La resistenza anticomunista in Cina

Di Alberto Rosselli

LA RESISTENZA ANTI COMUNISTA IN CINA

TRA IL 1949 E IL 1967

 Quando, nell’ottobre 1949, in seguito alla vittoria ottenuta dalle armate di Mao Tze Tung  sulle forze nazionaliste del Kuomintang (KTM), il leader comunista dichiarò la nascita della Repubblica Popolare Cinese, le residue divisioni del generale Chang Khai Sheck si trasferirono sull’isola di Formosa, mantenendo anche il possesso di alcuni piccoli arcipelaghi lungo la costa orientale (Penghu, Kinmen, Matsu, Quemoy) che ben  presto vennero trasformati in vere e proprie fortezze. Vista l’impossibilità di proseguire la lotta sul territorio continentale – dove però, fino ad almeno tutto il 1950, isolati gruppi di combattenti nazionalisti continuarono ad opporre una lunga, misconosciuta e vana resistenza al regime maoista – nell’autunno del ’49, il Comando del Kuomintang creò le prime formazioni militari speciali incaricate di effettuare rapidi colpi di mano lungo la costa sud-orientale cinese e di mettersi eventualmente in contatto con raggruppamenti partigiani attivi soprattutto nello Yunnan.

Nei primi anni Cinquanta, in concomitanza con la Guerra di Corea, gli americani decisero di incrementare il loro sostegno economico e militare al governo di Taipei in funzione antimaoista. Lo scopo dei politici e degli strateghi di Washington era infatti quello di utilizzarne, come auspicato dal generale Douglas McArthur, i reparti speciali taiwanesi per effettuare operazioni offensive ai danni della Cina che, come è noto, era scesa in campo a fianco dell’esercito di Pyongyang. Secondo gli americani, operazioni di questo tipo avrebbero potuto distogliere l’attenzione di Pechino dal fronte coreano, sottraendo a quest’ultimo uomini e mezzi. A provvedere all’addestramento dei reparti nazionalisti cooptati pensò la Western Enterprises Inc., un’impresa commerciale dietro la quale operava un gruppo di ufficiali dell’esercito e della marina Usa e consiglieri della CIA.

Come base di partenza delle incursioni sul territorio cinese fu scelta l’isola di Quemoy, mentre il comando della task force venne installato sull’isola rocciosa di Tungyin, che si trova  a 50 miglia dal litorale cinese. Inizialmente, il corpo nazionalista contava qualche migliaio di volontari e alcune decine di soldati e mercenari americani, ma con il passare degli anni arrivò a contare oltre 30.000 uomini, gran parte dei quali originari delle città e dei villaggi della costa sud-orientale cinese e quindi buoni conoscitori del territorio. Circa i dettagli e i risultati delle operazioni condotte negli anni Cinquanta-Sessanta da questo “esercito fantasma” non molto si sa, anche perché lo stesso governo di Pechino ha sempre provveduto a minimizzarne la reale portata militare e politica. Nel gennaio 1963, Radio Pechino annunciò per la prima volta un fallito sbarco, avvenuto nell’autunno dell’anno precedente presso la città di Xiamen (Kwangtung), di circa 200 guerriglieri “reazionari”, centosettantadue dei quali – secondo l’emittente di Stato – sarebbero stati eliminati dall’Esercito Popolare. Contestualmente, quasi tutti i giornali della Cina comunista pubblicarono in prima pagina fotografie di presunti “guerriglieri fascisti” legati come salami e immortalati a fianco di enormi quantità di carabine, granate, esplosivi e materiali tutti di produzione americana. Dall’altra sponda dello Stretto di Formosa, però, i media di Taipei pur ammettendo la sconfitta, sottolinearono che prima di arrendersi di fronte alle preponderanti forze nemiche il reparto sarebbe riuscito a distruggere numerosi viadotti e linee ferroviarie, impegnando – per ben tre mesi – quasi 100.000 tra soldati e poliziotti comunisti, settecento dei quali sarebbero caduti sul campo, ed abbattendo anche un ricognitore di Pechino. Stando alle fonti CIA, l’operazione si sarebbe rivelata, invece, “una mezza vittoria pagata però a caro prezzo dai nazionalisti”.

Ma veniamo alle operazioni condotte sul continente dai partigiani cinesi anticomunisti. Nel novembre 1949, cioè dopo la vittoria delle forze di Mao, diverse migliaia di soldati del Kuomintang ripiegarono in Birmania, da dove continuarono ad effettuare colpi di mano in territorio cinese, riuscendo ad installarvi anche alcune cellule operative. Nel 1952, un raggruppamento di circa 10.200 soldati taiwanesi, bene armati ed equipaggiati al comando del generale Li Mi, venne trasferito da aerei americani dotati di insegne civili in Birmania per dare man forte ai guerriglieri anticomunisti attivi lungo il medio-alto corso del Mekong. Nel corso di quell’anno, circa 2.000 “partigiani anticomunisti” avevano tentato più volte, partendo dai campi base birmani di Mong Mao e Mong Hsat, di penetrare ed insediarsi stabilmente nello Yunnan, non riuscendoci a causa della presenza nella regione di numerosi e forti reparti comunisti.

