CERCO DIO SOLO, IL RACCONTO DEI GRANDI ORDINI MONASTICI (seconda puntata) – di Giuseppe Fausto Balbo

 

 

LA REGOLA DI SAN BENEDETTO

CUM OMNI MANSUETUDINE TIMORIS DEI

 

Cos’era un tempo un’abbazia benedettina?  Forse le parole più pregnanti in un biglietto attribuito a Carlo Magno e indirizzato a Paolo Diacono, monaco longobardo a Montecassino:

“Cerca la santa casa di Benedetto caro a Dio.

È fonte di sicura quiete per quelli che, sfiniti, giungono.

Qui vi sono erbe per gli ospiti, pesce, pane abbondante,

 pace sacra, animo umile e splendida concordia di fratelli,

 lode, amore e insieme adorazione per Cristo in ogni momento

Non è possibile guardare all’ordine benedettino così come possiamo immaginare un altro ordine religioso; fu Leone XIII a volere una struttura giuridica centralizzata per una realtà in cui però ogni monastero, sotto la Regola (534) dettata da San Benedetto(ϯ 547), gode di autonomia.  Le congregazioni monastiche che, dai tempi di Carlo Magno, riunirono gruppi di monasteri omogenei hanno sempre e comunque salvaguardato questa caratteristica propria della regola benedettina che, vista la sua capillare diffusione e l’influsso che il monachesimo benedettino ebbe in Europa, può dirsi a ragione uno degli elementi che hanno determinato quel bisogno di autonomia che caratterizza da sempre le comunità locali in Europa.

Solo dopo l’anno Mille sorgeranno congregazioni più centralizzate che, non a caso, non entrarono subito nella confederazione voluta da Leone XIII. Ciò che qualifica il monastero benedettino è la Regola.  Questi settantadue brevi capitoli si sono dimostrati facilmente adattabili ai vari contesti in cui la Regola è stata vissuta; già leggendo la vita di San Benedetto scritta da San Gregorio Magno ci rendiamo conto che l’immagine ottocentesca del monaco che gira per il chiostro con il cappuccio in testa è più il frutto di una fantasia di restaurazione che un reale dato di fatto.

Prendiamo solo un esempio riportato e disciplinato nella stessa Regola: la presenza di ragazzi affidati al monastero per essere educati. Un’abbazia del VII – VIII secolo non era un edificio imponente, la presenza di ragazzi, ospiti, servi eccetera non permetteva certo un modello di vita “teatrale”, tutto era molto concreto e rispondente alle necessità dei tempi. Anche se guardiamo a Cluny, il fenomeno monastico più celebre e imponente, la lettura attenta, per esempio, delle costituzioni liturgiche del monaco Ulderico (ϯ 1093) ci trasmette l’immagine di monaci in carne ed ossa intenti sopra ogni altro affare a coordinare ogni aspetto della loro vita per poter condurre una laus perennis a Dio, il resto era come doveva essere.

Nihil operi Dei praeponatur:  in questo precetto sta il tesoro della Regola e la sua motivazione fondamentale; su questo si è costruito il fondamento di quella civiltà che ha permesso quell’ordo amoris che caratterizza l’attenta armonia della vita prevista da San Benedetto e che tanto successo avrà presso coloro che cercavano aiuto e protezione nei monasteri.

In questo sguardo panoramico della realtà benedettina ci atterremo a questo criterio fondamentale che parte dall’esperienza vissuta da San Benedetto, il quale di fronte allo sgretolarsi della società romana tardo antica non sceglie di confondersi con essa per essere lievito, bensì sceglie la solitudine estrema (San Gregorio Magno ci ricorda che era arrivato al punto di non ricordarsi più quale fosse la data della Pasqua) per convertire se stesso, per cambiare se stesso, per diventare cristiano, per cercare Dio solo.

Il suo percorso di conversione ha una svolta quando arrivano i discepoli e di fronte alla nuova situazione decide constituenda est ergo nobis dominici schola servitii. È una palestra dove s’impara il servizio di Dio, dove ci si preoccupa dell’uomo unicamente per ricondurlo a Dio, si pensi a questo breve passaggio della Regola di un’attualità immediata e che ci permette un bell’esame di coscienza. Arriva un ospite al monastero, deve essere accolto come Cristo perciò tutti devono accorrere, ma: primitus orent pariter, et sic sibi socientur in pace; prima si preghi insieme e poi ci si scambi il bacio di pace e subito ne spiega il perché: Quod pacis osculum non prius offeratur nisi oratione praemissa, propter illusiones diabolicas.  Le illusioni del demonio sono a lì a due passi (che dire di quello che sentiamo oggi).

