Paul Claudel e la Messa in latino – di León Bertoletti

Paul Claudel, il delicato poeta francese che abbracciò la fede cattolica e del quale si celebrano i 150 anni dalla nascita (6 agosto 1868), non ha bisogno di presentazioni. Traduciamo per i lettori (a dimostrazione dell’anticipazione di certi pruriti e aggiornamenti rispetto alle tendenze e alle decisioni vaticanosecondiste, agli scempi liturgici e architettonici compiuti poi nel segno del calabraghismo conciliare) quanto l’autore pubblicò il 29 gennaio 1955, sul Figaro Littéraire, sotto il titolo “La Messa a rovescio”.

«Vorrei protestare con tutte le mie forze contro l’uso che sempre più si diffonde in Francia di dire Messa rivolti verso il pubblico. Il principio stesso della religione è che Dio è primo e che il bene dell’uomo non è che una conseguenza del riconoscimento e dell’applicazione nella vita pratica di questo dogma primordiale. La Messa è l’omaggio per eccellenza che rendiamo a Dio nel sacrificio che il prete fa a Lui in nostro nome sull’altare di Suo Figlio. Ci siamo noi dietro il prete e non facciamo che uno con lui, così dirigendoci verso Dio per offrirgli hostias et preces. Non è Dio che viene a proporsi a noi come a un pubblico indifferente per renderci testimoni a nostra più grande comodità del mistero che si va a compiere.
«La nuova liturgia spoglia il popolo cristiano della sua dignità e del suo diritto. Non è più lui che dice Messa con il prete, che la “segue”, come si dice molto giustamente, e verso cui il prete si volta in alcuni momenti per assicurarsi della sua presenza, della sua partecipazione e della sua cooperazione nell’opera nella quale è incaricato a nome nostro. Non c’è altro che un’assistenza curiosa che lo guarda svolgere il suo mestiere. I non pii hanno buon gioco nel paragonarlo a un prestigiatore che esegue il suo numero nel bel mezzo di un circolo educatamente meravigliato.
«È certo che con la liturgia tradizionale una grande parte toccante, commovente, del Santo Sacrificio sfugge agli occhi dei fedeli. Non sfugge al loro cuore, alla loro fede. Questo è così vero che durante tutto l’Offertorio, nelle grandi Messe solenni, il suddiacono ai piedi dell’altare si vela il volto della mano sinistra. Noi pure, noi siamo invitati a pregare, a rientrare in noi stessi, e non alla curiosità ma al raccoglimento. In tutti i riti orientali il miracolo della transustanziazione si compie fuori dalla vista dei fedeli, dietro l’iconostasi. Non è che in seguito che l’Officiante appare sulla soglia della Porta sacra, il corpo e il sangue di Cristo fra le mani. Un resto di questa idea si è perpetuato lungamente in Francia, dove i vecchi eucologisti non traducevano affatto le preghiere del canone. Dom Guéranger ha protestato con energia contro i temerari che hanno violato questa riserva.
«Il deplorabile uso attuale ha completamente scosso l’antico cerimoniale con grande sconcerto dei fedeli. Non c’è più altare. Dov’è, questo blocco consacrato al quale l’Apocalisse paragona il corpo stesso di Cristo? Non c’è altro che un vago cavalletto ricoperto da una tovaglia che richiama dolorosamente la struttura calvinista. Naturalmente, essendo stata postulata come principio la comodità dei fedeli, bisognava liberare il più possibile quel tavolo dagli “accessori” che l’ingombrano: non soltanto candele e vasi di fiori, anche il tabernacolo! Anche il crocifisso! Il prete dice Messa nel vuoto! Quando invita il popolo a elevare il cuore e gli occhi…  verso che? Non c’è più niente al di sopra di noi per servire da frontespizio al sole levante! Se teniamo le candele e il crocifisso, il popolo è ancora più escluso che nell’antica liturgia, perché allora non soltanto la cerimonia, il prete stesso è interamente nascosto.
