Si fa presto a dire “stop al debito”, ma da dove si parte? Proviamo a partire dall’inizio. Molta gente quando si parla di bilancio, soprattutto di bilancio dello stato, inizia a fare espressioni comprensibilmente schifate. Sì è vero, il bilancio di uno stato contiene una quantità di dati e di voci spaventosa anche per chi ne mastica un po’, ma se non si scende troppo nel dettaglio si può provare a fare una specie di “Bilancio for dummies” prendendo a modello la nota collana di pubblicazioni che cercano di spiegare materie complesse a chi è o si sente negato.

I dati principali di un conto economico, da quelli del bilancio di famiglia a quelli dello Stato, alla fin fine si possono ridurre all’essenziale: entrate e uscite, la differenza determina un utile (attivo, surplus) o una perdita (passivo, deficit). Quello che segue è il bilancio dello Stato per l’anno 2019, ridotto ai minimi termini.

Qualcuno si stupirà: le entrate sono maggiori delle uscite! Ancora più stupefacente il fatto che negli ultimi trent’anni lo Stato Italiano ha praticamente sempre avuto i conti in attivo. A volte di più, a volte di meno, ma a parte il 2009, anno della nota crisi mondiale dei subprime, sempre in attivo.

Ammesso e non concesso che avere il bilancio in attivo sia sempre cosa buona per uno Stato, qualcun altro si potrà chiedere: perché allora, a memoria d’uomo, ogni santissimo anno ci hanno massacrato non solo il portafoglio con manovre finanziarie (leggasi tagli & tasse) per decine di miliardi? Dove sono andati a finire tutti quei soldi che ci hanno chiesto se eravamo già in utile? Chi si è arricchito alle nostre spalle?Chi ha goduto dei nostri sacrifici, delle lacrime e sangue, del tirare la cinghia e tutto il restante repertorio?

Per farlo comprendere anche agli amici dummies in prima battuta ho visualizzato il cosiddetto “bilancio primario”, quello che si ottiene prima di aver inserito una certa voce nella colonna delle uscite. Un attimo che lo aggiungo… ed ecco il bilancio finale, completo a tutti gli effetti:

Ah, ma allora c’era la fregatura. Certo, la fregatura si chiama interessi passivi sul debito pubblico, la parte rappresentata non a caso in colore marrone nel grafico soprastante. Come si vede ad occhio si tratta di una parte sostanziosa, determinante e più che sufficiente per ribaltare un bilancio in modesto ma dignitoso attivo in un bilancio in molesto ed oneroso passivo. Considerando le spese comprensive degli interessi il nostro paese negli ultimi cento anni non è praticamente mai stato in attivo. Salvo una curiosa eccezione.

L’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani1 (quello di Cottarelli, l’economista che sta all’economia come il virologo Burioni sta alla virologia, o come il teologo Vito Mancuso sta alla teologia, o come l’onorevole Scalfarotto alla libertà di parola), l’OCPI dicevamo, che avevamo subitaneamente catalogato tra gli enti inutili, ci dà la possibilità perlomeno di reperire agevolmente i dati che ci interessano a partire dall’Unità d’Italia (1861) per fare qualche elaborazione a lungo raggio.

Se all’Osservatorio non hanno taroccato le tabelle di Excel, il dettaglio di grafico che ne abbiamo ricavato sopra ci mostra una simpatica singolarità: negli ultimi cento anni solo il 1924 e 1925 presentano un saldo di bilancio finale (comprensivo di interessi passivi) in attivo. Due anni significheranno poco, ma da allora non è mai più successo.

Il ventennio, lo ricordiamo, iniziò nel ’22. Escludendo che Cottarelli sia diventato improvvisamente nostalgico dell’epoca, osserviamo inoltre che dal ’23 al ’34 compresi abbiamo dodici anni consecutivi di saldo primario attivo, cosa che tornerà ad accadere solo nel ’57 per qualche anno, e poi dal ’91 fino ai giorni nostri. In aggiunta alle solite faccende dei treni in orario e delle paludi bonificate, possiamo dire che quando c’era lui i conti pubblici erano a posto. Almeno nella prima metà abbondante di quella lunga esperienza.

