Con grande piacere pubblichiamo questo testo dell’amico Giovanni Lugaresi, tratto dal terzo Quaderno CEDOS: “Sulle Alpi in guerra”- L’iniziativa dei “quaderni” CEDOS sul centenario della Grande Guerra, editi da Kellermann, è diretta e coordinata dal giornalista e storico Sergio Tazzer.

Ringraziamo Giovanni Lugaresi per questo bel pezzo sulle Penne Nere, uomini di un’Italia pulita che, sia ringraziato il Cielo, non tramonta.

PD

IL MITO DEGLI ALPINI

di Giovanni Lugaresi

 .

libro lugaIl mito degli Alpini, così come si è diffuso nel tempo e lo si percepisce oggi, affonda le radici negli eventi della Grande Guerra, anche se, a vero dire, c’erano stati dei precedenti, alla fine del diciannovesimo secolo, come la partecipazione di un battaglione di cinquecento uomini contro il Negus Giovanni dopo l’eccidio di Dogali (1887-1888) e l’eroico comportamento delle batterie siciliane l’1 marzo 1896 nella battaglia di Adua. Quei reparti erano stati costituiti appena due anni prima a… fisionomia montanara (conducenti, pezzi, muli), appunto. Resistettero sin quasi al sacrificio totale. Infatti restarono sul campo otto ufficiali su dieci e 79 artiglieri e caporali su 135.

 Da allora, da quell’evento bellico che vide anche l’assegnazione della prima medaglia d’oro alpina (alla memoria) nella persona del capitano Pietro Cella, proveniente da Bardi, paesino dell’Appenino Parmense, non c’è stata campagna militare che non abbia visto i soldati col cappello con la penna nera valorosi combattenti: dalla presenza in Cina durante la rivolta dei Boxer alla conquista della Libia, dalla Grande Guerra alla campagna d’Abissinia (1936), dal secondo conflitto mondiale (Grecia-Albania, Jugoslavia, Russia, Libia) alle operazioni internazionali più recenti compiute in àmbito Onu dall’Africa al Medio Oriente, ai Balcani.

Per non parlare degli interventi degli Alpini in congedo (che si considerano sempre tali, non degli “ex”) sul fronte della solidarietà, in patria e all’estero.

Il Corpo degli Alpini era stato costituito nel 1872 per la felice intuizione del capitano Giuseppe Domenico Perrucchetti, la cui idea era stata condivisa e realizzata dal ministro della guerra generale Cesare Ricotti Magnani. Ma già nei tempi dell’antica Roma, con Ottaviano Augusto, erano state costituite tre legioni a difesa delle Alpi, denominate “Julia”. Esistono inoltre documenti dell’epoca di Teodosio che danno notizia degli emblemi di quei reparti: il primo, per esempio, era la Legio Alpina, rappresentata da un lupo grigio-nero in campo verde…

Nel Medioevo poi, secondo una ricerca dello studioso Italo De Candido Ciandon, c’erano in Cadore milizie alpine addestrate a difendere la piccola patria a fronte delle calate dei barbari che invadevano il territorio ladino. Da qui, la considerazione che i primi alpini erano ladini – popolazioni romaniche insediatesi nel Cadore nel sesto secolo, sempre fuggendo dai barbari. L’organizzazione militare continuò per tutto il quindicesimo secolo.

Infine, i garibaldini “cacciatori delle Alpi” della terza guerra di indipendenza (1866) possono essere considerati a loro volta alpini, in quanto combattenti in montagna.

Questo, per dire delle “ascendenze” di un corpo militare entrato in quel mito nato nei combattimenti del primo conflitto mondiale, con azioni eroiche, con autentiche imprese, come testimoniato dalle pagine di storia patria recanti nomi quali Monte Nero, Ortigara, Monte Vodice, San Matteo – Gruppo Gavia (a 3.680 metri, la quota più alta dove in Europa si è combattuto), e quindi Pasubio, Passo della Sentinella, Castelletto (Tofana di Rozes), Adamello, e qui ecco il nome di un battaglione che ritroveremo un quarto di secolo più tardi in Russia: Edolo! Per non parlare di un altro aspetto che pure contribuì alla nascita e all’affermazione del mito: quello delle portatrici carniche con Maria Plotzner Mentil in testa. Donne di cuore, di coraggio, di fatica. Avevano un bracciale rosso con le stellette, recando sulle spalle quella tipica gerla delle genti di montagna ricolma di generi di conforto, ma anche di armi e munizioni, per i loro uomini, alpini; e su, a inerpicarsi lungo impervi sentieri, sotto il fuoco nemico. Maria Plotzner Mentil venne colpita a morte il 15 febbraio 1916 nella zona di Paluzza, medaglia d’oro alla memoria, e continua a rappresentare una sorta di mito nel mito, appunto, tant’è che nella sfilata conclusiva delle adunate nazionali scarpone, le Penne Nere friulane recano uno striscione nel quale si legge: “Maria Plotzner Mentil e le portatrici carniche sono qui con noi”. Segno di una memoria che non scema con il passar del tempo, perché incisa profondamente nei cuori, oltre ad essere stata scritta nel gran libro della storia.

