L’IMMONDA MOSTRA DELLA LAGUNA, OVVERO DELLA TRIBOLAZIONE CINEMATOGRAFICA, TRA PEDOFILIA INCESTUOSA E CULTURA DELLA MORTE – di Roberto Dal Bosco

di Roberto Dal Bosco

 

 

 

ng6Il Corriere del 9 settembre certifica con un articolo la forbice tra il Festival e la realtà: «al botteghino vince la commedia, alla Mostra di Venezia vince un documentario». Il quotidiano di via Solferino ci spiega che la gente, più che la barbosa pellicola Leone d’Oro, preferisce svagarsi con le barzellette di un attoruncolo partenopeo di passaggio. Già: un po’ come succede con la politica e con la Chiesa, la casta degli addetti al lavoro – la Biennale, la giuria, i registi, i critici, le masse di beoti abbonaticinéphiles, l’insulso direttore-burocrate di ripiego Barbero – è avulsa da qualsiasi contatto con il mondo vero, preferendo installarsi ad vitam aeternam tra i tepori del proprio cine-onanismo mentale, che – come i suoi amati personaggi – si dimostra peraltro sempre più pericoloso, tossico, criminale.

Il mondo reale, ai loro occhi, ha un grande problema: vuole vedere bei film. Vuole ridere, vuole piangere, vuole strabiliarsi, vuole emozionarsi. Quello che l’umanità ha demandato all’arte per tutta la sua esistenza, dalle grotte di Lascaux alla Cappella degli Scrovegni di Padova. Con la modernità, lo sappiamo, questo è venuto meno, la cultura ha perduto il suo centro, è l’arte tutta è divenuta un costante tentativo di distruggere l’uomo e le sue armonie. In questo, la casta cinematografica non è diversa dalle orde di abortisti, eutanasisti, che infestano l’ora presente. Più avanza il nichilismo della settima arte, e più potremmo spingere la similitudine più in là, e vedere che dietro alla costosa macchina mondiale del cinema colto – quindi, in tendenza, anche quello mainstream – più che l’auteurcinefilosofo-artista si nasconde il vandalo, lo sfregiatore, lo psicopatico che dannneggia la Pietà di Michelangelo, l’assassino che lancia il sasso dal cavalcavia. Del resto le loro storie paiono oramai trattare solo di questo.

Miss Violence, film greco in concorso a Venezia in questo 2013, si apre con un bel suicidio di una bambina. Il Fatto Quotidiano parla di «verticalità rosselliniana» e grida al capolavoro, ma tiriamo un sospiro di sollievo: non sembra sia arrivata anche l’esaltazione di Radio Vaticana, che invece aveva incredibilmente osannato il pedo-lesbismo di un film della passata edizione di Cannes, La vie d’Adèle. Il regista ellenico di Miss Violence – si vede che non hanno altro a cui dedicarsi in questo radioso momento, ad Atene – pensa bene di continuare la pellicola con una bella sfilza di violenze sessuali ed incesti, tutti offerti allo spettatore con dettaglio e giusto compiacimento. Il regista ha pronta una lettura trans-politica della sua fatica: «Vivendo in una società in cui non si vuole guardare oltre le apparenze, basata su criteri patriarcali, saremo sempre repressi, non ci sarà mai nessuno che vuole fare la rivoluzione». Cioè, se abbiamo capito bene: bisogna abbattere la società patriarcale, per trovare la voglia di fare la rivoluzione (!?!), e lo si deve fare a suon di film disperati costruiti su suicidi infantili e strupri incestuosi. Non fa una grinza.

L’incesto torna anche nel film coreano di Kim Ki-Duk Moebius, già pesantemente censurato nella patria del vincitore del regista Leone d’oro dell’anno passato. Trama: una moglie vuole castrare il marito infedele, ma pensa bene di sublimare il proposito evirando il figlio. Il padre, preoccupato per la discendenza, gli dona il suo stesso pene con un trapianto. La madre a questo punto, si assicura, che l’accrocchio funzioni. Per inciso, Kim è stato un grande artista che in passato ha saputo fare film davvero toccanti; ora ha perso completamente la Trebisonda, spingendosi su provocazioni sempre più oscene, che a nostro avviso indicano una forma di reazione psicologica all’incredibile processo di cristianizzazione che la Corea sta subendo. Comunque sia, era evidente come un simile abisso di orrore con tabù infranti e chirurgie genitali  possa avere subito attirato i selezionatori lagunari. Ci mancherebbe: incesto con trapianto, nell’album delle figurine dell’abiezione umana, questa davvero mancava. Subito in cartellone alla Mostra 2013.

