Africa addio. Due libri sugli ultimi fuochi dei Bianchi in Africa

Sì, c’è una sottile perfidia, o se si preferisce un’aperta provocazione nell’invitare alla lettura di questi due libri proprio quando nel mondo si è scatenata una violenta aggressione morale, politica, storica e talvolta anche fisica nei confronti dei Bianchi, della civiltà dei Bianchi, della cultura dei Bianchi, della memoria storica dei Bianchi, dei monumenti dei Bianchi (se l’uso della maiuscola per Bianchi vi appare inopportuna, eccessiva e retorica vi ricordo che il sempre “autorevole” New York Times, ha deciso, riferendosi ai due gruppi razziali, di pubblicare il termine Black sempre maiuscolo e il termine white sempre minuscolo). 

Sono due libri che con modalità e stili diversi, ma in fondo con uno stesso giustificato rimpianto per la civiltà europea nel Continente Nero, descrivono alcune delle ultime esperienze dei Bianchi in Africa: Congo, Sud Africa, Angola, Mozambico. Il primo libro: Ippolito Edmondo Ferrario (testi), Stefano Mazzotti (disegni), i Terribili. Les Affreux. Soldati di ventura in Africa, Ferrogallico Editore.

Incominciamo da questo: un benemerito editore che da alcuni anni pubblica fumetti “di destra”, spesso svolgendo una meritoria opera di contro-storia, come il libro-racconto del martirio della studentessa Norma Cossetto, rapita, torturata, violentata e uccisa dai partigiani slavo-comunisti nel 1943 solo perché italiana e figlia di un fascista. Libro la cui presentazione le sinistre tentarono di impedire, anche con la violenza, in diverse occasioni. Il libro i Terribili è un testo “misto”: un bel fumetto disegnato con tratto pulito e professionale da Stefano Mazzotti con testi avvincenti di Ippolito Edmondo Ferrario. Le scene iniziali si riferiscono all’oggi: l’ennesima feroce aggressione nel Sud Africa di banditi anti-bianchi, protetti dell’ANC (il partito di Mandela) al potere a Pretoria dopo la fine dell’apartheid, a una farm isolata.

Negli ultimi anni, sono state migliaia le famiglie di Bianchi attaccate nelle loro fattorie, i loro membri torturati e uccisi da queste bande che vogliono la definitiva cacciata degli Europei (in molti casi più “africani” dei criminali attaccanti). Ma il capofamiglia è un ex mercenario italiano e le cose non vanno come vorrebbero i neri. Poi il flash-back: siamo nel 1965 e due giovanotti milanesi, militanti di destra, decidono di arruolarsi tra i mercenari che combattono per il governo congolese contro i ribelli comunisti, i simba che violentano e saccheggiano, massacrano gli europei, distruggono le proprietà. Solo pochi anni prima, l’11 novembre 1961, c’era stato l’eccidio di Kindu, oggi vergognosamente dimenticato dai governi italiani: 13 aviatori italiani in missione per l’ONU erano stati catturati e poi massacrati dai ribelli neri.

Di qui si snoda il racconto dei durissimi combattimenti, della difesa dei coloni europei terrorizzati e in fuga, dell’alleanza di due mitici comandanti di mercenari, Bob Denard e Jean Schramme, del tradimento del presidente del Congo, Mobutu, aizzato dal presidente USA Johnson, dell’epica difesa, casa per casa, di Stanleyville, di una lunga ritirata, assieme a centinaia di coloni Bianchi, fino Bukavu, dell’assedio da parte di soldati congolesi decine di volte superiori, poi dell’inevitabile espatrio in Ruanda.

Un’epopea, quella mercenari in Africa, che un’Europa imbelle, ormai priva di ogni orgoglio di sé e della propria storia, in preda ad autoflagellazioni antirazziste e anticolonialiste, sacrilegamente inginocchiata di fronte a nuovi, falsi idoli, ha dimenticato e cancellato.   