Ma prima che arrivino le guardie sanitarie per un TSO, come usa fare negli ultimi tempi verso chi pensa in proprio, torniamo ai giorni nostri. Nel grafico successivo apriamo una finestra sugli stessi dati a partire dal 1960. La scala di grandezza è enormemente cambiata: se un secolo fa si parlava di centinaia di migliaia di euro (lire equivalenti), pochi milioni al massimo, ora si parla di decine di miliardi. Guardiamo l’area in grigio: da un iniziale impercettibile deficit, verso la fine del “formidabile” decennio il disavanzo inizia a crescere, per proseguire con decisione negli anni settanta, ed impennarsi, o meglio sprofondare, nel decennio successivo, il peggiore in assoluto. Soprattutto considerando l’aumento esponenziale del peso che hanno gli interessi sul debito, rappresentati dalla distanza che separa il saldo primario dal saldo finale. Fate idealmente scorrere la linea (quella marrone) dal 1980 in poi per rendervi conto dell’esplosione di questa voce del debito, passata in un decennio da 9 a 70 miliardi, per arrivare nel 1996 alla cifra monstre di 115 miliardi, capace di riportare in negativo anche un bilancio primario in forte attivo (+46 miliardi). Come ormai è noto a chi segue anche da lontano le questioni monetarie, nell’81 vi fu il famigerato divorzio tra Tesoro e Bankitalia, operazione considerata madre di tutte le disgrazie contabili/monetarie (e quindi in buona parte anche economiche, politiche, sociali…) del nostro Paese.

Scriveva quel fatidico 12 febbraio Beniamino Andreatta dal Ministero del Tesoro:
Caro Governatore,
ho da tempo maturato l’opinione che molti problemi di gestione della politica monetaria siano resi più acuti da un’insufficiente autonomia della condotta della Banca d’Italia nei confronti delle esigenze di finanziamento del Tesoro.
In particolare l’esistenza di un obbligo di acquisto residuale in sede d’asta di BOT […]

Il caro governatore, al secolo Carlo Azeglio Ciampi, rispondeva:
Caro Ministro,
rispondo alla Sua lettera […] le cui linee di ragionamento mi trovano sostanzialmente d’accordo. A conclusioni similari ero pervenuto nel preparare la conferenza del 16 febbraio all’Associazione Nazionale di Banche e Banchieri.

[Guarda un po’, le coincidenze… ndr]
Perché la politica monetaria non subisca vincoli imposti dalla dimensione e dall’andamento nel tempo del disavanzo statale è necessario che il finanziamento al Tesoro della Banca d’Italia possa essere da questo regolato in piena autonomia al fine di raggiungere gli obiettivi di controllo monetario […].
L’interruzione dell’automatismo degli acquisti della banca centrale alle aste dei Bot è un primo passo per la realizzazione di un obiettivo di crescita della base monetaria complessiva, indipendente dal disavanzo.2

E noi, ignari e felici, con l’ottimismo tipico degli anni ottanta, avremmo pagato le conseguenze a tempo indeterminato di un cotale apparentemente innocuo scambio di cortesie.

Con espressioni tipo “Obiettivo di crescita” osserviamo come la neolingua euro-bancaria facesse già capolino, promettendo di manifestarsi nel contrario di quello che poteva sembrare da una ingenua lettura logico semantica delle parole. Oggi sappiamo bene che se dicono “crescita” ci aspetta un periodo di tracollo, se dicono “riforme” ci aspetta una rivoluzione espropriante ai danni della classe media e bassa, se dicono “democrazia” intendono quella dove governa il Partito Democratico per conto dei poteri forti, anche se non ha vinto democratiche elezioni.

Da allora lo Stato prese il largo su un barcone scassato e volontariamente si pose in balìa di venti, onde, tempeste, ma soprattutto squali e pirati che normalmente dominano il minaccioso e per definizione instabile mare dei mercati. Da allora, solo con manovre lacrime e sangue è stato possibile contenere il deficit. Le lacrime, a parte quelle “sceniche” di qualche ministro, erano le nostre. Il sangue pure, e non c’era ancora stato l’effetto pandemia. Ma questo è il mestiere di chi presta professionalmente denaro a interesse: prelevare il sangue.

NOTE
1 https://osservatoriocpi.unicatt.it/
2 https://www.giampaologalli.it/wp-content/uploads/2018/11/Andreatta-Ciampi-lettere-.pdf

1 commento su “A spasso nel deficit di Stato”

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