Pensate che sia finita qui? Maddecché. Non avete fatto i conti con Bruce LaBruce. «Regista» e fotografo di Toronto, il nostro è attivista omosessuale particolarmente vivace in quell’area che il cinema ha ancora il pudore di chiamare «porno», anche se la definizione a LaBruce va strettissima, in quanto lui è specializzato in parafilie davvero inimmaginabili: sadomasochismo, gang-rape (stupri di gruppo), violenza interrazziale, feticismo degli arti amputati (a quanto pare esiste anche quello!), prostituzione bisessuale, sesso a base di vampiri e zombie. Un suo recente titolo era Otto, or up with Dead People, cioè Otto ovvero Viva la gente morta, e credo che abbiate capito tutto. Il suo film del 2010 L.A. Zombie fu rifiutato da un non importantissimo Festival australiano che lo riteneva inemendabile per la censura locale: bello vedere che quello che viene espulso agli antipodi da rassegne di quart’ordine divenga cibaria prelibata per la Mostra del Cinema veneziana, che un tempo era la più esclusiva kermesse mondiale della settima arte. Un altro colpo degno di nota del nostro genio canadese è stata la sua messinscena operistica del Pierrot Lunaire al Teatro Hebbel di Berlino (2011). Oltre alle immancabili scene di castrazione, sul palco vi erano panoplie di vibratori, ed ovviamente un Pierrot transessuale. Conoscendo l’atroce musica di Schoenberg, verrebbe da dire che ben gli sta (chi vuole capire meglio quale tremendo male sia dietro alla dodecafonia, si legga Il Ritorno di Dioniso del grande pensatore americano E. Michael Jones, edizioni Effedieffe).

C’è da capire che LaBruce è una punta di lancia del Queercore, ovvero quella parte del movimento omosessualista che dà forma al suo disgusto per la società omofoba sbattendole in faccia cose impareggiabilmente oscene (cioè, le proprie fantasie malate).

Ebbene, poteva mancare un invito a Venezia per un personaggio del genere? Ecco che LaBruce ti atterra al Lido con Gerontophilia, film dal titolo certamente non troppo sibillino: è la storia di un bel giovane che tradisce la fidanzata femminista (qui si tratta certo di un lapsus pericoloso: che non si sappia in giro che ai gay non piacciono le femministe e stanno a loro fianco  solo per interesse politico), con un signore ottuagenario, il quale fa comprendere al virgulto protagonista quale sia il tipo di oggetto sessuale da cui è attratto il giovane: gli uomini vecchi. Il lettore non pensi che questa sia una trovata che viene dal nulla: anche questa potrebbe essere la concrezione di una fantasia precisa, peraltro sempre più apertamente diffusa anche in Italia. Esiste infatti una specifica sottocultura omosessuale, chiamata «Bears»: gli «Orsi» ammettono che il loro modello erotico di riferimento è «Babbo Natale»: un uomo grande grosso, e soprattuto peloso – irsuto sull’ampio petto e con barba abbondante. Che questo possa confermare certe teorie psicanalitiche alla Joseph Nicolosi sulla cerca omosessuale della figura paterna, è un discorso che non affronteremo qui. Ora questo film porta il tutto alle estreme conseguenze: il sesso omofilo con figure anziane come nuovo orizzonte di liberazione dell’essere. Siamo di fronte anche qui all’infrangersi di una ulteriore  frontiera della trasgressione cinepornografica? La rivista faro morale di Vanity Fairsostiene che «il regista suggerisce anche un’altra ipotesi, ossia che si possa trattare di una forma più sublime di rivoluzione, in grado di scardinare l’atavico concetto di bellezza e amore». Rivoluzione, anche qui, a colpi di film pornografici di nuova perversione. Bellezza, amore, distorte e lordate in un mondo al contrario, un mondo invertito, un carnevale che ad occhio finirà per assomigliare in tutto e per tutto all’inferno.

Anche la perversione queercore di Gerontophilia, con i suoi sottintesi psicanalitici, non può che portare anche questo film tra i fantasmi dell’incesto, che capiamo dunque essere il vero tema conduttore del palinsesto festivaliero 2013. Niente di nuovo sotto il sole: le serie televisive americane, in ispecie quelle prodotte dal canale HBO, già da un paio di anni stanno forzando anche questo ultimo limite dell’immaginario narrativo-visivo. Serial come Game of Thrones e Boardwalk Empire offrono esplicite e rivoltanti sequenze di sesso tra fratello e sorella, tra madre e figlio, e via dicendo.

