Dalle Femen alla conquista del potere. Evoluzione del femminismo radicale

Vi ricordate le Femen? Quel gruppo di femministe ucraine arrabbiate, cristianofobe, abortiste, aduse a urlare il loro odio a seno nudo e pittato con scritte contro Dio, contro la Chiesa, contro gli uomini. Quel gruppo che fece irruzione nel febbraio del 2013 nella Cattedrale di Notre Dame, urlando bestemmie e cercando di rovinare a bastonate delle campane dorate esposte nella chiesa, per “festeggiare” le dimissioni di Benedetto XVI e l’approvazione delle “nozze” tra sodomiti in Francia. Vennero fermate, ma subito rilasciate. Processate, la giustizia francese, laica e giacobina le assolse. In compenso condannò per violenza tre addetti alla sicurezza della cattedrale, che le avevano spinte fuori dalla chiesa. Esultanza delle fanciulle che twittarono: “Cari cattolici, cara Notre Dame, caro Dio, Femen ha vinto il processo”.

Prima ancora, avevano protestato a Milano, con le consuete popputesche modalità, contro il mondo della moda. A Kiev contro una legge sull’aborto. Durante il Conclave, nel 2013, a Roma. Poi a Vienna, a Varsavia, a Londra, a Istanbul, a Berlino. Due volte a Milano hanno cercato di aggredire Silvio Berlusconi nel seggio elettorale ove votava in occasione delle elezioni: nel 2013 e nel 2018. Nel 2017, alla vigilia di Natale, hanno cercato di rubare il Bambin Gesù dal Presepe in piazza San Pietro a Roma, urlando “Dio è donna” e altre orribili bestemmie. Salvate dalla polizia dal linciaggio della folla. 

Sempre fermate, sempre rilasciate. C’è una sorta d’impunità transeuropea a favore di chi, in nome del femminismo, compie atti osceni e sacrileghi, aggredisce, bestemmia, disturba manifestazioni. Il sindaco di Parigi, la socialista Anne Hidalgo, ha addirittura assegnato loro, nel 2017, un Premio Internazionale della Municipalità di Parigi. Solo una volta hanno rischiato grosso: proprio nella loro Ucraina, quando a Kiev cercarono di tagliare con una motosega una grossa croce eretta dagli ucraini in ricordo delle vittime del comunismo. Le autrici del gesto, ricercate dalla polizia ucraina, dovettero fuggire a Parigi. 

Coraggiose volontarie disposte a sacrificarsi per il loro credo abortista, laicista, libertario, antirazzista, omosessualista, anticristiano? Neanche per idea. Una giornalista ucraina, infiltratasi tra le Femen, ha documentato che le “attiviste” sono selezionate seguendo rigidi criteri caratteriali ed estetici, spesso provenienti dal mondo della pornografia e della prostituzione, seguono un training su come infiltrarsi tra la folla, come denudarsi dinanzi alle telecamere, cosa urlare, cosa scriversi addosso, come evitare le reazioni della gente e non rischiare linciaggi, come comportarsi con la polizia. Hanno tutto spesato: vitto, alloggio, viaggi, hotel, cosmesi. Percepiscono circa 1.000 euro al mese (tantissimo per l’Ucraina, ove lo stipendio medio si aggira sui 500 euro), mentre le dipendenti della “sede centrale” di Kiev arrivano a percepire 2.500 euro. 

Inventore e padrone delle Femen è tale Viktor Sviatski, un inquietante “uomo d’affari”. Chi mantiene la costosa baracca? Alcuni giornalisti hanno seguito la traccia del denaro, proveniente dagli USA, usato per pagare le discinte attiviste. E, guarda un po’, è spuntato il nome della solita Open Society del solito Soros. 

Simile alle Femen è il gruppo russo punk-rock delle Pussy Riot (letteralmente: rivolta della vagina). Contrariamente alle Femen, sono vestite e anche incappucciate, per non farsi identificare durante le loro manifestazioni femministe e violente contro Putin, il Cristianesimo, la Chiesa Ortodossa e il Patriarca di Mosca. Molte sono le loro “operazioni”: canzoni oscene e blasfeme in luoghi pubblici, aggressioni a poliziotti, invasione del campo durante la partita di finale di Coppa del Mondo Croazia-Francia. Ma la loro esibizione più famigerata è stata certamente, nel marzo 2012, l’invasione della Cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca interrompendo una cerimonia religiosa, cantando una irripetibile canzone sacrilega contro la Madonna e il Sacrificio Eucaristico, insultando il Patriarca Kirill con l’epiteto di “puttana”. 