Fra i personaggi e interpreti, per così chiamarli, del mito delle Penne Nere non possono essere ignorati Cesare Battisti e Fabio Filzi, “cittadini austriaci”, che pagarono il loro sentimento di italianità con l’impiccagione. Erano alpini!

Come lo erano gli eroici fratelli  Natalino, Attilio, Santino, Giannino Calvi della Val Brembana, nella Bergamasca, due dei quali, Attilio e Santino, decorati di medaglia d’argento, caduti in battaglia – fra tutti e quattro meritarono undici medaglie al valor militare.

Un altro talmente legato alla memoria scarpona da far parlare per quelli che “sono andati avanti” (secondo il linguaggio degli Alpini, quelli che sono morti), di un suo “paradiso”, è il generale Antonio Cantore, genovese: valoroso, temerario, duro eppure stimato dai soldati, ancorché esistano dubbi sulla versione ufficiale della sua morte. Secondo i documenti militari, il 20 luglio 1915, a Forcella di Fontana Negra, sotto la Tofana di Rozes, un cecchino austriaco lo avrebbe centrato in fronte mentre, incurante delle raccomandazioni di un suo ufficiale, stava osservando le linee nemiche. A questa versione, tanti anni dopo sono stati posti dubbi. A sparare fu un italiano? Un soldato insofferente delle sue durezze o addirittura un cortinese interprete del malumore diffuso nella popolazione di fronte alla possibilità che per ordine di quel generale la cittadina ampezzana venisse evacuata?

Si riporta questa versione per completezza di informazione (come si suole dire), ma crediamo che essa si basi su una diceria. Infatti, il proiettile colpì in fronte il Generale; lo attesta il foro nella visiera del berretto. Si fosse trattato di un “colpo amico”, egli avrebbe dovuto essersi girato su se stesso, azione vistosa che non sarebbe sfuggita agli astanti, voltando le spalle al nemico – il che appare molto improbabile..

Come che sia, quello di Cantore rappresenta un altro mito nel mito, per così dire, che si avvale di valori individuali, come si è visto, ma poi di un respiro collettivo che parla non più o non soltanto di “alpino”, bensì di “alpini”, presi nell’insieme. Non diversamente si può valutare infatti la capacità di sofferenza, di resistenza alle difficoltà insite nella guerra in montagna, per gente che in quella sofferenza, in quelle difficoltà ambientali e di clima era nata, cresciuta, vissuta. Con l’aggiunta di manifestazioni di valore e di solidarietà fra combattente e combattente rilevati a più livelli, in primis a quello di corrispondenti di guerra quali Luigi Barzini, Renato Simoni, Guelfo Civinini, per fare alcuni nomi. Nonché di un grande narratore, poeta e giornalista straniero, cioè l’inglese Rudyard Kipling, presente in quegli anni sul fronte italiano.

Ancora. A corroborare quel mito non mancarono le storiche tavole dell’illustratore Beltrame per la Domenica del Corriere, i disegni, i colori di Primo Sinopico (al secolo, Raoul Chareun di Cagliari), Vellani Marchi e Novello, personaggio quest’ultimo che rivedremo nel secondo conflitto mondiale nella campagna di Russia, e poi nei lager nazisti.  E in tempi recenti il nostro contemporaneo Aldo Di Gennaro, al quale si deve l’illustrazione del famoso salto del tenente Cornaro. Episodio che si può così riassumere, all’insegna di una parola: “impossibile”! Siamo nel 1896 in una esercitazione e sulla linea di confine fra Italia e Francia, Jacopo Cornaro, del 2. Alpini, si trova diviso da un gruppo di ufficiali dei Chasseurs des Alpes che stanno consumando il rancio. Stappando una bottiglia di champagne lo invitano a raggiungerli per brindare insieme. Se non che, italiani e francesi sono divisi da un profondo burrone largo cinque metri. Impossibile? Quella parola, che non esiste nel vocabolario delle Penne Nere, è ovviamente ignota anche a Cornaro, che, in tenuta di marcia, zaino affardellato in spalla, prende una lunga rincorsa, salta il burrone, presentandosi pimpante agli stupefatti colleghi francesi, pronto per il brindisi. Sorseggiato lo champagne, sbattuti i tacchi per il saluto militare, ripete il prodigioso salto tornando… in patria.