A pensarci bene, non stupisce nemmeno la scelta del presidente della giuria della Mostra. Si tratta del pluripremiato grande nome del cinema nazionale ed internazionale Bernardo Bertolucci, ora ridotto in sedia a rotelle dopo una carriera fitta di picchi ragguardevoli: pensiamo per esempio al burro di Ultimo Tango a Parigi, e lo facciamo con un velo di tragica ridarola, perché non si poteva immaginare allora a cosa avrebbe portato (le luci rosse al cinema, prima, poi festival come questi) l’innocuo (a pensarlo davanti a quel che passa in sala ora) panetto spalmato da Marlon Brando. (A quel tempo, il film fu giustamente mandato al rogo per opera di alcuni cattolici… averne di così, ora). Bertolucci divenne il centro del celluloide italico con la sua vomitevole caricatura della storia d’ItaliaNovecento, dove tra balletti maoisti ed inevitabili scene pruriginose di meretricio, c’è spazio per la violenza gratuita (vera?) sugli animali (c’era da far capire quanto cattivi e crudeli fossero i fascisti; gli animalisti non esistevano ancora) ed alcune bestemmie messe in bocca ad attori bambini: ah, cosa non si fa per l’arte. Tutta la precedente produzione bertolucciana (Prima della RivoluzioneLa comare secca,PartnerLa strategia del ragno) è fatta di pellicole che sono semplicemente inguardabili, acerbi e catatonici rottami intellettuali – il modello da emulare bovinamente era la Nouvelle Vague di Godard e compagni – resi possibili ad  un giovine viziatello borioso grazie alle buone ambasce del padre Attilio (poeta fascista poi subito riciclatosi a sinistra) e soprattutto del letterato e regista pedofilo Pier Paolo Pasolini (sulla dinamica umana tra i tre qualcuno ha speso tremende dicerie, che non riporteremo), di cui Bertolucci fu assistente ed amico.

Dicevamo, non ci sorprende la presenza di Bertolucci in giuria ad un Festival del genere: ricordiamo, infatti uno dei suoi film italiani più celebrati, La Luna. Irto di riferimenti psicanalitici come tutte le opere del regista parmigiano (Bernardo per anni e anni ha frequentato, chissà perché, gli studi degli strizzacervelli), il film arrivava a mostrare una immonda scena di incesto tra la protagonista e suo figlio adolescente (il quale poi veniva brevemente circuito, se non ricordiamo male, anche dall’attore pasoliniano Citti: anche questo, a ben pensarci, è un chiaro segno freudiano). In pratica: pornografia al contempo pedofila ed incestuosa, in qualcosa che – come i film summenzionati – vuole essere un «film d’arte, un «film d’autore», un «film d’essai», l’opera di un «venerato maestro», buona per i cineclub e fors’anche per la TV di Stato (piacerebbe sapere se la RAI lo abbia mai trasmesso, pensiamo proprio di sì). Questo è Bernardo Bertolucci, augusto Presidente di Giuria. Questa è l’Italia, la landa satanica dove viviamo. E cosa potevamo aspettarci d’altro?

sg7In fondo è andata bene: forse geloso del fatto che tutti questi registi novelli si permettono di scandagliare i temi edipici a lui cari, il Presidente ha snobbato tutti ritenendo di far vincere Sacro GRA, un documentario dove per GRA si intende il Grande Raccordo Anulare. La decisione non è stata apprezzata da tutti, molto sono finiti per chiedersi quando mai un documentario – genere minore e tendenzialmente «sfigato» (diciamolo!) che non piace al grande pubblico – avesse vinto a Venezia. Rispondiamo noi, visto che in giro nessuno sembra, forse per pudore, averlo fatto: nel 1938, a vincere la Coppa Mussolini (all’epoca il premio si chiamava così) in ex aequo con il leggendario kolossal bellico-coloniale nostrano Luciano Serra Pilota, fu proprio un film documentario. Si chiamava Olympia. L’autrice, una tale Leni Riefenstahl. Ebbene sì: il lungometraggio – stupendo, come tutti i lavori della Riefenstahl, e questo lo pensano un po’ tutti nonostante le ovvie resistenze politico morali del caso – sulle Olimpiadi tedesche del 1938; c’est à dire, fu un film nazista il vero prodromo alla vittoria della cinematografia documentaria di quest’anno. Ma un paragone tra i due è impossibile: Olympia, opera materialmente essenziale per chiunque si occupi di ripresa sportiva, inventò una infinita lista di tecniche cinematografiche, di cui per più di mezzo secolo fu debitrice l’industria cine-televisiva mondiale. Le Olimpiadi successive a quelle di Berlino furono tutte immortalate tramite gli inventi riefenstahliani, dai tagli senza transizione ai carrelli lungo-pista, agli angoli particolari elaborati dalla regista per il suo epico, perfetto racconto dei Giochi berlinesi, dove, notoriamente, la regista hitleriana non mancò di celebrare la vittoria del corridore afroamericano Jesse Owens. Ci sentiamo di dubitare del fatto che Sacro GRA finirà nella lista del 100 migliori film di tutti della rivista statunitense Time, che invece ha avuto l’onestà intellettuale di vincere le proprie automatiche perplessità morali sulla Riefenstahl ed ammettere la assoluta potenza del suo capolavoro documentaristico.