Arrestate dalla polizia, con la Chiesa Ortodossa (il Patriarca definì l’azione delle Pussy Riot “blasfema e demoniaca”) e l’opinione pubblica russa indignata che chiedeva una pena severissima, al processo venne irrogata loro una condanna tutto sommato mite di due anni di detenzione (la pena massima prevista per i reati di cui erano accusate è di sette anni).

Ovviamente, tutto il circo politico-mediatico occidentale, in odio alla Russia e alla religione, si schierò con le attiviste punk-rock, dall’amministrazione statunitense al cancelliere tedesco Angela Merkel, dalla solita Amnesty International all’OSCE, dall’Unione Europea con una dichiarazione dell’Alto rappresentante per la politica estera, al mondialista Financial Times. Non potevano mancare le firme di solidarietà di famosi “artisti” come Madonna, Paul McCartney, Yoko Ono e altri. Per tutti costoro l’irruzione in una cattedrale, l’interruzione di una cerimonia religiosa, le bestemmie, gli insulti al Patriarca e alla religione sono atti eroici da approvare. Da notare che le “povere carcerate” tornarono poi in libertà per un’amnistia voluta dal “cattivo” Putin.

Poi, improvvisamente, questi gruppi teppistico-femministi sono scomparsi. Le loro esibizioni sono cessate. Nessuna notizia di loro sulla stampa. Perché? Perché non servivano più. L’anticattolicesimo si è attenuato dopo l’ascesa di Francesco, percepito, a ragione, come “non nemico”, anzi, “quasi-amico”, dal mondo liberal, genderista, omosessualista. 

Ma soprattutto queste forme di femminismo “teppistico” non servivano più per il semplice motivo che il femminismo si è saldamente installato nei gangli direttivi della società, ha trionfato nei mass media, nell’editoria, ovunque si generi controllo, diretto o indiretto, intellettuale o civile, della società. Assieme all’omosessualismo e all’antirazzismo è componente principale della feroce dittatura del politicamente corretto. È l’ultima ondata di un femminismo rancoroso, vendicativo, punitivo. Ferocemente antimaschile, odiatore della maternità, che rifiuta e vuole distruggere il “maschio bianco”, il Padre, svalutare il ruolo maschile e, soprattutto, la mascolinità come principio. 

È un’onda lunga, che nasce da lontano: già nel 1967 la femminista Valerie Solanas pubblicò Scum, un “manifesto per l’eliminazione del maschio”, in cui suggeriva di “distruggere il sesso maschile”, tutto composto da “porci”. “Cancellate i maschi” divenne da allora il grido delle femministe. Una femminista francese, Pauline Harmange, ha recentemente scritto un libro dal titolo significativo: Moi les hommes, je le déteste. Per queste dolci fanciulle tutti i maschi sono, per natura, violenti e violentatori, pericolosi. Senza di loro il mondo sarebbe migliore. 

Tuttavia, considerato che l’attuazione del programma delle femministe “massimaliste” di eliminazione totale del maschio potrebbe essere piuttosto complicata (“vaste programme” avrebbe detto de Gaulle) e non del tutto priva di rischi anche per la sopravvivenza delle stesse donne, ecco allora spuntare il “piano B”: la devirilizzazione dell’uomo, la sua “rieducazione”, l’eliminazione dei valori maschili, la femminilizzazione. Come scrive Roberto Pecchioli, “la morte del padre, quindi della legge, della trasmissione”. Lilli Gruber, nel suo libro Basta! Il potere delle donne contro la politica del testosterone, titolo che è già un programma, lo afferma in modo assertivo: gli uomini “devono essere rieducati”. Titolo del magazine “Io Donna”: “Maschi da educare”. L’edizione online di “Repubblica” si dedica alla pedagogia devirilizzante: “Diciassette consigli per educare i figli (soprattutto maschi) al femminismo”. L’uomo fragile, demascolinizzato, diminuito, l’uomo “fiocco di neve” viene addirittura esaltato dal “filosofo” Leonardo Caffo: “Maschi fragili dunque non più come sinonimo di debolezza, ma di bellezza”. 

