Celtic contro la casa reale. Ovvero quelle ragioni cattoliche, mai tramontate, per detestare i Windsor

Di solito, fatico a mettere insieme tifo sportivo e appartenenze politiche, religiose o etniche. Dipende, mi dice chi la sa lunga, dal fatto che in fondo sono un po’anarchico. Probabilmente è vero, almeno un po’. Ma in gran parte dipende dal fatto che, quando si tratta di tifo, non riesco quasi mai a mettere d’accordo la pancia con la testa: ognuna va per conto suo. Sì, ci sono momenti o eventi perfetti in cui si trovano in sintonia, ma sono occasioni rare e non dipendono da una mia speciale attitudine.
Ragione in più per ammirare Paolo Gulisano che, invece, non sbaglia un colpo, Se Paolo ti dice che la tal squadra va tifata perché rappresenta proprio quello che tu pensi e credi per via delle sue origini, della sua storia e della sua vita attuale, ebbene quella squadra la devi tifare.
Circa il Celtic e la questione della corona britannica, però, non avevo dubbi di sorta a priori. Questo articolo di Gulisano, che riprendiamo dal sito Duc in altum e della cui pubblicazione ringrazio l’amico nerazzurro Aldo Maria Valli, non fa che mettere in bella copia ciò che, in perfetta sintonia, mi hanno detto la pancia e la testa ancor prima aver occhieggiato l’incoronazione del nuovo re d’Inghilterra. Concetto forse un po’ elementare che potrei riassumere con una brevissima formula: sotto gli ermellini niente.

Come ricorda Paolo in questo pezzo, c’è anche chi ha preso la parata per una cosa seria e, mettendo tra parentesi tutto quello che invece dovrebbe sempre tenere bene in evidenza, se ne è persino entusiasmato. D’altra parte, lo recita anche la testata dell’Osservatore Romano: “Unicuique suum”. E dunque “Viva il Celtic”. (a.g.)

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Da appassionato di calcio, non mi è sfuggito il coro che i tifosi del Celtic, la squadra della Glasgow cattolica, hanno riservato al nuovo re d’Inghilterra in occasione di un recente Old Firm, il derby contro i Rangers, la squadra della Glasgow protestante e lealista. I tifosi del Celtic, senza tanti complimenti, hanno cantato “You can shove your coronation up on arse!”, il che ha suscitato curiosità: perché un’opposizione così netta nei confronti della Corona?
Per rispondere, mi è venuto spontaneo rivolgermi a Paolo Gulisano, che non è solo medico e scrittore ma anche uomo di sport e che proprio al Celtic ha dedicato il bel libro Il prodigio di Lisbona. Da una periferia scozzese alla Coppa dei Campioni passando per Fatima. E pazienza se il prodigio di cui si parla è la vittoria del Celtic contro la mia Inter nella finale della Coppa dei Campioni del 1967.
Ecco dunque l’articolo di Paolo Gulisano per tutti noi di Duc in altum. A.M.V.

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Negli scorsi giorni, in vista della cerimonia di incoronazione del nuovo re d’Inghilterra Charles Mountbatten-Windsor, è diventato virale in rete un video della semifinale della Coppa di Scozia di calcio tra i Rangers e i Celtic di Glasgow, in cui i tifosi biancoverdi intonano a tutta curva un coro che invita il sovrano a cacciarsi la sua incoronazione in un posto dove non batte il sole. Il video ha avuto decine di migliaia di visualizzazioni, e ha fatto parlare di sé. Qualcuno l’ha considerata una goliardata, altri un’espressione della subcultura da stadio, altri si sono sentiti offesi per un gesto ritenuto volgare da parte di una tifoseria nota per essere tra le più corrette, pacifiche e simpatiche del mondo. Ma perché i tifosi della squadra di Glasgow nata in seno alla comunità cattolica della città scozzese, fondata da un religioso irlandese, fratello Walfrid, ce l’hanno tanto con la Corona britannica? E perché poi mischiare la politica con lo sport? In realtà, il gesto dei tifosi biancoverdi ha ragioni profonde che stanno nella storia delle Isole britanniche, politica compresa.

