Con la pubblicazione di questo appassionato intervento di Giovanni Lugaresi segnaliamo ai nostri lettori che domenica 22 dicembre alle ore 17, nell’auditorium “Santa Maria Maddalena” di Isola della Scala (Verona) verrà rappresentata La Favola di Natale di Giovannino Guareschi con la regia di Fabio Trevisan.

Giovannino Guareschi, uomo di fede e di libertà, di valori e di sentimenti, al Natale ha dedicato non poche pagine della sua grande opera, rivelando il suo profondo, sentito, cristianesimo. Fra gli Italienische Militar-Internierte (IMI) del Terzo Reich, dalla Polonia alla Germania, aveva per la prima volta manifestato pubblicamente la sua fede religiosa in quella irrisione a chi lo teneva in carcere, che lui chiamò “signora Germania”, scrivendo nel Lager di Beniaminowo, nel 1944):

Signora Germania, tu mi hai messo fra i reticolati, e fai la guardia perché io non esca.
È inutile, signora Germania: io non esco, ma entra chi vuole. Entrano i miei affetti, entrano i miei ricordi.
E questo è niente ancora, signora Germania: perché entra anche il buon Dio e mi insegna tutte le cose proibite dai tuoi regolamenti.
Signora Germania, tu frughi nel mio sacco e rovisti fra i trucioli del mio pagliericcio. E’ inutile, signora Germania: tu non puoi trovare niente, e invece lì sono nascosti documenti d’importanza essenziale. La pianta della mia casa, mille immagini del mio passato, il progetto del mio avvenire.
E questo è ancora niente, signora Germania. Perché c’è anche una grande carta topografica al 25.000 nella quale è segnato, con estrema precisione, il punto in cui potrò ritrovare la fede nella giustizia divina.
Signora Germania, tu ti inquieti con me, ma è inutile. Perché il giorno in cui, presa dall’ira, farai baccano con qualcuna delle tue mille macchine e mi distenderai sulla terra, vedrai che dal mio corpo immobile si alzerà un altro me stesso, più bello del primo. E non potrai mettergli un piastrino al collo perché volerà via, oltre il reticolato, e chi s’è visto s’è visto.
L’uomo è fatto così, signora Germania: di fuori è una faccenda molto facile da comandare, ma dentro ce n’è un altro e lo comanda soltanto il Padre Eterno.
E questa è la fregatura per te, signora Germania”.

In queste espressioni di fede e di senso di libertà, come frequentemente accade con Guareschi, ci troviamo un rimando-collegamento, per così dire, al messaggio evangelico. Riferisce infatti Matteo (10,24-33): “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima…”. E ancora, in altra occasione (la galera italiana), lo scrittore avrebbe detto: “Libertà è dovunque vive un uomo che si sente libero”.

Allora, se provassimo a far Natale con Guareschi? Se non altro per respirare un po’ di aria pulita, alla luce della fede, della speranza, della tradizione, con qualche soffio di umorismo e aliti di poesia. Perché se ne ha abbastanza di sortite demenziali sulla rinuncia a questo e a quello, per rispetto delle altrui tradizioni, usi, costumi, eccetera eccetera. Come se non avessimo l’obbligo morale di rispettare in primis le “nostre” tradizioni, i nostri usi e costumi, che non vogliamo certamente imporre a nessuno, ma che in casa nostra avremo pure il diritto di ricordare, di coltivare, di celebrare.

Giovannino, dunque. Perché non è frequente trovare, in un’opera letteraria la presenza del Natale espressa con un’intensità di fede e con un soffio di delicata poesia, come nelle pagine dell’autore della Bassa. Che nell’incarnazione di Dio che si fa uomo per il bene degli uomini, ci credeva a tal punto da scrivere addirittura due “favole di Natale”, e di dedicare all’evento diverse altre pagine in vari libri, a incominciare da quel finale di Don Camillo (il primo volume all’insegna del Mondo piccolo – Rizzoli 1948) nel quale Peppone, in una brumosa serata novembrina, andato in canonico a confidare certe sue preoccupazioni al parroco, si trova fra le statuine del presepe. Il pretone sta lavorando infatti, in forte anticipo sui tempi, perché – dice – Natale arriva in fretta cogliendoti magari di sorpresa.

Eccolo, allora, ricevere la visita del sindaco e capo dei rossi mentre sta ripulendo e sistemando le statuine del presepe… Don Camillo prende il Bambinello e un pennellino affidandoli a Peppone per i ritocchi necessari di pulizia e di colore. Incombenza alla quale il nostro omone non si sottrae, anzi… E uscendo, annota Guareschi:“Peppone si trovò nella cupa notte padana, ma oramai era tranquillissimo perché sentiva ancora nel cavo della mano il tepore del Bambinello rosa”.

