I movimenti di resistenza anticomunisti sloveni e croati

di Alberto Rosselli

I MOVIMENTI DI RESISTENZA ANTICOMUNISTI SLOVENI E CROATI

DEL DOPOGUERRA 1945-1948

 Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, diversi gruppi di ufficiali e soldati appartenenti ai reparti e alle milizie slovene, croate e cetniche riuscirono a sfuggire alla prigionia e ai massacri perpetrati dalle formazioni del maresciallo Tito, trovando rifugio nelle montagne e nelle foreste centro-settentrionali dell’ex-Iugoslavia. Qui decisero di proseguire la lotta contro il nuovo regime comunista instauratosi a Belgrado. Ad indurre questi ex militari, ma anche civili, ad optare per tale scelta, apparentemente disperata, non fu soltanto l’avversità che essi nutrivano per le forze titine e comuniste, ma anche una sostanziale mancanza di alternative. Negli ultimi giorni di aprile del 1945, le Brigate appartenenti alla 1ª e alla 3ª Armata del maresciallo Tito avevano infatti dato inizio ad una sistematica eliminazione fisica non soltanto di decine di migliaia tra miliziani e collaborazionisti croati e sloveni, ma anche di moltissimi semplici cittadini o contadini accusati di precedente connivenza con le forze tedesche di occupazione. Come è noto, ai primi di maggio del 1945, ben conoscendo la sorte che li attendeva, molti reggimenti ustascia e sloveni avevano ripiegato verso nord, in direzione del confine austriaco per consegnarsi prigionieri alle forze britanniche provenienti dal Veneto e dall’Austria occidentale e centrale. Ma l’epilogo di questa ritirata fu particolarmente drammatico poiché sulla base di accordi precedentemente stipulati tra il generale Montgomery e il maresciallo Tito tutti i prigionieri croati e sloveni rifugiatisi in Austria dopo la resa tedesca (8 maggio 1945) vennero infatti riconsegnati alle forze comuniste iugoslave. Secondo l’archivio militare britannico, su un gruppo di 12.000 soldati sloveni rientrati in patria non meno di 9.000 vennero successivamente passati per le armi, non di rado dopo essere stati sottoposti a maltrattamenti e sevizie di ogni tipo. Ciononostante, alcune centinaia di miliziani riuscirono a fuggire dai provvisori campi di raccolta dove erano stati ammassati, guadagnando le catene montuose del nord dove la popolazione locale, gran parte della quale di religione cattolica, provvide alla loro sussistenza. Con il passare dei mesi, questi nuclei sparsi di ex-combattenti iniziarono a riorganizzarsi, rifornendosi con armi trovate in depositi abbandonati dai tedeschi e arrivando a formare, verso la metà del settembre 1945, le prime unità partigiane, per una forza complessiva iniziale di circa 650 elementi. Il primo inverno di resistenza, quello tra il 1945 e il 1946, vide queste sezioni, male organizzate ed equipaggiate, compiere alcuni colpi di mano contro reparti isolati o piccoli presidi del nuovo esercito iugoslavo allo scopo di procurarsi, armi leggere e munizioni, e nella segreta speranza che nel frattempo le forze Alleate occidentali rompessero i legami con l’Unione Sovietica e il governo comunista di Belgrado. In effetti, nell’estate del 1946, nel tentativo assai tardivo ed incostante di destabilizzare l’ormai consolidato potere di Tito, tre squadriglie speciali dell’USAF e della RAF di base in Austria, Germania occidentale e, pare, Italia, effettuarono qualche sporadica missione sui cieli della nuova Iugoslavia, paracadutando alcuni agenti con l’incarico di contattare i ribelli sloveni e croati, e di valutarne la consistenza e le capacità combattive. Poco o nulla si