Ma il messaggio della Mostra appena conclusa ci pare chiaro, comunque: chi ritenesse di non sentirsela di avventurarsi tra i fotogrammi del film vincitore (la maggior parte del pubblico pensa, a ragione, che nove documentari su dieci siano intellettualoidi e pallosi) può sempre rifarsi con i brividi (e i conati) del resto dei film presentati, di cui qui sopra abbiamo fornito un microscopico bugiardino.

vp11Spiace ammetterlo (neanche tanto, a dire il vero), ma ha ragione il vecchio porco del cinema italiano, il cineasta (quello sì forse «maestro») che un tempo fu regista d’avanguardia (studiò con la tedesca Lotte Eisner, montò per Rossellini, diresse strambe opere giovanili come Chi lavora è perduto, si avventurò in lubriche riduzioni cinematografiche del romanzo del giapponese Tanizaki La chiave) e che è veneziano per meriti anagrafici: Tinto Brass. Non troppi anni fa, incalzato sugli immancabili film a base di scandali sessuali della Mostra, il nostro cine-doge delle natiche femminili e dei falli di gomma (questioni legali: se i falli ripresi sono veri, ed eretti, il film viene relegato per legge al circuito delle luci rosse, dove incasserebbe certo meno che nei normali cinema, sia pur con il divieto ai minori di 18 anni) trovò parole esatte per spiegare tutto quanto: «questi sono film orrotici». L’erotismo, voleva dire, non c’entra niente con le pellicole perverse che ogni anno costituiscono sempre più la spina dorsale della kermesse veneziana. Lo dice un autore che del sesso – solare e pecoreccio – ha fatto l’unico fulcro del suo lavoro: no, di eros, tali sciagurate pellicole internazionali non hanno nulla. Esse sono invece, a modo loro, degli horror: Sono fondate sull’orrore, orrore in particolare dell’accoppiamento, cioè dell’atto stesso della procreazione. Perché è ora che apriamo gli occhi:  il degrado a cui questi pervertiti sottopongono le funzioni sessuali, sappiamo bene da dove viene. È l’antico odio per il creato, e le sue gioie, che animava gli gnostici di ogni tempo. Come i Catari, che disprezzavano il corpo e chiaramente anche la riproduzione, intesa come gioia foriera di vita che in nessun modo poteva conciliarsi con la loro teologia mortifera. È altresì noto come le comunità catare fossero violentemente abortiste, oltre che masochiste e suicide: il corpo umano, creato dal malvagio demiurgo, andava vilipeso, violato, cancellato. La legge naturale, forse anche quella che impone il tabù dell’incesto, andava infranta in ogni sua parte: è l’antinomismo, l’odio per ogni legge, che si faanticosmismo, cioè odio per il creato tutto. Perché la degradazione e la morte ci spingono lontani dal demiurgo cattivo che ci ha imprigionato in questa sfera fisica e ci portano lontano, verso quel dio buono che, ci dicono gli gnostici da Simon Mago a Jacob Frank alle infinite sètte odierne, nulla ha a che fare con il creato materiale. È quel dio occulto che non ha creato il mondo quello che va adorato: chi vuole vedere in questo l’identikit di Satana, può farlo.

Ecco, i film orrotici sono i figli di questa millenaria Cultura della Morte, che come un infernale fiume carsico riaffiora nei secoli ad infettare l’umanità. Ora la TV e il cinema – e nel suo piccolo, la Mostra d’arte cinematografica, un tempo il più rilevante tempio della celluloide – le hanno aperto una valvola, con il fine di allagare il più possibile il mondo, e far entrare, ad un certo punto, il Figlio della Perdizione in persona, il Drago, la Bestia. Per certificare l’avvento dell’Apocalisse forse non servirà di vedere il mare che diventa color sangue, o altri segni contenuti della Rivelazione giovannea. Coi film che ci sono in giro, basterà aspettare un altro paio di entusiastiche recensioni cinematografiche degli organi di stampa vaticani.

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