Il finale del racconto è all’insegna di una fede semplice e toccante: “Il fiume scorreva placido e lento, lì a due passi sotto l’argine, ed era anch’esso una poesia: una poesia cominciata quando era cominciato il mondo e che ancora continuava e per arrotondare e levigare il più piccolo dei miliardi di sassi in fondo all’acqua, c’eran voluti mille anni. E soltanto fra venti generazioni l’acqua avrà levigato un nuovo sassetto. E fra mille anni la gente correrà a seimila chilometri l’ora su macchine a razzo superatomico e per fare cosa? Per arrivare in fondo all’anno e rimanere a bocca aperta davanti allo stesso Bambinello di gesso che, una di queste sere, il compagno Peppone ha ripitturato col pennellino”.

A proposito del Mondo piccolo, poi, è significativo il racconto “La cellula di mezzanotte”. Polemicamente, Peppone e i suoi si riuniranno, in alternativa alla liturgia in chiesa, a leggere i “testi sacri” del comunismo, Marx, eccetera. Se non che don Camillo si presenterà, inaspettato ospite, dai rossi e celebrerà messa sull’altare da campo che si è portato dietro. Toccante, coinvolgente racconto, dal quale emerge una fede mai sopita.

Ecco il passo: Peppone sta per leggere (propinare) ai compagni, dunque, “un magistrale profilo di Mao Tsetung”, quando:

la porta si spalancò ed entrò un grosso uomo intabarrato che, passando come un panzer tra le panche, arrivò davanti al palco sul quale stava Peppone, salì la scaletta e, spalancato il tabarro, cavò fuori una vecchia cassetta grigioverde che mise con violenza sul tavolino di Peppone.
Tutti quelli delle prime file di panche la conoscevano a memoria, quella vecchia cassetta grigioverde, perché l’avevano vista tante volte in montagna [durante la resistenza, ndr], quando don Camillo rischiava le pallottole per arrivare fin lassù. E si alzarono.
Don Camillo sollevò il coperchio della cassetta ed ecco sorgere l’altarino da campo. Peppone intanto si era alzato ed era sceso dal palco.
Don Camillo si volse un momento e fece un grugnito.
Allora, caracollando, lo Smilzo salì la scaletta e arrivò al fianco di don Camillo, come aveva fatto tante volte lassù. Poi lo aiutò a vestirsi, accese le candele e, quando fu ora, si inginocchiò a lato dell’altare.
Fu una Messa povera, roba da soldati, quasi clandestina. Ma avevano spento le luci della sala e le candele dell’altarino facevano un bell’effetto. E poi, le note dell’organo della chiesa, quelle che erano venute ad appiccicarsi ai vetri delle finestre del salone, erano ancora vive e palpitanti e così c’era anche una lontana musica nell’aria…”.

Ne “Il magone dell’antenato”, racconto apparso sul settimanale “Oggi” nel dicembre 1967, poi raccolto in Chi sogna nuovi gerani? (Rizzoli 1993), l’autore scrive dell’annuale visita alla tomba dei genitori nel piccolo cimitero di Marore, alle porte di Parma. Lì riposano sua madre, la maestra vecchia (Lina Maghenzani), e il padre Primo Augusto, e sulla tomba c’è il “monumento”, cioè un’opera in bronzo dello scultore Luigi Froni, a Gramigna, che non è una sorta di Franti del Cuore di deamicisiana memoria, bensì, “l’ultimo della classe”, di cuore buono, tanto da ricordare la vecchia maestra. Ed ecco come, prima di avviare il muto colloquio coi suoi morti, che ci immerge in quella meravigliosa “comunione dei Santi” del Credo cattolico, incomincia Guareschi.

Dicembre 1967. La sosta di Natale. Per noi della vecchia generazione, pure disincantati da guerre, relativi dopoguerra, nonché da altre esperienze, il traguardo sentimentale d’ogni anno rimane il Natale.
Natale è per noi la tappa annuale del lungo e duro cammino: l’albero frondoso all’ombra del quale, usciti dalla strada assolata e polverosa, ci fermiamo un istante per raccogliere le nostre idee, i nostri ricordi, e per guardarci indietro. E sono assieme a noi i nostri cari: i vivi e i morti. E nel nostro Presepino d’ogni Natale rinasce, col Bambinello, la speranza di un mondo migliore…”.