sa circa gli effettivi risultati di queste missioni top secret. Anche se, nell’agosto del 1946, fu la stessa stampa iugoslava di regime a darne notizia, citando il presunto abbattimento da parte della caccia nel cielo di Bosnia di un bimotore da trasporto Douglas DC3, non immatricolato e senza insegne. Nel settembre del 1946, alcune unità slovene, che nel maggio dell’anno precedente si erano rifugiate sui monti della Carinzia, rientrarono clandestinamente in Slovenia per unirsi alle bande anticomuniste già operanti nella regione di Gorenjska, nel nord-ovest del paese. Proprio in quest’area, che nell’aprile del 1941 era stata incorporata dalla Germania, nel 1942 la Gestapo aveva creato un reparto per la difesa territoriale composto da elementi locali, la Oberkrainer Selbstschutz. Secondo i servizi segreti iugoslavi, nel luglio 1946 ex-appartenenti a questa formazione collaborazionista risultavano ancora operativi attorno alla città di Kranj; mentre un altro contingente di 200 uomini, al comando dell’ex-ufficiale delle SS Andrei Noc, era molto attivo nelle foreste della zona montagnosa della Mezakla, proprio a ridosso del confine austriaco. Sempre secondo fonti titine, più a sud, lungo la catena Pokluka, sembra che un reparto di circa 60 ex-membri della Guardia Nazionale Slovena (un’altra nota compagine ex collaborazionista) effettuasse frequenti e riusciti attacchi contro le isolate caserme iugoslave. E’ da notare che l’attività di questo gruppo si rivelerà talmente efficace da costringere l’esercito regolare a scatenare una violenta rappresaglia che verso la fine del ’46 porterà all’annientamento dell’intero nucleo partigiano. Secondo informazioni raccolte nell’autunno 1946 dallo spionaggio statunitense e inglese, un altro gruppo di 40 ribelli sloveni rimase per molte settimane annidato lungo il confine austriaco con il compito di mantenere i contatti con tutti i fuoriusciti che avevano intenzione di rientrare in patria ad arruolarsi nelle unità combattenti anti-comuniste. Questo raggruppamento pare che operasse nei pressi del fiume Sava, attorno alla città di Radovljica, in collegamento con un secondo contingente di 50 uomini accampato nei boschi che circondano la città di Kranj. A dimostrazione della determinazione che animava questi nuclei combattenti della Iugoslavia del nord, basti pensare che nell’agosto del ‘46, nei pressi di Trzic, località a nord di Kranj, un contingente di 70-80 partigiani armati di fucili mitragliatori e bombe a mano diede battaglia ad un reparto di 80 soldati regolari iugoslavi appartenenti alle Forze di Sicurezza, causando al nemico pesanti perdite e costringendolo alla fuga. Nonostante i successi riportati, a partire dal settembre 1946 i ribelli sloveni (parimenti a quelli croati che operavano più a sud) subirono una serie di duri colpi da parte dell’Armata iugoslava che, verso la fine dell’estate, aveva dispiegato non meno di 50.000 soldati appartenenti alle varie armi e alle Forze Speciali e di polizia. Cinquantamila uomini per stanare non più di 4/5.000 partigiani, metà dei quali facenti parte dei reparti ausiliari o non combattenti. Secondo i resoconti dell’Armata iugoslava, tra l’agosto del 1945 e il settembre del 1946, vennero catturati o eliminati non meno di 2.900 sloveni. Pressati dall’Esercito e praticamente abbandonati dall’Occidente, nel dicembre 1946 gli ultimi gruppi di ribelli sloveni (ridotti a poche centinaia di uomini in tutto) dovettero arrendersi alle forze titine che ne passarono per le armi la quasi totalità senza o dopo sommari processi.