Tutto questo non può non portare a un “lavaggio del carattere”, a una forzata “demascolinizzazione” attraverso una rieducazione nel profondo, all’imposizione, pena la messa al bando della società e il linciaggio mediatico e talvolta anche fisico, di un modello di “non-maschio” voluto dal femminismo imperante, la richiesta costante di vergogna sociale per essere “maschi bianchi, eterosessuali e cristiani”, l’auto-colpevolizzazione continua. L’opera di rieducazione è già iniziata anche in Italia. Ci informa “Libero” che a Roma i post-radicali di +Europa, con l’adesione di altri partiti della sinistra come il PD, Italia Viva, Azione, Verdi, hanno organizzato un “seminario-laboratorio”, la cui partecipazione è, per ora, su base volontaria, intitolato “Femministi!”. Durante questo epocale evento didattico: “i partecipanti hanno esperimentato con esempi pratici, giochi di ruolo e la tecnica innovativa del forum teatro i privilegi maschili”. Scrivono Andrea Assaloni e Domenico Di Tullio nella loro introduzione a “La via degli uomini” di Jack Donovan: “il potere – anche quando ha un volto maschile – […] cerca di normalizzare gli uomini indirizzandoli verso passatempi innocui e promuovendo culture e valori non maschili: femminismo, globalismo, egualitarismo, individualismo e consumismo”. 

È un gigantesco processo di ingegneria sociale, un forzato orwelliano cambio di mentalità attraverso la menzogna, la dittatura di parole falsificanti (basti pensare al fuorviante termine “femminicidio”, fatto entrare a forza nel lessico comune), la censura che, se ripetuta e insistita, diventa poi autocensura: “queste cose, anche se vere, non si possono dire”. E, purtroppo, il progetto sta riuscendo. Scrive l’intellettuale francese più perseguitato dal regime macroniano-socialista, Eric Zemmour: “La società unanime sta domandando agli uomini di rivelare la femminilità che è in loro. Con sospetta, morbosa e stupefacente buona volontà gli uomini stanno facendo del loro meglio per mettere in atto questo programma ambizioso: diventare una donna come le altre.” 

Questa femminilizzazione è una componente del più ampio processo di dissoluzione della nostra civiltà attraverso la distruzione dei suoi principi di sempre. Scrive ancora Zemmour: “I valori tradizionalmente maschili, ovvero forza, dignità, autorità e poi l’onore, l’audacia sono ostracizzati, messi alla berlina, associati al ricolo o alla violenza”. E mette in luce come il femminismo sia anche organico all’ideologia omosessualista-genderista: “Dopo quarant’anni di evoluzione, la femminilizzazione della società, chiaramente sotto le vesti dell’uguaglianza, è diventata il dominio della norma omosessuale. Vi è da un po’ di anni un dominio ideologico e culturale dell’universo gay: la norma eterosessuale deve scomparire e deve essere sostituita dalla norma omosessuale.” 

Sempre più spesso si sente parlare di “mascolinità tossica”. L’American Psychological Association (la stessa associazione che, nel 1973, derubricò l’omosessualità dalle patologie psichiatriche, dando il via alla successiva “santificazione” degli omosessuali e nel 2013 ha stabilito che la pedofilia è “un normale orientamento sessuale”) ha invitato i suoi iscritti a imporre a ragazzi e uomini a perdere la loro pericolosa “mascolinità tradizionale”. 

Quello di combattere questa presunta “mascolinità tossica” è l’obiettivo dichiarato di una pubblicità della Gillette del 2019: una sequela banalizzante di luoghi comuni, intrisa di ideologia femminista di disprezzo per presunte figure “machiste”, una serie di stereotipi grotteschi sul “maschio-maschio”. Quel che non si capisce è il senso commerciale dello spot, visto che si rivolgeva a una platea maschile: provocazione, desiderio di compiacere i Dittatori (e le Dittatrici) del pensiero, una direzione marketing dominato da femmine arrabbiate non controllate dalla proprietà?  

Certo è che questa pubblicità, che ha mandato in visibilio alcune giornaliste femministe, comportava una pesante dose di autolesionismo commerciale, perché è facile supporre che molti maschietti, irritati (per non dir di peggio) per essere ridicolizzati da queste rappresentazioni ispirate alla più becera propaganda femminista, abbiano deciso di rivolgersi alla concorrenza. 