    .

Dai disegni, dalle illustrazioni, dalle pitture alla letteratura, e a proposito delle pagine di autori quali Paolo Monelli, Ardengo Soffici, Salvator Gotta, Piero Jahier, si entra non in una sorta di “letteratura alpina”, bensì nelle pagine della alta letteratura tout court.

anaDue i libri di Paolo Monelli: “Le scarpe al sole” (prima edizione: Licinio Cappelli – Bologna 1921) e “La guerra è bella ma è scomoda (Garzanti Milano 1929): narrativa diaristica con appropriate illustrazioni (Mario Vellani Marchi e Giuseppe Novello) che descrivono le esperienze personali e rendono la quotidianità della guerra in prima linea con gli stati d’animo, i sentimenti, gli aneddoti, con amarezza ma anche ironia, per quel che riguarda il primo romanzo-diario; filtrato da una ironia goliardica e giocosa, nel rimpianto della giovinezza, e non poteva essere forse diversamente, il secondo, perché filtrato attraverso il tempo. Sono storie e immagini “di gaie e di tristi avventure d’alpini, di muli, di vino” (come li indica lo stesso autore) “buoni alpini che combatterono dal Tonale all’Altopiano di Asiago, dal Monte Santo al Grappa”.  A spiegare poi quel titolo, è da dire che nel parlare delle Penne Nere, “mettere le scarpe al sole” significa morire in combattimento.

Dal libro di Monelli venne tratto anche un film (1935) diretto da Marco Elter, mentre in tempi recenti (2013) Roberto Milano ne ha curato un adattamento teatrale.

Un romanzo per ragazzi venne pubblicato da Salvator Gotta, anch’egli combattente nella Grande Guerra: “Il piccolo alpino” (1926, Mondadori), portato poi sul grande schermo nel 1940 dal regista Oreste Biancoli, quindi nel 1986, sceneggiato televisivo.

Ma il libro emblematico per eccellenza, a spiegare il mito delle Penne Nere, reca la firma di Piero Jahier, narratore, poeta, saggista, critico che si rivelò sulle pagine della “Voce” di Giuseppe Prezzolini e che come quasi tutti i vociani partecipò al conflitto, un’esperienza che lo avrebbe fortemente segnato, soprattutto nello scoprire una realtà di popolo straordinaria. In “Con me e con gli alpini” (Libreria della Voce – Firenze, 1920), ecco un’opera fra diaristica e narrativa, con parti poetiche, che trasuda umanità senza mai scadere nella retorica. Ritratti come quello del soldato Somacal Luigi da Castion (Belluno) balzano inconfondibili fra tante figure caratteristiche in un ambiente dove uomini e muli sono chiamati a duri sacrifici, dove si combatte e dove si manifesta quella solidarietà tipica delle genti di montagna. Non a caso espressa compiutamente, con espressioni e una sintassi originali, essenziali, che toccano, coinvolgono, per andare dritte al cuore, da quel che si legge nella Prima marcia alpina:

Uno per uno

bastone alla mano

e alla salita cantiamo

 

Se chiedi le reni rotte alla mina

se chiedi il polso della gravina

se chiedi il ginocchio piegato a salire

se chiedi pronto l’amore a patire:

son io, l’alpino, rispondiamo

e all’adunata corriamo

 

Ma la montagna, alpino, è franata

ma la tua tenda, alpino, è sparita

alpino, tutta l’acqua è seccata

alpino, il vetrato gela le dita

ma la tua penna è folgorata

ma la gran notte di nebbia è salita…

 

[…]

 

Uno per uno

zaino alla mano

e nei riposi ci contiamo

 

Alpino, tu sei passato

ma il compagno che manca è ferito

la mitraglia l’ha arrivato

dalla croda l’ha distaccato

nella gola l’ha tranghiottito.

 

Dove sei, compagno caro,

al paese dovevi tornare;

se qualcuno lo potrà rivedere

gliene chiederà la tua mare.

Ma non sei stato abbandonato

ma ti veniamo a ritrovare.

Sei il nostro ferito

ti riprendiamo

al paese ti riportiamo.

Tutti per uno,

mano alla mano

dove si muore, discendiamo.

                        *

Ma il tuo compagno, alpino è spirato

al paese non può tornare;

ma il suo lamento è dileguato

non ti chiama più a ritrovare.

Sulla coltrice del nevato

resterà solo a riposare.