Eppure, qualcuno tra i lettori si ricorderà di una intensa ballata, cantata da Pino Caruso al Bagaglino, con parole di Pier Francesco Pingitore, La canzone del mercenario: “Son morto nel Katanga, venivo da Lucera, avevo quarant’anni e la camicia nera (l’originale diceva: la fedina nera). Di me la gente dice ch’ero coi mercenari, soltanto per bottino, soltanto per denari. Guardate nel mio sacco, c’è solo una bottiglia e un’oncia di tabacco. […] Salvai monache e frati dall’orda del ribelle, ma il papa se ne frega, se brucia la mia pelle…”.

Oltre al bel racconto a fumetti, il libro ci presenta un saggio introduttivo di Alberto Palladino, che ci aggiorna sulla tragica situazione attuale dei Bianchi in Sud Africa, taciuta dalla stampa mainstream: dopo la fine del regime dell’apartheid, è iniziata la cacciata degli europei dell’esercito, dalla polizia, dagli impieghi pubblici, persino dalle aziende private ove il regime ha imposto severissime politiche di “preferenza ai neri”. Come già si diceva, migliaia di farmer sono stati uccisi in attacchi di razziatori-terroristi neri. Solo nel 2019, ci sono stati 552 attacchi con quasi mille vittime, attacchi che sono sempre caratterizzati da estrema brutalità. Torture, violenze, assassini, incendi. Un emendamento alla costituzione prevede la “confisca senza compensazione” delle terre dei Bianchi che le coltivano da centinaia di anni. Il tenore di vita si è drasticamente ridotto, anche per i neri: il reddito della fascia più povera della popolazione nera è inferiore al 50% a quello pre-1994 (anno della fine del “regime bianco”). Non pochi agricoltori europei stanno fuggendo dal paese, anche verso la Russia, dove sono ben disposti a dare terra da coltivare a questi bravi coltivatori. E tutto questo mentre la Rhodesia, pardon lo Zimbabwe, in passato ricco per le esportazioni agricole dei farmer installatisi durane la colonizzazione inglese e poi del governo Bianco di Ian Smith, caduto il feroce regime del “decolonizzatore” marxista-leninista Mugabe che aveva espropriato i proprietari agricoli europei, questi agricoltori europei li sta silenziosamente richiamando, constatata la totale incapacità dei nuovi padroni neri di coltivare alcunché.   

Chiude il libro un racconto di Franco Nerozzi: “Les Affreux”, trent’anni dopo, con foto di Davide Di Stefano. Franco Nerozzi è un personaggio assai interessante (lo incontreremo anche nell’altro libro), lui stesso mercenario in Africa nel 1996, con Bob Denard (il testo include anche una breve intervista di questo mitico comandante), e prima ancora in Birmania in difesa del minoritario popolo dei Karen, molti dei quali cristiani, perseguitati da decenni dai birmani buddhisti anche perché si rifiutano, per motivi etici, di praticare il traffico di droga. Nerozzi, che diverrà apprezzato corrispondente di guerra e poi fondatore di una benemerita ONG (“Popoli”) che tutt’ora sostiene la sopravvivenza dei Karen, ci narra dell’ultima spedizione di “veri” mercenari (e non anonimi contractor di oscure compagnie spesso collegate ai servizi USA, britannici e israeliani) in Africa contro i soliti ribelli congolesi. Ricordiamo anche un suo altro bel libro, Nascosti tra le foglie, edito da Altaforte, che narra prevalentemente delle sue avventure birmane. Della sua esperienza mercenaria, così scrive Nerozzi alla fine del suo testo: “Mi sento libero, un soldato libero che ha scelto da che parte stare. Con dei camerati che hanno condiviso la stessa scelta. Nessun governo ci ha mandato qui. Abbiamo semplicemente dato ascolto al nostro cuore e alle nostre convinzioni. Alcuni di noi pensando di poter ostacolare un disegno politico che non ci piace, tutti noi seguendo il richiamo irresistibile dell’avventura.”    

