Orwell

come il relativismo spiana la strada al totalitarismo.

Di Valerio Salvatori

Orwell“ Nel tuo diario scrivesti che libertà è la libertà di dire che due più due fa quattro. Garantito ciò, tutto il resto ne consegue naturalmente.”

“sì.”

“E se il Partito dice che due più due fa cinque, allora quanto fa?”

Con queste parole il torturatore O’ Brien inculca a Winston Smith, il protagonista del capolavoro di George Orwell 1984, il concetto di bispensiero.
Oggi questo termine ci ricorda appunto il maestro indiscusso della fantapolitica, forse in assoluto l’autore più imponente del Novecento, ma non ci sembra avere alcun riscontro con la realtà dei fatti né ci sembra che lo possa mai acquisire. Non è così: a ben vedere l’esperienza ci dimostra proprio il contrario, non solo il ricordo dei totalitarismi più brutali e pervasivi della storia, ma anche, in una certa misura, la realtà che viviamo nelle democrazie occidentali.
Il meccanismo del bispensiero è al medesimo tempo contorto ed immediato nel suo spaventoso automatismo. Un individuo assiste ad un evento, ne è testimone, conosce una determinata realtà derivata da fatti per lui inconfutabili. D’un tratto la comunità in cui vive afferma che quella realtà non esiste, distrugge i documenti e le prove materiali dei fatti che il soggetto in questione ricorda in virtù di quanto ha visto, udito o appreso. Si dirà che, nonostante tutto, niente e nessuno possa sottrarre all’individuo la sua memoria. Al contrario: è proprio a questo punto che interviene il bispensiero. Sarebbe semplicistico e fuorviante affermare che l’individuo si limiti a mentire, a negare l’evidenza al fine di evitare la persecuzione e di ingraziarsi il favore della sua comunità pur sovvenendosi perfettamente di quanto viene negato. Il soggetto non mente: egli crede, sa che le cose sono andate diversamente rispetto a quanto sapeva anche solo il giorno prima. Ciò non significa che crede di essersi sbagliato perché sa anche di aver sempre saputo quella che ora considera la verità. Egli sa ciò che tutti gli altri naturalmente sanno. Il meccanismo mentale cui va incontro è complesso perché presuppone due momenti: un primo momento in cui ci si dimentica di ciò che si sapeva in precedenza e un secondo in cui si acquisisce la conoscenza di ciò che si sa allo stato attuale. Per farlo il soggetto non si limita a dimenticare, cosa che porterebbe ad una non conoscenza, ma compie una vera e propria ricostruzione di una realtà alternativa, attività necessariamente consapevole in quanto coincidente con le istruzioni impartite dalla comunità che lo circonda, e subito dopo si dimentica della stessa operazione effettuata. Il risultato è una convinzione cieca e assoluta nelle menzogne professate e l’assenza di ogni possibile rimorso di carattere morale. È una questione di allenamento: una volta ripetuta più volte l’operazione il processo diventa automatico e indolore, ogni remora mentale o morale svanisce, il soggetto acquisisce il controllo totale della sua mente e lo pone a disposizione della collettività. Tramite il bispensiero l’individuo può arrivare a negare l’evidenza, può accettare e professare a sua volta nozioni che contrastano con la sua logica, col suo buonsenso e con la sua stessa esperienza. Basta che gli si dica in cosa credere.

“Sei lento a imparare, Winston” disse O’Brien, con dolcezza.“Ma come posso fare a meno…” borbottò Winston “come posso fare a meno di vedere quel che ho dinanzi agli occhi? Due e due fanno quattro.”“Qualche volta, Winston. Qualche volta fanno cinque. Qualche volta fanno tre. Qualche volta fanno quattro e cinque e tre nello stesso tempo. Devi sforzarti di più. Non è facile recuperare il senno.”

Il bispensiero altro non è che l’estrema applicazione pratica del relativismo novecentesco, contrapposto al realismo gnoseologico che ha dominato la mentalità occidentale dai Greci fino al XIX secolo. Per l’uomo del Novecento non esiste una realtà strutturata ed autonoma al di fuori di sé. Per i realisti l’uomo può percepire e conoscere questa realtà tramite i suoi sensi e, una volta apprese le sue regole, può accettarle e sfruttarle a suo favore, ma non può pensare di modificarle. Viceversa per i relativisti non esiste realtà al di fuori di quella creata dal pensiero umano. Ammesso che la realtà creata dal singolo uomo è destinata a perire con esso l’unica possibile verità che sia eterna ed immutabile è quella creata e accettata dalla collettività.

“Se io credo di volare, Winston, e tu credi che io voli, io volo davvero.”

“Il singolo è solo una cellula. La verità non è nella mente del singolo, ma in quella del Partito, che è collettiva ed immortale.”