«Mi rassegnerei, con immenso dolore, perché, pare, non si può più chiedere alla folla alcuno sforzo spirituale ed è indispensabile figurarle davanti i misteri più angusti, a vedere la Messa ridotta alla Cena primitiva, ma allora è tutto il rituale che deve cambiare. Che vogliono dire questi Dominus vobiscum, questi Orate fratres, da un prete separato dal suo popolo e che non ha niente da chiedergli? Che significano questi paramenti sontuosi da ambasciatori che noi deleghiamo, la croce sulle spalle, al lato della Divinità? E le nostre stesse chiese, possiamo lasciarle tali e quali?».
L’articolo suscitò reazioni vivaci. Tanto da costringere Claudel, il 12 febbraio 1955, a un intervento ulteriore.
«Il mio articolo su “La Messa a rovescio” ha guadagnato al Figaro Littéraire e a me posta abbondante. Certi corrispondenti mi approvano. Altri mi prendono con un linguaggio veemente. L’unico argomento serio che trovo nelle loro lettere è il seguente: “Se la Messa a rovescio, come la chiamate, è contro il senso liturgico, come mai a Roma, a San Pietro, il Papa la dice rivolto al pubblico?”. Vorrei spiegarmi su questo argomento, rimanendo inteso che, per me come per tutti i cristiani, la Messa, a rovescio come a dritto, è sempre la Messa. Il suo carattere essenziale non è cambiato.
«Dunque, da un lato la Messa è detta a San Pietro dal Papa in una certa maniera. Si tratta di un fatto di carattere eccezionale, analogo a quelle pittoresche anomalie che costituiscono per esempio i riti ambrosiano e lionese. Se i miei corrispondenti vogliono conoscerne la ragione, non mancano a Roma liturgisti che si prenderanno l’incarico di fornire le spiegazioni necessarie. L’immaginazione me ne suggerisce molte. Dall’altro lato, c’è l’uso secolare e universale di dire Messa come l’ho sempre vista dire fin dall’infanzia in tutta la cristianità del mondo, di fronte al tabernacolo, di fronte al crocifisso, di fronte a Dio. Il prete si metteva davanti a me all’altare come il delegato che compiva in nome mio il mio proprio dovere.
«Bruscamente, da una parte e dall’altra, l’uso viene sconvolto. L’altare è spogliato di quello che questi Signori di San Severino chiamano “le fanfaluche”, cioè a dire le candele, il tabernacolo, il crocifisso. Quello che stava a destra si trova ora a sinistra. Tra l’officiante e il popolo non c’è più niente d’interpellanza e di risposta. Sembrerebbe che per delle modifiche così gravi nell’atto essenziale del culto cristiano, capaci di travagliare così profondamente lo spirito dei fedeli, sarebbe servita un’indicazione venuta dall’alto, o della stessa Santa Sede o dei Nostri Signori vescovi dopo matura deliberazione. In questo caso, beninteso, sarei stato il primo a inchinarmi. Per niente al mondo! Non si agisce che per iniziative anarchiche, provenienti in generale da giovani preti il cui giudizio, è il meno che posso dire, non m’ispira affatto una fiducia illimitata. Se la maniera di dire Messa è affidata dunque alle convenienze personali dei celebranti, sarebbe ora che i fedeli fossero avvertiti».
Così profetico, Paul Claudel morirà una decina di giorni dopo, il 23 febbraio 1955.
Léon Bertoletti

1 commento su “Paul Claudel e la Messa in latino – di León Bertoletti”

  1. E pensiamo un po’ se Paul Claudel avesse visto la Messa non rovesciata quanto alla posizione del celebrante, ma addirittura stravolta quanto alla sua essenza stessa, condotta non più da un Celebrante, che agisce ‘in persona Christi’, ma da un Presidente che agisce impersonando l’assemblea – ‘in persona assembleae’, con la quale dice di “celebrare i santi misteri”, non del Sacrificio ri-attuato, ma della sua semplice vuota memoria, e quindi ri-versando il senso della Cena protestante nella liturgia ‘cattolica’… E questa volta non “per iniziative anarchiche provenienti da giovani preti” ma per espressa, non già “indicazione”, ma ‘imposizione’ venuta dalla Santa Sede” (alla quale è certamente dovere del Cattolico non “inchinarsi”!!!)

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