L’altro libro assai meritevole di attenzione e di lettura è Teatrino africano, di Giancarlo Coccia, Altaforte Edizioni, con un’affettuosa e ben intonata prefazione di Gian Micalessin. Anche Giancarlo Coccia è un personaggio di tutto interesse. Nato in una famiglia di tradizione militare e diplomatica, bravissimo giornalista, corrispondente per il Giornale e altri media europei dal Sud Africa, Angola, Mozambico e altri paesi africani, autore di numerosi scoop per il suo fiuto e le sue conoscenze, corrispondente di guerra (giovanissimo anche in Vietnam con Egisto Corradi), intermediario diplomatico per lo Stato Italiano sotto copertura, white hunter (cacciatore bianco), concessionario di una grande riserva di caccia grossa e quindi impegnato nella lotta contro il bracconaggio, che era diventato endemico dopo l’indipendenza dal Mozambico e dell’Angola, uomo di mille avventure e di mille conoscenze. Il suo libro è ben più di un libro di ricordi: è una testimonianza di tanti fatti del periodo della decolonizzazione e di quello successivo.

Dopo il violento golpe di militari di estrema sinistra in Portogallo che nel 1975 scalzò brutalmente il legittimo governo post-salazarista di Marcelo Caetano instaurando una brutale dittatura marxista-leninista, questo nuovo governo si affrettò a concedere l’indipendenza alle colonie di Angola e Mozambico, nonostante le proteste delle migliaia di coloni portoghesi che furono costretti dai nuovi governi comunisti di queste ex colonie ad abbandonare le terre che avevano civilizzato e coltivato. Il Mpla, movimento indipendentista di ultra-sinistra violentemente instauratosi al potere in Mozambico, concesse ai coloni di portare con sé solo “venti chili di bagaglio”.   

Oltre alle storie ben raccontate, uno altro merito del libro è quello di narrare l’Africa “decolonizzata” dell’Angola e del Mozambico così com’è nella realtà e non quella dei corrispondenti dei giornali mainstream che scrivono dalle terrazze dei resort sulla base delle veline dei governi di nuova indipendenza. Coccia quella parte d’Africa la conosce sul serio: ha battuto come ph (professional hunter) la savana e la boscaglia, ha marciato come corrispondente di guerra con i guerriglieri antimarxisti dell’Unita e del Flna in Angola e della Renamo in Mozambico, si è paracadutato in un villaggio per liberare dei bianchi presi in ostaggio, si è fatto affiliare da una tribù locale. Così Coccia riesce ad assumere i ruoli più diversi, come scrive Micalessin nella prefazione: “trasformandosi, di volta in volta in volta, da avventuriero a giornalista, da cacciatore a liberatore di ostaggi, da antropologo dilettante ad aspirante 007. Ruoli che lo portano a frequentare le sale di Ambasciate e sedi diplomatiche, ma anche i più reconditi accampamenti della boscaglia”. Venne anche imprigionato per settimane dai militari portoghesi golpisti e dichiarato “persona non grata” dalle nuove autorità.  

Così si narra di battute di caccia per liberare un villaggio da un feroce coccodrillo posseduto, dicono nella tribù, dallo spirito vendicatore di un marito tradito, del mondo dei white hunter alle prese con ricchi clienti di ogni tipo, dei contatti con diplomatici italiani in Angola che cercavano qualcuno che conoscesse bene il posto, in una capitale, Luanda, ridotta dalla decolonizzazione e dall’incuria dei neri a un immondezzaio: “La perla dell’Atlantico, come veniva definita la capitale angolana ai tempi del colonialismo, non esisteva più.” Dalla buona amministrazione portoghese, l’Angola e il Mozambico indipendenti caddero nella corruzione più diffusa. In Mozambico, migliaia di mozambicani vennero massacrati dagli anti-colonialisti e altri inviati in “campi di rieducazione”. La Chiesa postconciliare, “adattatasi ai tempi” come pudicamente scrive Coccia, aveva propagandato “il settarismo rivoluzionario”. Ciononostante, dopo la “decolonizzazione”, il nuovo regime “fece chiudere tutte le chiese, nazionalizzando istituzioni di culto, seminari e missioni cattoliche nella Repubblica democratica popolare del nuovo Mozambico.” 