Nel 1953, attraverso società commerciali di comodo, e – almeno così sembra – ad insaputa del Comando dell’Esercito statunitense, la CIA incominciò a fornire ai “partigiani anticomunisti” nuove armi ed equipaggiamenti, incoraggiandoli a spingersi con maggiore decisione in territorio cinese. Tuttavia, in seguito alle proteste del governo birmano (che nel 1953 si appellò addirittura alle Nazioni Unite) i vertici di Washington dovettero intervenire presso la CIA ordinando un rallentamento delle operazioni di intruding. Da quel momento, sia le forze del generale Li Mi che i reparti partigiani presenti in Birmania o infiltrati nello Yunnan iniziarono ad essere abbandonati a se stessi. E all’inizio di gennaio del 1961, dopo l’ennesima protesta da parte  del governo di Rangoon, gli americani imposero a Chang di ritirare dal paese tutti i suoi uomini. Il 26 dello stesso mese, alcune decine di Douglas C47 statunitensi di una compagnia “fantasma” denominata CAT (Civil Air Transportation) trasferirono dalla Birmania a Taiwan 4.000 combattenti, mentre altri 6.000, tra “regolari” e “partigiani”, furono invece dislocati nel Laos. Lungo il confine birmano-cinese e laotiano-cinese rimasero soltanto 1.500 guerriglieri anticomunisti che, grazie al sostegno segreto della CIA e del governo di Taiwan, compirono, pare fino al 1969, un certo numero di operazioni di ricognizione nello Yunnan.  

Va comunque ricordato che in seguito Chiang Khai Sheck insistette per ottenere appoggio di Washington per scatenare nuovamente la guerra partigiana nello Yunnan e in altre regioni cinesi: richiesta che venne però respinta dall’amministrazione Kennedy, convinta che tali sforzi sarebbero falliti. Comunque sia, nel timore che un completo rifiuto avrebbe potuto indurre Chiang a lanciare un attacco diretto contro Pechino, prima Kennedy e poi Lyndon Johnson permisero, seppure sottobanco, a Taiwan di effettuare alcune operazioni di disturbo e ricognizione lungo la costa cinese, qualora i comunisti avessero ripreso a colpire le isole Quemoy (periodicamente bombardate dall’artiglieria cino-comunista). Ma quando, nell’aprile del 1964, il segretario di Stato Rusk visitò Taiwan, Chiang tornò alla carica chiedendo aiuti per portare la guerra lungo la costa cinese: richiesta che venne respinta da Rusk il quale fece osservare al generalissimo che l’esercito e la marina nazionalisti non sarebbero mai state in grado di raggiungere la terraferma, almeno senza un massiccio appoggio aeronavale e “nucleare” statunitense: opzione, quest’ultima da escludere a priori. Il colloquio con Rusk fece comprendere a Chiang che gli Stati Uniti, già alle prese con il “bubbone” del Vietnam, non erano assolutamente intenzionati ad impegnarsi direttamente contro una potenza atomica comunista.

Ciononostante, nel settembre 1965, il figlio di Chiang, il ministro della Difesa Chiang Ching-kuo, consegnò al segretario della Difesa McNamara un piano dettagliato per la conquista delle cinque province della Cina sud-occidentale. McNamara si dichiarò scettico circa la riuscita di tale progetto, ma Chiang cercò in tutti i modi di convincerlo, assicurando, tra l’altro, che il governo di Taiwan non avrebbe richiesto l’intervento di forze terrestri statunitensi o l’appoggio aereo e “nucleare”. Ma quattro mesi più tardi, Chiang Ching-kuo incassò il nuovo no di Washington. La Casa Bianca riteneva, infatti, che un’operazione di vaste proporzioni e dagli esiti epocali come quella prospettata da Taipei avrebbe “obbligatoriamente richiesto non soltanto un sostanzioso appoggio navale, aereo e logistico statunitense, ma anche l’utilizzo dell’arma atomica”. Eventualità, quest’ultima, che avrebbe innescato una guerra diretta tra Stati Uniti da una parte e Cina, e probabilmente Unione Sovietica, dall’altra. Oltre a ciò, sulla base delle informazioni raccolte dall’intelligence, gli americani riferirono ai loro alleati taiwanesi che ben difficilmente, dinnanzi ad un tentativo di invasione, la totalità della popolazione cinese si sarebbe schierata – come, al contrario, sosteneva il governo di Taipei – con i “liberatori” nazionalisti.

All’inizio del 1967, in concomitanza con il grave deterioramento dei rapporti tra Unione Sovietica e Cina, sconvolta dalla Rivoluzione Culturale e dagli eccessi delle Guardie Rosse, Taiwan rinnovò a Washington la sua richiesta di appoggio, questa volta per tentare uno sbarco in Cina meridionale. Chiang sollecitò personalmente il presidente Johnson, sottolineando “la grande opportunità che si presentava anche per gli Stati Uniti” per abbattere il regime comunista, distruggere la minaccia nucleare di Pechino, e portare a termine con successo la guerra in Vietnam. Chiang aggiunse che si sarebbe limitato a chiedere agli Usa il solo appoggio logistico e nulla più. Ma anche questa volta gli americani risposero picche ad un piano che – almeno, secondo il presidente – avrebbe potuto nuocere in maniera egualmente grave alla politica statunitense nel sud-est asiatico.

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