Facebook e il Giudizio Universale – di Roberto Pecchioli     

L’essenziale è invisibile agli occhi, dice Antoine Saint Exupéry nel Piccolo Principe. Sembra che sia veramente così. È talmente sovrabbondante il flusso di immagini e informazioni che l’essenziale sfugge più di prima; ancor più viene meno il giudizio. Le reti sociali rafforzano tale convinzione. L’essenziale è l’incredibile miscela di censure, bugie e inganni nascosta nella massa informe di dati da cui siamo sommersi. Quello che stiamo per scrivere è tanto bizzarro che a molti sembrerà sufficiente una risata, o un commento salace sulla supposta stupidità delle macchine. Come sempre, la verità è più complessa e davvero inquietante.  Un gruppo culturale formato su Facebook ha deciso di postare un breve testo filosofico accompagnato da un sintetico commento. Piacevolmente sorpreso dal gradimento degli utenti, l’amministratore del gruppo, per aumentarne la diffusione, lo ha trasformato in annuncio, unendo un’immagine del Giudizio Universale di Michelangelo. In quella forma, il contenuto è soggetto all’approvazione di chi dirige la rete sociale.  Che ci crediate o no, non hanno approvato l’annuncio. Non ammesso, benché non contenesse insulti, diffamazioni, messaggi di odio o violenza. La ragione è stata presto spiegata dal messaggio recapitato al mittente: non sono consentiti annunci in cui appaiano persone che mostrino troppa pelle. Proprio così, seguito dal bonario invito della Grande Madre digitale: ti consigliamo di utilizzare un contenuto che dia risalto al tuo prodotto o servizio più che al modello. Un interessante esempio di lingua di legno predisposta e preconfezionata, nella quale il “modello” è l’affresco più conosciuto della storia dell’arte e un testo di natura filosofica è equiparato a un comunicato pubblicitario. Il prodotto, par di capire, è la prestazione artistica di Michelangelo. Il primo impulso è ridere amaro. Il genio del Buonarroti non è tutelato da diritti d’autore e la cappella Sistina non risulta in vendita, quanto meno non fa parte dei luoghi di culto di cui il signore argentino di professione papa intende disfarsi.  Il dramma è che l’onore di Dio, protagonista dell’affresco, il “prodotto” inserito nell’annuncio dei malcapitati clienti di Mark Zuckerberg, è affidato a una macchina, un apparato che non sa altro se non ciò che gli è stato insegnato in forma di algoritmi e messaggi binari. Oppure, se il messaggio è stato scelto dal menù di risposte a disposizione di un osservatore “umano”, è in mano a ignoranti con delirio di onnipotenza o a cretini funzionali. Il malcapitato amministratore è rimasto gelato dalla grottesca motivazione del rifiuto, che avrebbe mandato in sollucchero i censori politici di ogni epoca, ma non si è perso d’animo e, resosi conto che probabilmente la risposta proveniva da una macchina “intelligente” è ricorso alla casella in cui si può contestare l’esclusione, scrivendo: “vi rendete conto di ciò che fate? Avete eliminato l’annuncio in quanto ‘mostra troppa pelle’! È il Giudizio Universale di Michelangelo. Si trova a Roma nella Cappella Sistina dove i cardinali eleggono il Papa”. L’annuncio è stato rifiutato per la seconda volta, ma dopo un po’, qualcuno, crediamo un essere umano in carne e ossa di media intelligenza, ha riletto le lamentele, forse persino l’annuncio “bannato” e ha scritto, dall’alto di un potere incommensurabile, paragonabile a quello del Creatore raffigurato da Michelangelo, un tranquillizzante “abbiamo riconsiderato la questione. L’annuncio è approvato”.  Deo Gratias. Imprimatur, si stampi, era il timbro della Chiesa per le pubblicazioni approvate. I rappresentanti del buon Dio sono sostituiti dai server di Mark Zuckerberg con poteri assai più estesi. Restiamo in attesa di capire se la pelle delle braccia del grande guru, che ama essere ripreso in maglietta, possano essere approvate dai pudibondi algoritmi della sua creatura.     È un tempo in cui l’immagine di Dio e la custodia dell’arte è affidata a un apparato tecnico che identifica esseri umani, o meglio visualizza e processa immagini umane, analizza se sono nude e vestite e, a partire da quell’unico criterio, agisce senza farsi altre domande. La sentenza proveniente dall’oscurità tecnica è severa. Se provenisse da un esemplare dell’antiquata specie umana, immagineremmo la fronte aggrottata del giudice, il cipiglio severo e il martelletto che batte sullo scranno: il Giudizio Universale mostra “troppa pelle”. Ohibò.  