ANCORA SUL LIBRO “APOLOGIA DELLA TRADIZIONE”. CORRADO GNERRE RISPONDE A PADRE CAVALCOLI

di Corrado Gnerre

apologia tradizione

 

Ho letto l’intervento di padre Cavalcoli sul recente libro di Roberto de Mattei, Apologia della Tradizione. Mi permetto di formulare alcune osservazioni.

La chiave della questione mi sembra molto semplice ed è riassumibile nell’interrogativo: la Tradizione contiene tutta la verità rivelata?

Se si risponde negativamente risulta evidente che non solo la Tradizione può svilupparsi, nel senso che si possano aggiungere ad essa nuove verità; ma che la Tradizione stessa potrebbe includere anche un progresso di tipo non necessariamente coerente, cioè contraddittorio. Per esempio, nel Geovismo si ammette che il dato rivelato non debba semplicemente essere approfondito, ma addirittura possa “bordeggiare”, cioè contraddirsi.

Se invece all’interrogativo di cui sopra si risponde affermativamente (così come si dovrebbe), allora non solo non si può aggiungere nulla alla Tradizione; ma nemmeno può ammettersi un progresso del Magistero in senso contraddittorio. L’unico progresso concepibile può essere solo nella continuità, cioè nella coerenza con gli insegnamenti magisteriali precedenti e con la Tradizione stessa.

Detto questo, mi permetto di focalizzare alcuni punti importanti per orientarsi bene nella questione.

  1. Fermo restando tutti i possibili approfondimenti e distinguo, mi sembra che abbia valore la convinzione che afferma che mentre il Magistero costituisce la “fonte prossima” della Rivelazione, la Tradizione e la Scrittura ne costituiscono le “fonti remote”.

  2. Una tale convinzione implica che, pur non essendoci differenza in ordine sostanziale e formale fra Tradizione e Magistero (la Tradizione è la dottrina di Cristo affidata agli Apostoli ed ai loro Successori – i Vescovi – sotto la guida del Successore di Pietro). Il Magistero rende “viva” la Tradizione applicandola alle varie problematiche che si realizzano nelle congiunture storiche. Sta al Magistero “attualizzare” la Tradizione, non inventando qualcosa di nuovo, né tantomeno tradendo ciò che è stato precedentemente affermato, ma “rinnovando” (nel senso di “rendere nuovamente nuovo”) gli eterni principi. Si può fare l’esempio della condanna della contraccezione chimica o delle questioni legate alla fecondazione artificiale, questioni che non sono state sempre presenti nella storia.

  3. In merito al Vaticano II non si tratta di non riconoscere quanto questo concilio sia legittimo ed ecumenico (con tutta l’autorevolezza che ciò comporta); bensì di tenere in considerazione alcuni punti fondamentali. Da una parte, la scelta di un linguaggio di tipo pastorale e non definitorio; dall’altra, il suo non voler definire nulla né mettere in discussione la dottrina di sempre: Giovanni XXIII disse esplicitamente che il Concilio non intendeva modificare nulla. A questi due elementi ne aggiungerei un altro, ovvero il fatto che in alcuni documenti si registra una palese insufficienza. Per esempio, quando si parla della nascita delle altre religioni, se ne evidenzia solo la genesi umana trascurandone anche la causa preternaturale, ovvero diabolica, che ha orientato negativamente lo sforzo dell’uomo di conoscere il divino. A tutto questo si aggiunge la crisi post-conciliare che non a caso è definita “post-conciliare”. In conseguenza di tutto questo è diventato necessario (per volere stesso di Benedetto XVI) un’ermeneutica della continuità. Ora, ermeneutica della continuità vuol dire fornirsi di un apriori, cioè di una chiave interpretativa che è appunto la continuità. Chediamoci: la continuità è la coerenza con cosa se non con la Verità perenne? Anche l’espressione “riforma nella continuità” non significa che si possano affermare verità “nuove” né tantomeno verità “in contraddizione” con ciò che è stato insegnato precedentemente. Tutto nel Vaticano II è in coerenza con ciò che è stato insegnato prima? Questo è un interrogativo ineludibile a cui si devono dare chiare e precise risposte.

  4. Detto questo, mi sembra esagerata ed ingiusta l’accusa di cripto-protestantesimo che padre Cavalcoli rivolge a Roberto de Mattei. Appellarsi alla Tradizione non vuol dire far fuori il Magistero per due motivi. Primo, perché –come abbiamo già detto- non c’è differenza né ontologica né sostanziale fra Tradizione e Magistero, e questo de Mattei lo afferma, come attesta lo stesso padre Cavalcoli all’inizio del suo intervento. Secondo, appellarsi ad un criterio di continuità (ciò è profondamente cattolico; sarebbe non-cattolico il contrario) vuol dire riconoscere l’autentico ed unico valore del Magistero, che è quello di insegnare la verità, di servirla conservandola e non modificandola o rendendola meno chiara. Il motivo che per cui Nostro Signore ha fondato la Chiesa e ha voluto la sua componente docente è la necessità che la Sua (di Cristo) Verità potesse essere depositata (cioè difesa) dal divenire della storia per poterla “ritrovare” intatta alla Sua Seconda Venuta. Se io regalo un orologio ad un amico, questi ne può fare ciò che vuole: anche smontarlo o barattarlo. Se però consegno ad un amico il mio orologio chiedendogli di custodirlo per poi riconsegnarmelo al mio ritorno, questi non potrà né smontarlo né barattarlo: me lo dovrà restituire così come gliel’ho consegnato.

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