Pensare la guerra. Note in margine a un esame di coscienza

Forse è naturale in tempi oscuri che le domande siano più numerose delle risposte e con facilità, per tante ragioni, essere portati – noi – a confondere i fatti con la realtà. La tentazione nascosta dietro l’angolo è di confondere il giusto con l’ingiusto e, allora, le parole si alleano per costruire dei fatti che dapprima si sostituiscono alla realtà e poi diventano la verità.

Dimentichiamo con facilità che la percezione umana è limitata, crediamo di abbracciare il tutto quando in realtà ne vediamo una frazione. Mai come ora l’invito degli antichi alla moderazione, al contenimento degli stati d’animo, è forse una delle poche bussole che ci rimangono.

In tempi di emergenza una stretta sorveglianza sui propri pensieri (oltre che sulle emozioni) è imprescindibile, soprattutto quando la possibilità di una guerra sembra farsi concreta; facile spettacolo terrificante in una società manipolabile come la nostra, basata sullo sfruttamento delle risorse e sul profitto.

Siamo ancora in grado di ascoltare le lacrime delle cose? (Eneide I, 462)?

L’orizzonte in cui viviamo, e che ci pare assoluto e quindi necessario, potrebbe divenire luogo di colonne di fuoco e fumo che forse oggi ancora ci atterriscono, domani potrebbero attrarci se le condizioni del nostro vivere, prima ancora di attaccare il necessario, ci porteranno a doverci confrontare con la privazione del superfluo che ormai siamo abituati a scambiare come necessario.

La guerra ha sempre fatto parte dell’esistenza dell’uomo, ma da quanto tempo violenza e morte sono elementi, nella nostra società, non privi di fascino e che guardiamo con sorniona benevolenza?

La guerra non cambia niente. Non migliora, non redime, non cancella: per sé sola. Non fa miracoli. Non paga i debiti, non lava i peccati. In questo mondo, che non conosce più la grazia… Essa non cambia i valori artistici e non li crea: non cambia nulla nell’universo morale. E anche nell’ordine delle cose materiali, anche nel campo della sua azione diretta… Che cosa è che cambierà su questa terra stanca, dopo che avrà bevuto il sangue di tanta strage: quando i morti e i feriti, i torturati e gli abbandonati dormiranno sotto le zolle, e l’erba sopra sarà tenera lucida nuova, piena di silenzio e di lusso al sole della primavere che è sempre la stessa?”.

Queste parole le leggiamo nell’Esame di coscienza di un letterato pubblicato nel 1915 e furono scritte da Renato Serra (1984-1915), critico letterario e bibliotecario, e fu testo che fece epoca.

Perché leggere Serra? Fu un letterato talentuosissimo, capace di dar corpo alle parole toccando immediatamente l’animo del lettore, ma era anche un uomo che dovette fare i conti con quella che si potrebbe intendere come una forma subdola di accidia; soffriva e combatteva una dipendenza dal gioco già presente nella sua famiglia e che lo prendeva a tratti con un impulso irresistibile, tormentata era anche la sua vita sentimentale e dovette ripetutamente fare i conti con infezioni veneree. Dai suoi scritti, però, in modo particolare dal notevolissimo epistolario, appare un’anima trasparente, di quella purezza, l’unica che conta, attraverso cui, se l’uomo non pone un preciso rifiuto, Dio può riflettersi.

Serra è espressione della nostra epoca contrassegnata dalla frammentazione che seppe affrontare, e ne è rimasto largo ricordo, con tratto di spiccata signorilità e garbatamente cortese verso tutti.

Riprenderlo in mano adesso fa l’effetto della frescura di un albero solitario dopo una camminata faticosa. Nel momento in cui fu scritto l’Esame, la prima guerra mondiale stava aprendo la nostra terribile epoca. Serra morì due mesi dopo l’inizio della guerra, sul Podgora. La dinamica della sua morte non lasciò indifferenti al punto che a qualcuno sembrò un gesto suicida. Per un caso fortuito il suo corpo venne ritrovato dopo tre giorni nella terra di nessuno, il volto appariva sorridente… Dio solo è giudice dei momenti supremi di un uomo.

Serra si trovò sul confine di una realtà che stava mutando; lui, letterato, percepì la fine di un mondo fondato sui valori classici, i tempi diversi che premevano, basati sulla mercificazione di ogni aspetto dell’esistenza, gli andavano stretti. L’impossibilità/incapacità di abbandonare la città natale di Cesena, un europeo di provincia fu definito, aveva a tratti il segno del disperato tentativo di cogliere ancora alcuni attimi di ciò che era destinato a scomparire per sempre.

