) con il governo di Ferdinando Tambroni.
Ma nel 1960 il Msi non aveva più un progetto attendibile e d’altra parte la diaspora dei giovani era compiuta nel 1958: Erra aveva fondato un altro partito, Rauti era incapsulato in un isolamento senza sbocchi, Accame, Gianfranceschi e Belfiori avevano intrapreso la carriera giornalistica. Siena aveva trovato lavoro all’estero. Nel Msi erano rimaste le seconde file. La destra cadde in un letargo culturale e progettuale di cui non si intravede ancora la fine.