Modesta proposta per il titolo del Meeting 2019: “Perché non possiamo non dirci trinariciuti” – di Fabio Trevisan

Sovente mi è capitato di rispondere in pubblico, al termine di conferenze o convegni sulla figura e le opere di Giovannino Guareschi (1908-1968), sul significato del “trinariciutismo”. Questa geniale espressione, coniata dallo scrittore e umorista parmense sulla rivista “Candido” e corredata efficacemente dalle sue singolari vignette, era preceduta dalla frenetica e convulsa apparizione dell’agitatore politico con quel suo perentorio “Contrordine, compagni!” che invitava i solerti esecutori a cambiare repentinamente indirizzo di pensiero e di azione sul motto “Obbedienza cieca, pronta, assoluta”.

 

I “trinariciuti” erano tutti coloro (non solo i comunisti, attenzione) che “versavano il cervello all’ammasso”, non pensando adeguatamente con la propria testa. Per questo motivo Guareschi aveva predisposto per loro il cosiddetto “succhiello omaggio” per farsi la terza narice, ossia per liberare l’ultimo residuo di materia grigia e diventare così perfetti “trinariciuti” con i tre buchini nel naso.

In Italia provvisoria egli aveva dichiarato guerra al “trinariciutismo” e ai suoi pericolosi slogan: questi ultimi erano strumenti efficaci per non pensare e egli li apostrofava come “Ddt del pensiero”. Con gli amici Alessandro Gnocchi e Paolo Gulisano e con il compianto Mario Palmaro spesso ci si ritrovava a parlare di Chesterton e Guareschi, della loro comunanza di intenti e di riferimenti (basti pensare ai sacerdoti cattolici Padre Brown e Don Camillo), del loro umorismo cristiano, della loro intelligenza creativa come scrittori e valenti disegnatori, del loro impegno a difesa della fede e dell’ortodossia, dei dogmi e del pensiero ordinato e metafisico. Si osservava inoltre quanto questi due grandi scrittori fossero ancora parecchio sconosciuti al mondo cattolico, nonostante i film, i libri, le mostre, i convegni che si erano organizzati su di loro.

Anche il Meeting di CL si era occupato di loro ma, si osservava, se ne era servito spesso strumentalizzandoli e piegandoli soggettivamente al loro bisogno, al loro desiderio, piuttosto che cercando di capirli oggettivamente. Io stesso ho polemizzato ad esempio con l’accostamento improprio che fece Vittadini, proponendolo al Meeting, tra il “Mondo piccolo” di Guareschi e la “Roba minima” di Enzo Jannacci. Con tutto il rispetto per il cantautore milanese di origini pugliesi, l’accostamento con la saga di Don Camillo e Peppone mi è sembrato inopportuno e irriverente, anche per l’influenza di alcune sue canzoni scritte da Dario Fo.

Anche il titolo di una mostra precedente su Chesterton al Meeting, dal titolo: “Il cielo in una stanza” mi era sembrato infausto, data l’inequivocabile allusione al compagno Gino Paoli. Mi è sembrato quindi che, nel metodo e nella forma, e qui mi fermo ai soli Chesterton e Guareschi, l’operazione Meeting sia stata non solo scorretta ma anche superficiale. L’appropriazione indebita che il Meeting ha fatto di questi autori (soprattutto nelle ultime edizioni) non solo non ha reso giustizia alle loro opere, ma ha prodotto quella confusione e quel politically correct , che è anche teologically correct, che equivale a quel “trinariciutismo” di guareschiana memoria.

La continua preoccupazione di adeguarsi al clima ecclesiale e politico corrente, accostando le “periferie esistenziali”, il “parroco che conosce il suo gregge” di bergogliana fonte ad esempio alla figura di Don Camillo, non permette un’analisi oggettiva e approfondita, così come l’ansia di “scrutare i segni dei tempi” non consente di cogliere la prospettiva trascendente e di Grazia che il loro universo culturale (mi riferisco ancora a Chesterton e a Guareschi) rimanda.

Da parte mia non ho mai nascosto le perplessità derivanti da queste presunte “operazioni culturali” che il Meeting ha inscenato e mi sono sempre preoccupato di verificarne la consistenza, andando alle fonti oggettive, cercando di dimostrare con argomentazioni e ragioni il mio pensiero. Cosa che ho fatto recentemente anche con il pensiero di Carron senza tuttavia mai ricevere risposta (a proposito del dialogo tanto declamato da CL ma assai lontano dalla realtà). Mi sembra addirittura che il Meeting abbia tradito la vera natura dell’Incontro, non solo non confrontandosi direttamente con chi (come me, Alessandro Gnocchi e Paolo Gulisano) ha studiato da anni, con pubblicazione di libri, di saggi e partecipando a numerosi eventi su Chesterton e Guareschi, ha contribuito alla conoscenza di questi grandi autori ma mettendo da parte chi, come Gnocchi e Gulisano, erano stati un tempo considerati amici e collaboratori, cooperatori nell’allestire mostre e chiamati frequentemente alla formazione dei giovani ciellini in varie località italiane.

Allora mi sono chiesto se davvero tali operazioni corrispondano al “trinariciutismo”: lo slogan ad esempio non è soltanto una frase breve imparata a memoria, non è soltanto espressione del cortocircuito del pensiero (come amava definirlo Guareschi) poiché l’efficacia degli slogan creati dallo stesso Guareschi durante le elezioni del 18 aprile del 1948 contro il Fronte popolare aveva questa natura di rapida ed efficace assimilazione (“Nella cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no”, “Mamma, votagli contro anche per me”). Dipende quindi dall’intelligenza di chi lo segue.

Mi è venuto così in aiuto Chesterton che in Eugenetica e altri mali parlava delle frasi lunghe, magari rassicuranti, che nella prolissità celano l’inconsistenza o la confusione di pensiero ed ho pensato ai vari titoli dei Meeting ed anche a quest’ultimo così incompiuto, così ambiguo, così grossolanamente tagliato sul pensiero del Gius: “Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice”.

Ho pensato pure alle manifestazioni della “cielleinità”: dai libri con frasi lunghe, involute, prolisse del Gius cui le “Scuole di comunità” si affannavano e si affannano invano nel tentativo di decifrarle e di renderle comprensibili; dallo stesso concetto ambiguo di “liberazione” che presuppone e sconfina nell’ugualitarismo sinistrorso o nel liberalismo; dal cambiamento di rotta propugnato da Carron per il superamento della “presenza reattiva” (a proposito, Guareschi era un fiero reazionario) con la “presenza originale” più ecclesialmente e politicamente corretta; dal massiccio uso di termini come “Presenza”, “Avvenimento”, “Incontro” che rivelano una prospettiva di fede attraverso la sola esperienza o testimonianza anziché attraverso la dottrina, l’approfondimento del dogma, la contemplazione spirituale e la meditazione attraverso la ragione.

Alla scuola di Chesterton e Guareschi, mi sono sempre preoccupato di verificare il mio grado di possibile “trinariciuto” e non ho fatto che confrontarmi con loro, con le loro opere, con la mia capacità di comprensione, cercando di stimolare un reale dibattito con altri e preoccupandomi non tanto di contentare tal politico o cardinale di turno, ma restando fedele oggettivamente a quanto hanno detto. Ai posteri l’ardua sentenza e il dilemma che ho posto anche al Meeting di Comunione e Liberazione: “Perché non possiamo non dirci trinariciuti?”.

 

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