L’angolo di Gilbert K. Chesterton – Il governo delle voci – rubrica quindicinale di Fabio Trevisan

IL GOVERNO DELLE VOCI

“L’anima di un uomo è piena di voci come una foresta”

 

 

Come più volte ho scritto in questa rubrica, il pensiero di Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) non può prescindere dal ricorso alle immagini, dovendo congiungere la sua duplice natura di filosofo e pittore. In una “civiltà delle immagini” (anche se spesso quest’esteriorità appare volgare e superficiale) come la nostra, risulta essere molto provocatorio e fecondo il suo pensiero poiché ci fa vedere le cose, le persone, il mondo da una prospettiva diversa, anche se ben radicata nel senso comune.

Nel 1910 Chesterton immaginò l’anima di un uomo come una foresta, anticipando, a mio modo di vedere, il pensiero di Tolkien del Signore degli anelli sulla natura (mi riferisco ad esempio a Barbalbero e agli Ent): “Ci sono diecimila lingue come tutte le lingue degli alberi: fantasie, follie, memorie, pazzie, paure misteriose e ancor più misteriose speranze”. Che cosa intendeva lo scrittore londinese con il ricorso alla metafora della foresta? Certamente non escludeva la realtà di tutte quelle voci che trafficavano l’anima dell’uomo, ma le riconduceva ad una necessaria padronanza di sé perché ciascuno potesse sviluppare la propria personalità: “Tutto l’assetto e il ragionevole governo della vita consiste nel giungere alla conclusione che alcune di quelle voci hanno autorità e altre no…tutte le nobili necessità dell’uomo parlano il linguaggio dell’eternità”. Questo “linguaggio dell’eternità” era ciò per cui tutti gli uomini erano stati chiamati da Dio a sviluppare nella breve peregrinazione terrena: “Quando un uomo sta facendo le tre o quattro cose per far le quali è stato mandato su questa terra, allora egli parla come uno che vivrà per sempre”. 

Il 22 aprile 1911 Chesterton pubblicò sull’Illustrated London News un articolo (Il suffragio e la famiglia) in cui rifletteva sul “governo della casa”, ricorrendo, come aveva fatto nel “governo delle voci”, a sorprendenti metafore fondate sulla solidità del senso comune: “La famiglia si suppone innanzitutto che poggi sul consenso…è per questa ragione che il padre di una famiglia non è mai stato chiamato “il re della casa” o “il sacerdote della casa” o addirittura “il papa della casa” ma è stato chiamato “il capo della casa”. L’uomo è la testa della casa, mentre la donna è il cuore della casa”.

Chesterton non intendeva affatto dare una visione sentimentale del governo della famiglia attraverso le banali distinzioni dei ruoli: la materia grigia lucida razionale della testa di un uomo, il cuore rosso che emotivamente palpita della donna. Che cosa intendeva quindi con il “capo della casa”? Ecco la spiegazione attraverso le sue testuali parole: “La definizione della testa è che essa è quella cosa che parla”. Da questa affermazione Chesterton sviluppava una riflessione straordinaria che, unita a delle incredibili metafore, stimolava il pensiero e la sana immaginazione dei lettori: “La testa di una freccia non è più necessaria della sua asta; la testa di un’accetta non è più necessaria del manico, ma la testa dell’accetta e della freccia è la cosa che entra per prima, la cosa che parla. Se uccido un uomo con una freccia, mando la testa della freccia come un ambasciatore, per aprire la questione”.

La sintesi di queste illuminanti metafore stava nel far comprendere il significato profondo di “testa” o di “capo” famiglia, non avendo quindi per nulla a che fare con un dispotismo di tipo patriarcale, come potrebbe pensare nella sua stanchezza l’uomo moderno: “Ebbene, l’antica famiglia umana, su cui tutta la civiltà è costruita, intendeva questo quando parlava del suo “capo”…se un ubriacone è penetrato nel giardino davanti a casa mia e si è sdraiato sull’aiuola grande, sono io che devo andargli a dare un’occhiata, Se uno scassinatore mi gironzola in casa di notte, sono io che devo andare a parlamentare con lui. Perché io sono il capo; io sono la noiosa escrescenza in grado di parlare con il mondo”.

Credo che queste riflessioni chestertoniane siano tutt’altro che remote e che possano aiutare a vedere e pensare più chiaramente. La maestria e l’arte di Chesterton stava nel procedere dall’ovvio, nel dar retta a quelle voci che avevano autorità per l’uomo che non prescindeva dal senso comune. 

 

2 commenti su “L’angolo di Gilbert K. Chesterton – Il governo delle voci – rubrica quindicinale di Fabio Trevisan”

  1. Grazie a Chesterton, anni fa, abbracciai la fede. Violentemente anticlericale, fucina di ogni bestemmia contro la Chiesa di Cristo, negatore di ogni dignità delle Scritture, ero naufrago nei mari dell’irrazionalismo. Nulla capita per le mani a caso e per vie traverse, partendo da Tolkien, scoprii Chesterton al momento giusto, proprio mentre stava avvenendo una valanga interiore. Chesterton mi fornì, più di ogni altro, la chiave della fede. Devo tutto al grande e grosso Gilbert, almeno la cosa più importante: la consapevolezza che devo salvarmi l’anima, la cosa più importante.

  2. Il problema è sempre lo stesso: in una società in cui nell’anima dell’uomo penetrano foreste inestricabili di voci, per giunta insistenti e reiterate, senza che chi fa più fatica a discernere sia aiutato a distinguere quelle tre o quattro che parlano il linguaggio dell’eternità, come si fa a formarsi una personalità che badi a percorrere la strada necessaria a realizzare la pienezza della propria esistenza? Pienezza che, ovviamente, non è la ricerca della felicità su questa terra dove siamo solo di passaggio(ce ne accorgiamo più andiamo avanti con gli anni), ma in Cielo dove il nostro Creatore ci attende. Ecco dunque il dramma dei nostri giorni: la mancanza di guide, di direttori che indichino il giusto cammino. Di consiglieri e tuttologi siamo circondati, tanto che persino ieri Gerry Scotti, improvvisandosi teologo, nel corso del suo “Milionario” ha detto la sua sulla necessaria modifica del Padre Nostro; è così che la gente semplice,abboccando alle fandonie televisive,è sempre più confusa e spaesata. Dove sono i santi maestri, i santi consiglieri, dove i preti di una volta?

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