             *

Dove sei, compagno caro,

se al paese non puoi ritornare

ma non sei stato abbandonato

ma ti veniamo a ritrovare.

Il viso bianco gli riasciughiamo

il corpo stronco ricomponiamo.

E’ il nostro morto

ce lo riprendiamo

alla patria lo riportiamo

[…]”

Espressioni struggenti nelle quali spiccano quel “compagno caro” che dice tanto, dice tutto, e che, seguito da quel “E’ il nostro morto”, testimonia-afferma, la consapevolezza di un rapporto che va oltre uno scontato cameratismo per diventare autentica fratellanza.

 Ed è appunto (anche) su questa fratellanza scarpona, mai venuta meno nel corso degli anni, che si è manifestato il mito degli Alpini. Trasmesso, per così dire, di generazione in generazione, anche sulle note delle canzoni delle Penne Nere, a incominciare proprio dalla Grande Guerra (Il testamento del capitano, motivo caro anche a Papa Bergoglio, Sul ponte di Bassano, O vile Monte Nero, La sentinella, Va l’alpin, Ta-pum, Di qua, di là del Piave, La canzone del Grappa, eccetera) e arrivate fino ai giorni nostri con composizioni di musicisti contemporanei, fra i quali Bepi de Marzi (nelle sue tante cante spicca “Signore delle cime”, intrisa di umanità e di senso del sacro, di poesia e di alte vette, di cielo).

Un mito, dunque, basato sulla fraternità delle genti di montagna, della capacità di sofferenza, del valore dimostrato sempre. Perché se si pensa al dopo-Grande Guerra, cioè ad altri eventi bellici, ugualmente constatiamo la continuità del mito. E non è, questa, per dirla con Kipkling, “un’altra storia”; è invece la medesima storia, dipanatasi nel tempo, senza soluzioni di continuità, e ugualmente testimoniata nelle pagine di alpini scrittori, grandi e meno grandi (ma tutti significativi), fra i quali Egisto Corradi e Mario Rigoni Stern, Giulio Bedeschi ed Eugenio Corti.

 Il filo ideale che li lega è poi rappresentato dal quel tipico, originale cappello con la lunga penna nera che sempre, e dovunque, è servita, come dice la canzone, da bandiera: la bandiera della Patria.

Quanto ai dati numerici, al momento dell’entrata in guerra nel maggio del 1915, l’Italia aveva schierati dallo Stelvio al mare Adriatico 875mila uomini e 144.500 quadrupedi. Questa forza era così articolata: 14 corpi d’armata, 35 divisioni di fanteria, una di bersaglieri, quattro di cavalleria, tre battaglioni di carabinieri e 175 squadroni di carabinieri a cavallo, quattrocento batterie da campagna e a cavallo, ventotto batterie pesanti campali, 40 batterie d’assedio, 207 battaglioni di Milizia Territoriale, 113 compagnie presidiarie, servizi, parchi, eccetera. Si calcola che cinquantamila siano state le Penne Nere inquadrate in 52 battaglioni di alpini e in 76 di batterie da montagna.

Alla fine del conflitto risultarono mobilitati 5.615.000 uomini, dei quali 650mila morti o dispersi (secondo alcuni testi il numero sarebbe di 750mila).

Di quella forza, quasi quattrocentomila furono alpini e artiglieri da montagna, dei quali 84.634 i morti o dispersi e 82.247 i feriti.

 .

Bibliografia

Paolo Monelli: “Le scarpe al sole” (Fratelli Treves)

Paolo Monelli-Giuseppe Novello: “La guerra è bella ma è scomoda” (Garzanti)

Piero Jahier: “Con me e con gli alpini” (Libreria della Voce)

Rudyard Kipling: “La guerra nelle montagne” (Mursia)

Salvator Gotta: “Il piccolo alpino” (Mondadori)

Ardengo Soffici: “La ritirata del Friuli” (Vallecchi)

Emilio Lussu: “Un anno sull’Altipiano” (Parigi 1938 – Einaudi)

Silvio Bertoldi (a cura di): “Alpini storia e leggenda” (Rizzoli – in tre volumi)

1 commento su “Il mito degli Alpini – di Giovanni Lugaresi”

  1. Che bellissima descrizione!
    Gli Alpini sono sempre stati e lo rimarranno sempre, non solo per me, MITICI!!!
    Il loro eroismo, la loro fratellanza, la loro umanità, la loro umiltà, e potrei continuare,
    sono quasi incredibili!!
    Io comprai tanti anni fa un piccolo grande simbolo: il loro cappello!!
    Penso che lo regalerò ad un Sacerdote che conosco e che è stato Alpino.
    Il Signore li benedica e li ricompensi!

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