Un episodio che ben illustra la vittoria sociale del femminismo, la sua presa totalitaria sulla società e sui mass media, il suo disprezzo per ogni senso comune, la sua certezza di una opinione pubblica disposta a credere a ogni cosa (o comunque obbligata a farlo), è stato quello del Me too. Tutti ricorderete il caso, in USA ma anche in altri paesi: alcune signore, alcune delle quali già attempate se non proprio vegliarde, ma tutte livide di rancore per gli uomini e/o desiderose di generosi indennizzi, si ricordarono improvvisamente, una dopo l’altra, a valanga (“me too, me too”, “anch’io, anch’io”) di violenze subite anni prima, magari decenni prima. Ovviamente i “violentatori” erano tutti grandi imprenditori, alti dirigenti d’azienda, attori e registi di successo, tutti facoltosi. 

In questa caccia all’uomo, riferisce Francesco Borgonovo nel suo libro L’era delle streghe, vennero e mandati alla gogna 414 presunti molestatori. 190 di questi sono stati licenziati o costretti a smettere di lavorare. Altre 122 messi in congedo, sospesi o sottoposti a indagini. Reputazioni, carriere, famiglie, patrimoni rovinati. Il tutto senza una prova vera. “La grande inquisizione anti molestie è servita, sostanzialmente, per falcidiare un’intera classe dirigente”, scrive Borgonovo. Ovviamente, nelle loro posizioni di rilievo “sono stati rimpiazzati da donne (come nel caso di Weinstein) o comunque da dirigenti apparentemente più “sensibili” alla questione femminile”. Una spregiudicata modalità per fare carriera. 

Documenta il giornalista Carlo Formenti che il femminismo è oggi “un fattore insostituibile del dispositivo politico ed economico del capitale” e che “molte prestigiose leader femministe vengono cooptate in una tecnocrazia globale (organismi multilaterali, agenzie di finanziamento, Banca Mondiale, Ong, ecc.) che offrono loro ghiotte opportunità di carriera.” 

È un dato di fatto che il femminismo di ultima generazione, rancoroso, talvolta lesbico, spessissimo single, ferocemente anti-maschile, che chiede la “femminilizzazione” degli uomini, la loro “castrazione civile” per ridurli a gentili, scodinzolanti “servitori cortesi” ha origine nella classe abbiente, urbana e alla moda, nella sinistra “sex and the city”, nei campus e nei college ormai preda della “cancel culture”, tra le file di una sinistra liberal arroccata nei quartieri senza immigrati e sempre più lontana dai bisogni di un popolo ritenuto rozzo e ignorante perché vota Trump e crede nei valori tradizionali (“basket of deplorables” lo definì con snobistico disprezzo Hillary Clinton). 

Gli esiti sono quelle femministe che odiano tutti coloro che non la pensano come loro e che cercano di impedire le conferenze degli anti-abortisti urlando “abbasso la libertà di parola”. Questo femminismo prodotto della upper class consumista delle grandi metropoli, dei media mainstream, delle università, delle banche d’affari, dei grandi studi di avvocati, ovviamente tutti progressisti, da una sinistra liberal, sradicata, che odia le identità, la morale tradizionale, la famiglia, che ha inventato l’ideologia maligna del gender, l’antirazzismo violento dei Black Lives Matter, la distruzione dei monumenti, la cancel culture, ferocemente atea e anticattolica. 

Non è vero che non si possa fare nulla. Scrive Marco Tarchi sulla sua rivista Diorama: “Per rompere questo assedio, che va assumendo una intensità asfissiante, occorre raccogliere la sfida in ognuno dei contesti in cui essa si manifesta, non dissimulare le proprie opinioni critiche verso questo aspetto dello spirito del tempo in cui ci troviamo a vivere, non arrendersi ai tabù, smascherare le argomentazioni ipocrite di cui questo velenoso progetto s’ammanta. […] Ne va della sopravvivenza della stessa civiltà umana. Ogni contributo, anche microscopico, a questa “buona battaglia” può risultare indispensabile per non perderla”. 

Possiamo, ad esempio, non usare il lessico della dissoluzione, le parole-trappola che inoculano i disvalori della perversione (“femminicidio”, “maschilismo”, “sessismo”, “gay”, “omofobia” e così via), non comprare i prodotti la cui pubblicità trasmette messaggi femministi e omosessualisti, sostenere l’editoria non-conformista. Lo possiamo fare tutti. Dobbiamo farci portatori visibili di valori e ideali antitetici alla malvagità liberal e comunicarlo, senza paura. 