È chiaro che tutto ciò che parla dell’armonia tra i vari aspetti dell’esistenza: orari di lavoro, lettura, riposo, diatribe all’interno della comunità, attrezzi, dormitori, viaggi, cioè tutto quello che oggi attira molto l’attenzione (“ ‘Il buon manager si dà una regola: quella di San Benedetto’, con riferimento alla possibilità, prospettata da vari economisti, esperti di management, leadership e pianificazione aziendale, di applicare i principi della regola benedettina alla gestione dei problemi della società attuale” recitava la locandina di una recente conferenza) risulta secondario e acquista validità solo dal presupposto principale, e che oggi si nega,  svolgere l’opus Dei!  Il centro della vita del monaco (ma lo era anche dei primi cristiani) è l’opera di Dio, l’Ufficio Divino, questo è il mestiere dell’uomo.  Noi l’abbiamo sostituita con una parola ormai slavata: liturgia.

Se affrontiamo via web una visita virtuale in una qualche abbazia benedettina oggi esistente avendo sotto gli occhi la Regola si scopre subito una discrasia: non esiste monastero benedettino che segua non solo l’orario previsto da San Benedetto, ma neppure il criterio che ne è alla base.  Sì, perché le parole hanno un’anima, soprattutto quelle di San Benedetto!

L’orario previsto nella Regola ruota intorno alla celebrazione dell’opus Dei, alla quale tutto il resto dell’esistenza, lavoro compreso, deve coordinarsi. Cosa dispone San Benedetto? Che si segua il ritmo della luce e delle tenebre così come Dio l’ha iscritto nella psiche dell’uomo. San Benedetto prevede uffici divini di ampiezza diversa che devono essere calibrati con la lunghezza delle ore in inverno o in estate riuscendo in questo modo ad armonizzare Creatore e creatura.

La preghiera della comunità deve essere in armonia con il creato e non si tratta tanto di un’aderenza letterale ad un testo giuridico del VI secolo, ma di cogliere in quelle parole del VI sec. un aggancio più profondo a Dio: l’innesto in Dio. Conformandosi al ritmo della natura l’uomo partecipa della vita di Dio così come Dio l’ha pensata per lui: quale teologia! Noi invece siamo diventati schiavi degli orologi e corriamo, corriamo, dove?

La preghiera del singolo monaco è altra cosa dalla preghiera comune corale e ha una considerazione a parte; San Benedetto ne parlerà affrontando il tema della Chiesa del monastero con parole concise e precise che suonano oggi come un monito a ciò che la chiesa corrente sta facendo delle chiese: Oratorium hoc sit quod dicitur, nec ibi quicquam aliud geratur aut condatur, la Chiesa sia quello che dice il suo nome, quindi in essa non si faccia né si riponga altro.

Con questo baricentro divino i monaci benedettini hanno, come si dice giustamente, civilizzato l’Europa, forse pochi lo sanno, ma molte delle cose che rendono gradevole la nostra vita sono nate dai monasteri che hanno seguito la Regola di San Benedetto.

La Regola benedettina è una miniera e ogni capitolo, soprattutto da affrontare sono quelli che possono apparire più ostici e lontani alla nostra sensibilità culturale, basti pesare a quelli sulla “scomunica”, là dove San Benedetto si occupa dei monaci che creano (o hanno) dei problemi (diremmo noi “comprtamentali”) rivelando a un esame attento una sapienza spirituale che non si può sminuire. Tutto questo impianto si regge sulla Fede, quella che non deve essere interpretata o aggiornata o cambiata.

Cum omni mansuetudine timoris Dei così dipinge San Benedetto il ritratto del portinaio del monastero. Solo la delicatezza che proviene dal timor di Dio può caratterizzare la persona che, stando alla porta del monastero, occupa il posto più delicato perché è alla porta del mondo, a contattato con chiunque e unicamente con il timor di Dio potrà rispondere alle richieste con premura e il fervore della carità. Ma stiamo parlando di un altro mondo!

San Benedetto conclude la sua regola domandandosi: Quae enim pagina aut qui sermo divinae auctoritatis veteris ac novi testamenti non est rectissima norma vitae humanae?  C’è, infatti, una pagina, anzi una parola, dell’antico o del nuovo Testamento, che non costituisca una norma esattissima per la vita umana? Che dire?  Parole “silenziate” per far posto ad altre, anche dalla cattedra più alta!

Cosa ci può consigliare San Benedetto? Lui che, come ricorda San Gregorio Magno, era stato deluso da Roma non trovandovi altro che persone sbandate e rovinate dal vizio, “appena posto un piede sulla soglia del mondo: lo ritrasse immediatamente indietro” poiché aveva come unica ansia quella di piacere a Dio solo, ci ricorderebbe le ultime parole della sua Regola: Chiunque tu sia, dunque, che con sollecitudine e ardore ti dirigi verso la patria celeste, metti in pratica con l’aiuto di Cristo questa modestissima Regola, abbozzata come una semplice introduzione e con la Grazia di Dio giungerai finalmente a quelle più alte cime di scienza e di virtù, di cui abbiamo parlato sopra. Amen.

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