Sarebbe stato l’ultimo Natale di Giovannino. Quello del 1968 non avrebbe fatto in tempo a vederlo: il 22 luglio, infatti, avrebbe cessato di vivere, colpito da un infarto nella casa di Cervia dove trascorreva i mesi estivi.

Il pieno, completo e compiuto senso del mistero, espresso poi con una altezza poetica da vertigine, lo troviamo infine in quella Favola di Natale pensata in un lager nazista nei giorni precedenti il 25 dicembre 1944. Una prima fiaba, Guareschi l’aveva scritta pochi mesi dopo la cattura e l’avvio ai lager, alla vigilia di quello che sarebbe stato il suo primo Natale di internamento. Era una “favoletta”, nel senso di pochi fogli: con una sentinella sulla torretta, Giuseppe e Maria che arrivano al lager chiedendo ospitalità, e poi il nascondimento (grazie alla sentinella stessa), una luce che si accende nel luogo dove nasce il Bambino, una grande splendida stella, la presenza di un colonnello, quindi la scomparsa della Sacra Famiglia così, nel nulla. Per concludersi con un “Buon Natale” detto dal soldato (buono per l’occasione) della torretta.

Un gioiellino, mai pubblicato da Guareschi, ma che apparve in anteprima sul Gazzettino, poi molto opportunamente dai figli, inserito in “Ritorno alla base” (Rizzoli – 1989). A proposito di queste pagine, nel Grande Diario 1943-1945 (Rizzoli), del Natale si legge più e più volte… Eccone una:

“Venerdì 24 dicembre 1943 Vigilia di Natale. Neve in terra e nebbia – salute adeguata – minestra di cavoli, patate, marmellata, carne in scatola, pane. Ho disegnato la ‘Lettera del papà’ sulla parete e Novello ha finito il Presepe. Abbiamo fatto l’albero di Natale… Ho finito la mia conversazione ‘Natale 1943’; l’ho scritta con disperazione…”.
Sabato 25 dicembre 1943. Nebbia di brina ricamata. Salute adeguata… Questa notte è venuto Albertino a trovarmi col suo sorellino e il buon Dio, per non farglieli vedere, ha coperto i reticolati con candidi fiori di gelo. Regalo del Bambino Gesù: dato i tempi ha fatto anche troppo”…

Ma il capolavoro di Giovannino sarà La Favola di Natale dell’anno successivo, musicata da Arturo Coppola, edita nel dopoguerra e più volte ristampata da Rizzoli. In quel testo, l’incipit vedrà ancora una volta protagonista il figlio dell’IMI numero di matricola 6865, Albertino, con una poesia da recitare, e quindi con la nonna, il fido cane Flik e una lucciola a illuminare il cammino, su per la lunga via sconosciuta che porta al lager: un percorso caratterizzato da vari e a volte strani incontri: dalla gallina padovana travestita da ferroviere che si affretta a ritornare in patria per deporvi l’uovo (non sia mai che succeda all’estero!) alla formichina che impreca a un risparmio che l’ha condannata alla povertà, dalle malefiche cornacchie ai gentili passerotti che nel finale faranno da contorno al gruppo nel bosco…

Nel Grande Diario, alla data di domenica 17 dicembre 1944, leggiamo: “Ho scritto una favola di Natale”. E il martedì successivo: “Finito Favola di Natale”. Ancora, nei giorni antecedenti il 25, si legge della preoccupazione dell’autore che il testo non venga capito, poi: “Domenica 24 dicembre 1944… Prima della Favola di Natale. Un successone”. E il successone si ripeterà nelle successive letture nelle varie baracche, suscitando commozione, instillando speranze in quegli sventurati lontani dalla famiglia, dalla Patria.

Tornato in Italia nella tarda estate del 1945, Giovannino presentò quella favola all’Angelicum di Milano la sera del 23 dicembre: spettacolo a favore delle famiglie degli ex internati; e tornarono la commozione, la fede, le speranze, la poesia di quel Natale fra i reticolati. Quelle pagine scritte nel lager avevano avuto tre muse ispiratrici: il freddo, la fame e la nostalgia – come sottolineato dallo stesso autore.