Scrive Roberto Pecchioli nel suo saggio Elogio dell’appartenenza: “riportare il padre al centro, rivalutare i valori maschili, ritornare a Ulisse che ristabilisce la legge sconfiggendo i signorini viziati, i Proci. Ci vogliono donne come Penelope e guerrieri come Ettore”. Anche se non siamo Ulisse, Penelope o Ettore, qualcosa possiamo fare anche noi. 

3 commenti su “Dalle Femen alla conquista del potere. Evoluzione del femminismo radicale”

  1. Eccellente articolo.

    Il femminismo è stato propedeutico all’affermazione dell’omosessualismo.

    Il radicale mutamento della donna occidentale, accennato nell’alta società di inizio Novecento, poi diffuso nelle masse attraverso il ’68, ha costituito qualcosa di molto simile alla realizzazione sociale dell’androgino.
    Significative le parole della femminista Gloria Steinem: “Siamo diventate noi stesse gli uomini che volevamo sposare”.
    Se si assume che uomini e donne siano uguali (A=B), e che uomini e donne possano sposarsi, perché non dovrebbero potersi sposare donna con donna, uomo con uomo?
    Il matrimonio omosessuale è diventato ora socialmente accettato perché, in un certo senso, si è assottigliata l’eterosessualità nei rapporti tra uomo e donna. Uomini e donne esercitano le stesse professioni, si vestono spesso allo stesso modo, sono socialmente condizionati per fare le stesse cose.
    I pochi, pochissimi figli che nascono sono piazzati a pochi mesi di vita in asili nido e offerti all’educazione di massa del sistema scolastico. Prassi mirabilmente efficiente.
    Gli individui sproloquiano di “parità di genere” come fossero personaggi del romanzo “Il Mondo Nuovo”, soggetti ad ipnopedia.

    Il femminismo – quale processo di mascolinizzazione – è diventato intrinseco alla donna occidentale, e sarebbe ingenuo pensare che ciò non abbia prodotto conseguenze sugli stessi uomini.
    La gran parte degli uomini tuttavia, persistendo nel desiderare la donna femminile, si pongono quale ostacolo alla realizzazione della distopia; e sono sempre di più coloro che preferiscono il celibato alla comune donna occidentale.

    Ma la femminilizzazione dell’uomo, necessaria al nuovo modello antropologico, oggi manifesto, è destinata a fallire.
    Continuerà allora la crescita di celibi, nubili e culle vuote, espressione di una guerra senza alcun vincitore.

    Invero il disprezzo verso la madre-donna tradizionale e la correlata esaltazione della donna emancipata non costituiscono una novità storica (tale fenomeno si verificò, ad esempio, in Roma antica). Sono anzi uno dei più evidenti segni di decadenza della civiltà che avrà fine soltanto attraverso un’opera collettiva di purificazione spirituale, ovvero con l’ingresso di altri popoli, chiamati a colmare gli spazi lasciati vuoti dagli indigeni infedeli alla Tradizione.

    Il femminismo insomma è simile a un virus introdotto in un organismo sano: inizia a moltiplicarsi, cresce, e infine pervade l’intero organismo, provocandone la morte.
    Un virus che avrebbe potuto essere facilmente debellato, se almeno noi cattolici europei avessimo perseverato nella fedeltà ai paradigmi della famiglia cristiana, ben espressi dalla “Casti Connubii”.
    Se avessimo.

    1. Don Ettore Barbieri

      Sì movimento femminista e omosessuale sono andati a braccetto per molto tempo, anche se una parte del femmismo si è accorta di quanto l’ideologia gender sia in realtà contro le donne, ad esempio Marina Terragni o anche il Comitato anti genre francese.

  2. Macron lancia il progetto del Green Pass mondiale, obbligatorio (cioè vaccinazione o morte sociale…)
    Zan e Letta vogliono mettere in galera i cattolici e tutti i dissenzienti dalle loro folli idee (totalitarismo)
    In questo quadro apocalittico, da inferno in terra, ecco una riflessione consolante di Tralcio, blogger di Chiesa e Postconcilio:
    “Dobbiamo aver fede! Pensiamo forse che il Signore dorma?
    Il nemico ha sempre più fretta. Ha gettato la maschera. Sono entrambi buoni segni.
    Il tempo stringe per chi non ne ha di eterno, se non l’eternità dannata.”

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