Il Celtic viene fondato, come si diceva, da un religioso che era un insegnante, ma che nella sua scuola di Glasgow di bambini ne vedeva davvero pochi, perché fin da piccoli venivano avviati ai lavori più duri nelle fabbriche e nelle miniere. Per la maggior parte i cattolici di Glasgow erano immigrati irlandesi. I cattolici autoctoni scozzesi avevano da tempo subito una persecuzione che li aveva uccisi, o costretti a passare al protestantesimo, o deportati nelle colonie americane. C’era stato un vero e proprio tracollo demografico, ma la crescente rivoluzione  industriale aveva bisogno di braccia, di forza lavoro a bassissimo costo per fare le fortune dell’Impero britannico, e così migliaia di poveri irlandesi erano giunti nelle principali città britanniche, spinti anche dal genocidio perpetrato a metà dell’Ottocento: una spaventosa carestia, dietro la quale c’erano precise responsabilità del governo inglese, aveva provocato la morte di un milione di persone, in un Paese di otto milioni di abitanti. E un altro milione era stato costretto a emigrare. Questo disastro umanitario era avvenuto senza che il governo di Sua Maestà aiutasse i suoi sudditi irlandesi; e la sua maestà del momento, la regina Vittoria, non si scompose di fronte alle notizie che provenivano dall’Isola di San Patrizio. In fondo, era opinione comune che quegli irriducibili papisti avevano avuto quel che si meritavano. E così a Glasgow gli irlandesi vivevano in quartieri poverissimi, flagellati dalla miseria, vessati e umiliati a ragione della loro fede cattolica. Fu in questo contesto che il buon fra Walfrid ebbe l’idea, nel novembre del 1887, di fondare una squadra di calcio, che giocasse partite il cui incasso sarebbe servito a organizzare mense per i poveri, e a fare in modo che bambini di sette-otto anni non fossero costretti a lavorare dodici ore al giorno senza poter andare a scuola. Il nome che fu scelto fu Celtic perché esprimeva la comune radice celtica degli scozzesi autoctoni e degli immigrati irlandesi. I colori erano il bianco e il verde, il simbolo un quadrifoglio, ovvero il trifoglio di san Patrizio che rappresenta la Trinità, ma con una foglia ulteriore. Una foglia di speranza.

Quella squadra, nata come espressione di tre parrocchie, una sorta di “squadra dell’oratorio”, ottant’anni dopo arrivò sul tetto d’Europa, conquistando la Coppa dei Campioni, e dando un pieno riscatto alla povera comunità presso la quale era nata. Il Celtic era entrato nella leggenda.

Ma a questo punto qualcuno si chiederà: perché tanto livore verso la Famiglia reale? Perché non accontentarsi (si fa per dire) di gioire dei tanti successi sportivi? Risposta: perché questa comunità ha perdonato, ma non dimentica.

La cosiddetta Famiglia reale inglese attuale discende da usurpatori che non avevano diritto a regnare né sulla Scozia, né sull’Irlanda, e neppure sull’Inghilterra. Alla morte della luciferina regina Elisabetta I, che non era semplicemente protestante ma una neopagana presso la cui corte c’erano negromanti e occultisti come John Dee, pirati come Francis Drake e sadici assassini come Francis Walsingham, il trono passò a un esponente della casata scozzese degli Stuart. Giacomo VI di Scozia, e I di Inghilterra, figlio della regina martire Maria Stuarda, salì al trono, ma accettando di diventare protestante. Quando tuttavia suo nipote, Giacomo VII, decise di tornare alla Fede dei Padri, i potentati britannici iniziarono una guerra mortale per eliminare la casata degli Stuart. L’Inghilterra non avrebbe dovuto mai più avere sovrani cattolici. Così il trono fu offerto prima a un principe olandese, Guglielmo d’Orange, e in seguito alla casa tedesca degli Hannover, da cui deriva l’attuale occupante di Buckingham Palace. Il quale ha anche usurpato il nome al vero Carlo III: l’ultimo Stuart a rivendicare il trono britannico fu il principe Charles Edward Stuart, nato in esilio a Roma, nelle cui vene scorreva il sangue della dinastia scozzese e per parte di madre quello dei sovrani polacchi Sobieski. Il suo bisnonno era stato il liberatore di Vienna dai turchi. Se Charles Stuart fosse diventato re, sarebbe stato lui Carlo III. Ma fu sconfitto, e la Scozia cattolica subì per ritorsione una spaventosa pulizia etnica.

Essere tifoso del Celtic vuol dire dunque avere nel cuore, nell’identità, il ricordo di secoli di persecuzioni, di ingiustizie, di violenze. Questo spiega la totale mancanza di simpatia per l’establishment britannico. Una simpatia che invece si riscontra in alcuni esponenti conservatori, e in modo piuttosto inverosimile, anche cattoconservatori.

Mesi fa, alla morte di Elisabetta, fu Roberto de Mattei a tessere lodi sperticate per la monarchia britannica, alla luce anche delle pompose manifestazioni pubbliche che avevano accompagnato la morte della sovrana. E il potere degli ermellini e delle spade ha conquistato anche un altro tory all’italiana, Marco Invernizzi, che ha scritto: “Provate a dimenticare il re Enrico VIII, che per cambiare moglie creò una chiesa nazionale, dimenticate per un momento i tanti martiri cattolici durante la persecuzione della regina Elisabetta I. Mettete da parte l’anglicanesimo, il protestantesimo e gli scandali recenti della famiglia reale…”.

Fu in una di queste parrocchie che nacque il Celtic, come pure la squadra cattolica di Edimburgo, l’Hibernian, formazioni sostenute dall’amore dei loro tifosi, che in maniera magari poco raffinata hanno espresso anche adesso, efficacemente, secoli di sofferenze in qualche canto e in qualche striscione.

Da parte nostra, tutta la nostra simpatia per la causa che il Celtic rappresenta. E in modo forse più sfumato, il nostro auspicio: God smash the King.

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