Ed erano pagine ricche di metafore, con note polemiche, con aliti di poesia, ma soprattutto testimonianza che il Dio della pace che si incarnava nella Notte Santa rappresenta l’evento centrale dell’umanità e quindi, a maggior ragione, nella vita di quegli sventurati, poveri straccioni affamati, ma che trascinavano i loro giorni di pena all’insegna della fede, della speranza e del senso di libertà. Sì, della libertà, perché – come aveva avvertito lo stesso Guareschi nella pagina che abbiamo citato all’inizio – lui non poteva uscire dal campo di concentramento, ma poteva entrare chiunque: sogni, ricordi, affetti, e pure il buon Dio! La libertà essendo, prima di tutto, un fatto interiore: la libertà dei figli di Dio…

Con La Favola di Natale, lo scrittore avrebbe in un qualche modo posto un sigillo inconfondibile ai giorni di prigionia, nel senso di avere toccato un livello straordinario, inimmaginabile, rispetto alle altre pagine scritte e lette ai compagni di sventura, per aiutarli moralmente a sopravvivere, a resistere, ripetendo magari insieme a lui, la famosa (paradossale) frase “Non muoio neanche se mi ammazzano”! Quei fogli sgualciti, ingialliti, diventarono infine, come detto, un libro, con le illustrazioni dello stesso Giovannino, bellissime formalmente, emblematiche umanamente-moralmente-spiritualmente.

Il finale della Favola è tutto un programma, per così dire. Il gruppetto composto dalla nonna, da Albertino e dal fido cane Flik non arriva al lager, perché nel frattempo anche il babbo è uscito, e l’incontro avviene in un bosco. Lì c’è il trionfo degli affetti, e lì si conclude il viaggio periglioso e ricco di imprevisti affrontato dai familiari dell’internato numero 6865. Dopo avere gustato una sorta di panettone improvvisato-preparato con utensili di fortuna, lì, fra gli alberi, insieme alla nonna, Albertino si rivolge al genitore. Ma leggiamolo questo finale così toccante e coinvolgente da scaldarci il cuore:

A uno a uno gli occhietti che fiammeggiavano sull’abete nel bosco solitario si sono spenti. Nel fornellino la fiamma dà gli ultimi guizzi.
Fa freddo.
Gli alberi hanno riallargato il loro cerchio e il Vento soffia gelido.
Croci nere sono sparse nel bosco e attorno a ogni croce si aggirano mute ombre. E le croci sono tante, e le ombre sono infinite.
Chi sono, papà?’
Sono gli spiriti dei vivi che vengono a cercare i loro morti. Guardano tutte le croci che la guerra ha sparso nel mondo, leggono i nomi incisi sulle croci. E quando una mamma ritrova la tomba del suo figliolo, si siede sotto la croce e parla con lui di tempi felici che non torneranno mai più…’
Il Vento, intanto, riporta la canzone che è stata fino ai campi di prigionia e ritorna alle case, e la canzone che è stata alle case e ritorna ai campi di prigionia.
Buon Natale, mamma, buon Natale, Albertino’ dice il babbo. ‘Ora ritornate a casa: la vostra canzone vi riaccompagnerà’.
E tu non vieni, papà?’
Domani, Albertino…’
Domani, o morgen?’ chiede la nonnina.
Dorgen, mamma.’
Papà, perché non mi prendi con te?’
Neppure in sogno i bambini debbono entrare laggiù. Promettimi che non verrai mai.’
Te lo prometto, papà’.
Se ne sono andati assieme alle loro canzoni e il bosco è muto e deserto.
Nevica e una nuova soffice coltre si stende sull’altra indurita dal vento.
Il cerchio verde attorno al fuoco è ridiventato bianco. Scompare la traccia dei sentieri.
Notte da prigionieri!’ esclama il Passerotto capofamiglia nascondendo la testa sotto l’ala. E nel muoversi fa cadere una foglia che scende volteggiando lentamente e si posa nel bel mezzo della bianca radura. E si vede che, sulla foglia, c’è scritto la parola
FINE.
Ed è una foglia stretta stretta:
Stretta la foglia – larga la via
Dite la vostra – che ho detto la mia.
E se non v’è piaciuta – non vogliatemi male,
ve ne dirò una meglio – il prossimo Natale,
e che sarà una favola – senza malinconia:
C’era una volta – la prigionia”.
(Stalag XB, dicembre 1944)

Grande, immenso, Giovannino! Che sa percorrere con la forza della fede, e con la delicatezza della poesia, a volte accompagnata da un soffio di umorismo, come abbiamo già detto, ma che ancora vogliamo sottolineare, le vie del cuore!… Trasmettendoci una compagnevole melanconia, nella sua profonda dolcezza…

Allora, buon Natale con Guareschi, cari amici che avete avuto la pazienza di ascoltarmi! Sarà un Natale certamente sereno… nonostante tutto.

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