Avvincente il racconto della liberazione del tecnico italiano Mario Ortolan, preso in ostaggio dai ribelli: dopo lunghe e difficili trattative con le sue conoscenze della guerriglia anticomunista, Coccia si fa paracadutare nel villaggio dove l’italiano viene trattenuto e lo libera secondo gli accordi presi con il capo della guerriglia. La Farnesina si attribuì il merito dell’operazione e la stampa si congratulò con i diplomatici italiani per il “brillante successo”. Solo La Notte diretta da Livio Caputo e Orlando Orlandini su Gente scrissero la verità sull’operazione. 

Particolarmente toccante è uno degli ultimi racconti del libro, il ritrovamento della sepoltura di Almerigo Grilz in Mozambico. Grilz, tra l’altro ex segretario del Fronte della Gioventù di Trieste ed ex consigliere comunale per il MSI, aveva fondato, con altri due triestini, Gian Micalessin e Fausto Biloslavo, un’agenzia giornalistica indipendente, l’Albatross. Per il coraggio dei tre free-lance, che andavano dove altri corrispondenti di guerra non osavano andare, i loro servizi, foto e filmati venivano acquistati dai principali media mondiali. Almerigo Grilz cadde nel 1987, colpito da una pallottola vagante, mentre documentava la guerra civile in Mozambico e là sepolto. L’Ordine dei Giornalisti non volle mai onorare la memoria di Almerigo. Scrive Coccia: “Era ingiusto, – e d’accordo erano i colleghi Franco Nerozzi, Gian Micalessin, Luca Vieri Poggiali, Fausto Biloslavo, Livio Caputo e non pochi altri – che si dessero solenni onoranze funebri soltanto a giornalisti che seguivano la “giusta” linea politica. Almerigo Grilz […] non apparteneva al gruppo dei politicamente corretti”.

L’idea di individuare con esattezza il luogo di sepoltura ottenne anche il convinto sostegno del senatore Alfredo Mantica, Sottosegretario agli Esteri e storico esponente del MSI milanese, che invitò l’ambasciata italiana a Maputo, capitale del Mozambico a dare il massimo supporto, anche finanziario, alla spedizione. Invece, nonostante la pressante di richiesta di Mantica, l’ambasciatore si rifiutò di prestare qualsiasi aiuto. Negò persino una colazione di lavoro. Solo dopo si saprà che l’ambasciatore Roberto Di Leo era accusato dall’opposizione antimarxista mozambicana di essere “un dannato comunista”. Giancarlo Coccia, Gian Micalessin e Franco Nerozzi, organizzatori e membri della spedizione, non si diedero per vinti e ottennero l’aiuto necessario da un’azienda privata. Nonostante che l’ambasciatore brigasse ancora per impedire la spedizione, questa partì egualmente.

Fortunosamente e tra molte difficoltà, vennero ritrovati sia il luogo ove Almerigo era stato ucciso, sia quello della sepoltura, sotto un grande albero. Racconta Coccia: “Restiamo un minuto in silenzio. All’ombra di questo albero africano riposano i resti del cittadino italiano Almerigo Grilz.” Amara è la conclusione del racconto: “Nonostante le promesse, nessun rappresentante del governo italiano […] ha mai promosso una campagna per erigere una stele, una pietra sulla sponda dello Zambezi per ricordare con due parole il nome di Almerigo Grilz.”

2 commenti su “Africa addio. Due libri sugli ultimi fuochi dei Bianchi in Africa”

  1. Appena uscirà in libreria acquisterò questo interessante libro a fumetti.
    Penso che manchi però un fumetto realistico sulla lotta del Portogallo contro la guerriglia negra finanziata e armata dall’URSS nel periodo 1961-1975 nelle sue tre colonie in Africa, che apprezzerei moltissimo.

  2. Una piccola precisazione: la “rivoluzione dei garofani” non fu scatenata da militari di sinistra ma dai soliti imbecilli moderati (Spinola in testa), che, dopo aver scatenato le forze dell’inferno, pensavano di poterle tenere sotto controllo. I vari Costa Gomes, Goncalves e De Carvalho saltarono fuori in un secondo momento, Il Portogallo si è salvato dal comunismo solo per gli errori politici di Cunhal e per il rifiuto di suggestioni frontiste da parte di Soares

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