Come si è accennato, contestualmente alla lotta partigiana slovena, anche in Croazia dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale si sviluppò un movimento di resistenza anticomunista che trovò nelle formazioni Krizari (Crociati) – composte per lo più da elementi ex-ustascia ed ex-domobrani – il suo zoccolo più duro. Dopo le stragi del maggio-giugno 1945 perpetrate dai titini ai danni dell’esercito croato rifugiatosi in Austria, alcune migliaia di ufficiali e soldati ex-ustascia sfuggiti alle fucilazioni di massa trovarono rifugio nelle foreste della Bosnia settentrionale. Ma va detto che le truppe che confluirono nel movimento krizaro non furono mai numerose o particolarmente attive sotto il profilo militare. Questi scarni gruppi, male organizzati, equipaggiati e armati erano anche privi di una vera e propria guida militare e politica e, proprio per questo motivo, non furono mai in grado di sviluppare un’efficace guerriglia secondo i necessari criteri tattici. Operando in quasi totale isolamento ed usufruendo di pochi aiuti inviati dall’Occidente, i gruppi krizari divennero facile preda delle efficienti UDB (Unutrasnja Drzavna Bezbednost), le unità scelte per la Sicurezza Interna di Stato iugoslave.

Comunque sia, alcuni reparti krizari formati da veterani ustascia evidenziarono una certa intraprendenza, organizzando qualche riuscita azione offensiva fino alla fine del 1948, quando l’ultimo partigiano venne catturato ed impiccato dai titini.

 L’Operazione Gvardijan.

All’inizio del 1947, elementi croati anticomunisti residenti all’estero (in gran parte ex-ufficiali ustascia o domobrani) ipotizzarono di scatenare, con l’appoggio britannico, una rivolta in grande stile nella Croazia controllata dai comunisti. Le cellule operanti fuori dai confini erano al corrente dell’esistenza dei reparti krizari, ma ne conoscevano anche la loro intrinseca debolezza organizzativa e militare. Ciononostante, nel dicembre 1946, alcuni rapporti di seconda mano giunti dalle zone occupate sembrarono confermare l’approssimarsi di una vasta ribellione organizzata dai krizari. Fu per questa ragione che il Comitato Nazionale Croato, formato nel 1946 per iniziativa degli ex-ufficiali ustascia Bozidar Kavran e Lovro Susic, fece di tutto per inviare i necessari aiuti ai ribelli.

Nella seconda metà del 1947, sulla scorta di informazioni poco attendibili, il Comitato decise di inviare in Croazia, con l’aiuto dei servizi segreti anglo-americani, un gruppo di ufficiali addestrati ed equipaggiati con armi moderne ed impianti radio, con lo scopo di stabilire un contatto diretto con i capi krizari. Ma le notizie ricevute dai membri del Comitato circa i preparativi della rivolta risultarono essere in realtà completamente false o fuorvianti, anche perché create ad arte dagli agenti del controspionaggio iugoslavo UDB. Nella fattispecie, questa trappola (chiamata in codice Operazione Gvardijan) era stata approntata da Ivan Krajacic, un ufficiale comunista croato che durante la Seconda Guerra Mondiale aveva avuto modo di distinguersi per coraggio ed intelligenza. Lo scopo dell’Operazione era quello di attirare in Iugoslavia gli alti gradi del Comitato Nazionale Croato e di eliminarli. Abboccando all’inganno, nel luglio 1947 il maggiore ex-ustascia Bojnik, Ljubo Milos (ex-vicecomandante del campo di concentramento di Jasenova, ed ex-comandante della prigione di Lepoglava, cugino del colonnello Vjekoslav “Maks” Luburic) e i sottufficiali ex-ustascia Rojnik e Luka Grgic rientrarono segretamente in Croazia attraversando i confini austriaco e ungherese. Il gruppo, dopo essersi messo in contatto con una piccola sezione krizara operante sulle montagne Papuk (vicino a Slavonska Pozega, Croazia), avrebbe dovuto ricongiungersi con una seconda squadra e dare il via ad una serie di operazioni di sabotaggio. Ma ad attendere i fuoriusciti non furono i partigiani, ma una robusta compagnia della UDB che catturò l’intero reparto. Milos e Vrban vennero arrestati, mentre Grgic, che tentò una resistenza, venne ucciso. Utilizzando l’apparecchiatura radio e i cifrari in possesso del commando, gli agenti della UDB riuscirono anche a contattare il Comitato e ad ingannarlo nuovamente, assicurandolo della buona riuscita dell’operazione e richiedendo l’invio in Iugoslavia di altri guerriglieri. Alla fine di agosto 1948, quando l’Operazione Gvardijan ebbe termine, la polizia segreta iugoslava era riuscita ad arrestare 96 anticomunisti croati, tra cui Bozidar Kavran, fondatore dello stesso Comitato Nazionale Croato. Tutti i prigionieri furono trasferiti a Zagabria, nel carcere di Savska Ulica e successivamente sottoposti ad un processo che venne celebrato nel 1948 nella stessa città. Il tribunale militare decretò la condanna di 43 partigiani anticomunisti, venti dei quali (tra cui Ljubo Milos, Ante Vrban, Bozidar Kavran, Mime Rosandic) vennero impiccati; ventitré condannati alla fucilazione; due mandati all’ergastolo e nove destinati a pene detentive di 15 e 20 anni. Terminava così la breve, dura, ma assai poco nota storia della Resistenza anticomunista del dopo guerra in Iugoslavia.

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