Eppure sappiamo che certe macchine sono perfettamente in grado, se non di pensare, di incrociare ed elaborare dati. Sulle reti sociali è del tutto normale, finanche legittimo, digitare indisturbati ogni sciocchezza, insultare chiunque, augurare morte e rovina, minacciare chi “non mi piace”, inappellabile sentenza il cui simbolo sinistro è il pollice verso che significava morte nelle arene romane di due millenni fa. È ammesso mentire, diffondere falsità su chiunque e su ogni accadimento. Tutto questo avviene milioni di volte al giorno senza inconvenienti, Ma la macchina non distingue (non può o non vuole poiché così è programmata) tra il Giudizio Universale e la pornografia. Certo analoga censura, “mostra troppa pelle”, avrebbe colpito il Cristo Crocifisso di Diego Velàzquez o quello di Gruenewald, altre vette della pittura di tutti i tempi, con l’aggravante che i “prodotti” dell’artista sivigliano e di quello tedesco potrebbero essere accusati di diffondere immagini raccapriccianti o incitare alla violenza.  Non c’è dubbio che al colosso californiano costi meno una macchina da adibire alle questioni descritte piuttosto che assumere qualche addetto diplomato alle scuole dell’obbligo. Del resto ci è capitato di leggere in rete il lamento di un giovane lavoratore precario che, nella solitudine della propria stanza, di fronte a uno schermo, passa sei ore al giorno per pochi spiccioli a passare in rassegna immagini della più grande rete sociale della terra. Sfruttamento massiccio, ma anche scarso senso etico dell’”osservatore” per conto di FB e l’evidenza di cultura e sensibilità del tutto inadeguata.  La vicenda del Giudizio Universale censurato per nudità di Dio e di Adamo ha un corollario amaro, un ulteriore caso di invisibilità, o incomprensione dell’essenziale. Poiché i protagonisti della vicenda hanno fatto ampia pubblicità all’accaduto, l’involontaria promozione ha prodotto decine di migliaia di visioni del loro annuncio. Molti hanno cliccato il fatidico “mi piace” e inviato commenti assai favorevoli, ma una minoranza ha reagito negativamente. Un tale M. (l’iniziale è un residuo di immeritato rispetto verso costui) ha pubblicato un commento in cui si indigna per le immagini. Dice, tra imbarazzanti errori di ortografia: Sono nudi! Quello è il regno contrario a Dio, non quello di Dio.  M., come milioni di altri, possiede una connessione a Internet, ha certamente studiato, ma nella sua vita non ha mai visto un’immagine del Giudizio Universale, non ne sospetta l’esistenza, sino a considerare poco meno che pornografica l’opera di Michelangelo, esattamente come il macchinario di FB. Un analfabeta di ritorno, nonostante e probabilmente a causa della scuola, della TV e della maledetta società dello spettacolo. Peraltro, M. e Facebook arrivano in ritardo di secoli. Se papa Paolo III commissionò al Buonarroti l’affresco, i cui lavori durarono quattro anni, il Vaticano, dopo un quarto di secolo, incaricò un pittore della cerchia michelangiolesca di “coprire le vergogne “dei corpi dipinti dal maestro. Si chiamava Daniele da Volterra e ha un posto nella storia dell’arte per quello strano incaricò che gli valse il nome di Braghettone.  In modi diversi, le macchine ci fanno tornare ai tempi del buon Braghettone. La censura di FB è ridicola e paradossale, ma ha un’eco sinistra. Adesso sappiamo di essere nel potere di nuovi censori, per di più automatici. Coprono i corpi dipinti da un genio con la stessa naturalezza ed efficienza meccanica con la quale proibiscono le parole o i temi sgraditi a chi controlla la macchina. Che peccato per il plumbeo Suslov, il gerarca sovietico custode dell’ortodossia del Cremlino, inflessibile censore del dissenso, non avere avuto a disposizione gli apparati di Silicon Valley.  Il presente, e più ancora il futuro, è nella censura, fredda, igienica, regolata da algoritmi, politicamente e tecnicamente corretta. Ci riflettiamo poco perché il potere ci inonda di immagini e di falsa libertà. Zuckerberg copre Adamo, ma nell’immensa autostrada della Rete è visibile al prezzo della connessione ogni oscenità, violenze, l’esaltazione di qualsiasi schifezza. Si può imparare a fabbricare bombe, organizzare omicidi, compravendere armi e organi umani, ma Facebook e il resto di Silicon Valley non conosce Michelangelo e proscrive idee, parole, argomenti, testi sgraditi al Padreterno Tecnologico Globale. Per questo compito, gli algoritmi sono aggiornati, funzionali e rapidissimi.  È tutto gratis, in fondo. Un sito straniero di notizie, i cui contenuti principali sono a pagamento, ha formulato una gran bella proposta a chi scrive: libera disponibilità di tutti i testi per molti mesi, a patto che accettiamo di ricevere comunicazioni pubblicitarie. Siamo certi che saprebbero scegliere avvisi relativi a prodotti e servizi di nostro interesse, aggregando e rielaborando il traffico in rete dell’indirizzo IP e dello smartphone. La conclusione non è nuova, ma vale la pena ripeterla fino alla nausea: quando qualcosa è gratis, nel mondo dorato dei media sociali e di Internet, c’è un’ottima ragione: il prodotto che vendono siamo noi, censura compresa. L’essenziale è invisibile a chi non vuol vedere. ]]>

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