Goethe e Maometto, una interessante riflessione

Goethe

GoetheNell’arco della sua parabola creativa, che toccò diversi aspetti dello scibile umano, dalla scienza al romanzo, dalla poesia al teatro, Goethe fu attratto anche dall’Islam, o meglio dalla grande poesia islamico – persiana e dalla figura del Profeta Maometto. A prima vista questa strana attrazione, da parte di un genio universale formatosi sulla Bibbia e sui classici Greco Romani, può sembrare contraddittoria, ma non bisogna mai dimenticare che Goethe era uomo di straordinario eclettismo, dotato di una curiosità intellettuale che forse non ha pari nell’intera storia della letteratura. Il poeta dunque non si fidò dei superficiali pregiudizi anti-islamici del suo secolo, che vedevano in Maometto un mistificatore e nell’Islam una cultura inferiore, ma iniziò a studiare il Corano e i migliori poeti islamici. Tale percorso intellettuale lo portò alla stesura del “Divan”, una raccolta di poesie arabo – persiane assieme ad altre sue (alcune però apocrife) e a concepire un poema dedicato a Maometto. Tale opera però non venne mai terminata, o meglio ne resta un breve ma intenso frammento noto come “Il canto di Maometto”, tre pagine intrise di profondo senso religioso: il Profeta è in estasi sotto il cielo stellato del deserto e poche righe di Goethe ci danno il senso di una tranquilla e profonda beatitudine nella contemplazione del Creato:

“Cuore amante, elèvati – al Creatore tu!
Mio Dio e Signor sii tu! – Tu, universale amante,
tu che il sole, la luna, il firmamento
hai creato, la terra, il cielo e me.

Per concludere con una toccante preghiera di sole due righe, di francescana semplicità:

Mio Signore, sciogli tu le genti umane dai vincoli che le opprimono: tu sei il loro sentimento più profondo, la loro aspirazione suprema.

Insomma, il Profeta islamico che emerge dalle tre pagine scarse del frammento è ben diverso dal minaccioso capo politico e militare che lancia anatemi e scatena guerre sante contro gli infedeli. E’ un Maometto più ascrivibile alle Sure Meccane, profonde e contemplative, che non a quelle Medinesi, politicizzate e normative. Possiamo pertanto affermare che Goethe “…si sentisse attratto da questa tragica e geniale figura di iniziatore di una nuova fede…l’uomo d’eccezione da cui irradia un elemento divino” (dalla prefazione al “Canto di Maometto” , Sansoni Editore).
Il sommo poeta tedesco fu, in un certo senso, quasi un precursore del “Politically Correct, come sostiene un importante intellettuale islamico, il Prof. Abdewahab Meddeb, che nel suo “La malattia dell’Islam” (Bollati Boringhieri, libro assolutamente da leggere), tesse le lodi dell’autore del “Faust”, primo grande intellettuale europeo ad aprirsi alla cultura islamica.
Eppure, a ben guardare, le cose non sono così semplici (vorrei dire edulcorate) come sembrano, perché nel 14° libro dell’autobiografia del poeta tedesco, “Poesia e Verità”, Goethe racconta del suo progetto letterario su Maometto, riassumendo la trama dell’opera. Ed emerge una cosa, a mio modo di vedere, abbastanza significativa: Maometto “…che non avevo mai potuto considerare un imbroglione” (Goethe) dopo la fuga a Medina, le lotte violente e il trionfo finale, muore avvelenato da una donna alla quale aveva fatto uccidere il marito. Però nel quinto e ultimo atto “…La sua grande fermezza, il ritorno a sé stesso, al senso superiore, lo rendono degno di ammirazione. Egli purifica la sua dottrina, rinsalda il suo dominio e muore.” (Goethe).
Come non sentire un’eco quasi cristiana (il tradimento) e addirittura socratica (la morte per veleno) in questo capo religioso che paga con la vita le sue conquiste e anche le sue crudeltà? Trovando però la forza, alla fine, di riportare la sua dottrina a quel “senso del divino turbato dall’elemento terreno”.
Goethe dunque sente il bisogno quasi irresistibile di rendere Maometto simile a Socrate e a Cristo, facendolo tornare nel cuore pulsante di quella cultura occidentale che, solo momentaneamente e apparentemente, era stata messa da parte.
Ma c’è un altro elemento di estremo interesse in tal senso: sempre nel 14° libro di “Poesia e Verità”, Goethe tesse anche le lodi dell’”Etica” di Spinoza, affascinato “…dallo sconfinato disinteresse che traspariva da ogni sua massima”. Una in particolare viene citata nel testo:

“Chi ama Dio davvero non deve pretendere che Dio lo ami”

Ebbene, come non avvertire in queste parole un confronto, forse inconscio, col Corano, libro nel quale la fede religiosa presenta sempre un fortissimo carattere retributivo? Ovvero: colui che crede e obbedisce ai precetti islamici sarà premiato col paradiso (giardino delle delizie dove si fa sesso a volontà tra fiumi di vino e di miele, cioè immersi in tutte quelle tentazioni proibite in vita), mentre per l’infedele si apriranno le eterne fiamme dell’inferno. Per inciso, nel Corano le minacce della dannazione eterna sono assai frequenti (molto più che nelle Sacre Scritture), quasi sempre descritte con grande accuratezza nei loro aspetti più terrificanti ed efferati.
Il Maometto creato dalla fantasia del sommo poeta tedesco sembra dunque destinato, con la sua morte, a guadagnare un’aura di nobiltà e di disinteresse che sono pressoché latitanti nel Corano e nella vita del Profeta tramandataci dalla tradizione islamica. Il concetto del sacrificio di sé a favore degli altri è infatti pressoché assente nell’etica musulmana, rivolta quasi esclusivamente ad ottenere il vantaggio degli eterni piaceri paradisiaci e a sfuggire alle torture infernali: un’etica infantile, quasi commerciale, ben lontana dalla disinteressata nobiltà presente in altre religioni e filosofie.
Nelle quali il sacrificio di sé e dei propri egoismi rappresenta l’elemento ineludibile del percorso spirituale: si pensi, nel Buddismo, a Siddharta che abbandona le sue ricchezze (come Francesco d’Assisi qualche secolo più tardi), a Socrate che muore per amore della sua integrità filosofica e, infine, a Cristo che si fa crocifiggere per condividere fino in fondo le sofferenze dell’umanità. Dunque il Maometto di Goethe, a mio modo di vedere solo in apparenza configura un omaggio alla cultura islamica, in realtà finisce per rappresentare un tributo alle radici greco – romane e cristiane della nostra cultura.
Quelle radici che alcuni piccoli burocrati di Strasburgo, con la loro meschina sentenza contro i crocefissi, vorrebbero provare a recidere.

“Sed non praevalebunt”!…

RINGRAZIAMO GLI AMICI DEL SITO WWW.CONGREDIOR.EU, CHE CI HANNO GENTILMENTE FORNITO QUESTO INTERESSANTE STUDIO

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