Se questa realtà è immortale è anche immutabile? Così come la collettività crea la realtà, la può disfare e ricreare a suo piacimento, ma ognuna delle realtà che crea è eterna perché come tale viene pensata.
Jean-Pierre Vernant in Mito e pensiero presso i Greci (Einaudi 2001) sottolinea come per i Greci, i primi realisti gnoseologici, Mnemosyne, ovvero la Memoria, fosse una dea degna del massimo culto. Questo soprattutto nella società arcaica, ben prima che Aristotele la declassasse a semplice funzione mentale, in un tempo in cui all’oralità era affidato il ricordo del passato e in cui il rapsodo, l’aedo, il poeta era visto come un privilegiato dagli dei, un essere superiore. Il poeta per gli antichi non ha ricordi sbiaditi, grazie ad un superlativo esercizio della memoria riporta vivide alla sua mente le immagini del passato, del presente e anche del futuro. Egli può avere memoria dell’aldilà e del suo ritorno nel mondo, può espiare le colpe di tutte le sue vite precedenti e rompere il ciclo tirannico dell’Essere. La Memoria permette così di conquistare l’eternità superando la paura ancestrale di ogni essere umano: la soggezione al mutamento, al dolore e alla morte. L’analisi di Vernant trova riscontro, fra gli altri, nella filosofia di Empedocle (“io fui fanciullo e fanciulla, fui muto pesce del mare”), di Pitagora, per gli adepti del quale la memoria aveva proprio la funzione di espiazione e fuga descritta, di Platone, che racconta come anche l’ultimo degli schiavi possa, tramite l’anamnesi, sovvenirsi delle idee eterne ed immortali che gli hanno fatto compagnia nel mondo dell’Iperuranio, dal quale ogni uomo proviene. Nel mondo rovesciato di 1984, in cui il relativismo spiana la via al totalitarismo, non la memoria bensì l’oblio esercita la funzione di garantire l’immortalità, non al singolo uomo, bensì alla collettività, al Partito.

“Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato.”

Che cosa ha però il bispensiero a che fare con il nostro mondo? Qualche tempo fa mi è stato segnalato un numero di una rivista femminile settimanale, A, pubblicata da Rizzoli-Corriere della Sera, del 3 settembre 2009. Un giornale femminile di gossip e moda non è per definizione una raccolta di saggi e articoli dal contenuto particolarmente brillante, innovativo e trasgressivo. Si può dire, con buona approssimazione, che se un articolo capita su un settimanale del genere deve per forza riflettere la dottrina comune del popolino incolto e pigramente appiattito su posizioni intellettuali mediocri e ripetitive, l’equivalente di ciò che un tempo era rappresentato dai panegirici del Duce e della sua presunta lungimiranza. In una delle prime pagine era pubblicata, con tutti gli onori e con tanto di foto dell’autrice, una lettera indirizzata al direttore da una lettrice dal titolo E se alla fine tanga e burkini fossero la stessa cosa?. La lettrice descriveva una sua giornata in piscina traendone alcune conclusioni, brillanti quanto quelle che avrebbe potuto ponderare un vaso da fiori. Raccontava di aver provato ammirazione per due giovani donne musulmane, che descriveva come belle e, dato che rappresenta per le lettrici di quel giornale la qualità in assoluto più meritevole, snelle. Le due indossano un costume da bagno che ricorda uno chador, comunemente chiamato con un nome che denota leggerezza, per non dire stupidità, e pessimo gusto in chi lo ha coniato: burkini. Alle splendide ragazze che “sembrano delle nuotatrici con la supertuta indossata ai Campionati del mondo di Roma” la lettrice contrappone un’immagine descritta con disprezzo. “Poco lontano- scrive – spiaggiata come una megattera, c’è una signora italiana ispirata dal Vanna Marchi style. I suoi cinquant’anni abbondanti trovano insufficiente rifugio in un tanga marrone, che lotta intrepido contro la straripante cellulite”. Le islamiche, belle, snelle e anche pudiche, si qualificano così come l’essere superiore per eccellenza, quello che in altri tempi sarebbe stato l’ariano alto, biondo e muscoloso, mentre la signora italiana è non troppo implicitamente presentata come il simbolo di un’abiezione morale e di una stupidità arrogante e grottesca che si riflette anche sul piano fisico, come un tempo (ma in realtà sempre di più anche oggi) l’ebreo gobbo dal naso adunco e bitorzoluto e dal ghigno malefico. La lettera si chiude con una conclusione mellifluamente buonista, che appare conciliante ma che è in verità il punto più insidioso del pezzo: “Aspettando l’autobus per tornare a casa ho pensato all’orchessa –notare l’uso dei termini- in tanga e alle ragazze in burkini. Forse sono solo la dimostrazione che esistono modi molto diversi per sentirsi liberi. Anzi libere”.
Ecco che compare, sommesso eppure devastante nei suoi effetti, il bispensiero. Quest’ultima considerazione della lettrice della rivista non è un’osservazione innocua e non è isolata, come si evince dalla posizione che le è stata riservata sul settimanale e dall’assenza di contestazioni in merito. Il fenomeno non è limitato a quella rivista, ma è riscontrabile sempre più frequentemente in vari articoli, interviste di donne convertite all’Islam (come qualche anno fa la moglie dell’ex Imam di Carmagnola), trasmissioni, talk-show, telegiornali. Grazie al bispensiero la realtà viene ribaltata e nessuno si oppone. Al contrario, tutti professano allegramente la stessa tesi, forti del sostegno della collettività, del Partito. Un barbaro strumento di oppressione della donna, quale è il velo, burqa, niqab, hijab o chador che sia, è esaltato come simbolo di libertà. È irragionevole ritenere che qualcuno nel pieno uso delle sue facoltà mentali possa avere una simile convinzione. Il fatto che questa signora lo credesse davvero e fosse anche intimamente orgogliosa dell’espressione del suo aberrante parere denota l’uso del bispensiero. Così la realtà viene negata e rimpiazzata col suo esatto opposto, come nei più ridicoli e terrificanti slogan orwelliani: “la guerra è pace”, “la libertà è schiavitù”, “l’ignoranza è forza”, e, aggiungiamo, “il velo è libertà”.

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