Le sue ultime lettere, però, e il suo Diario di trincea, bellissimo e struggente, sembrano soffusi di malinconia e tratteggiano il suo andare con fraterna commozione insieme con gli altri alla guerra, come gesto di una condivisione totale e quasi sacrificale. La sua lucidità sul non-senso della guerra era paradossale nel momento in cui il conflitto gli si offriva come luogo di pacificazione di un’esistenza divisa e inquieta. Serra sembra immergersi nell’ineluttabilità del trascorrere delle cose e lui, uomo in disparte nella corrente della vita, in grado, infine, di riscattarla attraverso l’impotenza suprema.

È stata conservata la divisa azzurra che indossava, retaggio di un modo di fare la guerra basato ancora sulla nobiltà della cavalleria, dove ogni reggimento si poteva così “distinguere sul campo dell’onore”.

La prima guerra mondiale stravolse quel mondo simbolico fin da subito. La necessità di doversi proteggere dai ‘cecchini’, impose la dissimulazione, trasformando le divise in uniformi. Primo segno visibile di quella massificazione nella quale ci troviamo oggi noi e che tutto ha travolto riducendo il cristianesimo a semplice unità di amicizia come diceva Jacques Maritain negli anni ’30. Neppure il Vangelo è stato vissuto sine glossa come idee di questo genere, i risultati li abbiamo sotto gli occhi.

Ci sentiamo anche noi alla soglia della guerra, cosa possiamo fare dunque1? Chissà quanti hanno veramente mai riflettuto su quel singolare dono che è la capacità di pensare e mettere in parole il frutto del pensiero.

Mentre molti di quelli che riteniamo peccati sono solo espressioni di fragilità umana spesso irrecuperabili e il cui aspetto più infido non è dato dalla loro presenza, ma dall’essere indotti a trascorrere una vita intera nel tentativo di emendarli. Impresa più vicino alla superbia che alla disponibilità di lasciare spazio perché Dio possa prendere il largo dentro di noi.

Perché non considerare, invece, un peccato (quello sì grave!) il trascurare la cura della nostra capacità di pensare e di come articoliamo con il linguaggio il nostro pensiero, non è forse il pensare una partecipazione alla vita di Dio molto di più che la caccia spietata a un difetto che ci connota perché essere umani?

Da un secolo a questa parte siamo entrati in una civiltà meccanica e la mente pian piano si è oscurata e l’anima è divenuta sempre più insensibile alla necessità della responsabilità.

Ci possiamo ritrovare, come adesso, in situazioni in cui potremmo essere chiamati a fare i conti con la nostra impotenza; non sono le analisi minuziose sui fatti che ci permetteranno di trovare una via di uscita, ma bisognerà fare i conti con la nostra parte personale di responsabilità rispetto a ciò che sta succedendo. Mai come oggi riveste grande rilevanza quell’antico adagio: ogni anima che si prende cura di sé, si prende cura del mondo.

Serra nel suo Esame scrive, avendo in mente Dante (Par. XXIV,64): “Fede è sostanza…. No. Fede è una parola che non mi piace, e quanto a cose sperate, non ne conosco”. Il suo andare, la sua condivisione fino all’estremo del sacrificio personale, sembra richiamare traccia di un testo biblico (Levitico 1, 2b) “Quando uno di voi vorrà offrire un’ostia (vittima) al Signore”. È un versetto da non lasciar correre via. In un antico commento ebraico si pone l’attenzione sul modo abituale di intenderlo o tradurlo (sia in ambito ebraico sia cristiano) che non rispetta l’ordine grammaticale del testo che recita invece: quando vorrai offrire una vittima di te.

Come a dire che la Bibbia ci riporta alla consapevolezza che la vera vittima non è l’animale innocente o i frutti della terra (o peggio ancora il denaro), essi sono solo simboli innocenti, chi ha peccato siamo noi. Il vero sacrificio, l’unico possibile come insegna Gesù con il suo esempio, è quello di sé.

Attenzione, però, spesso noi valutiamo noi stessi e la vita in base alla nostra capacità di ‘sacrificarci’, cioè rinunciare a qualcosa: soldi, cibo, tempo ecc. Il significato profondo della parola “sacrificio”, però, (sia in ebraico sia in latino) non è collegato al dare qualcosa a Dio, dove il soggetto potente, magari con profonda convinzione di umiltà, rimaniamo noi.

Il sacrificio è prendere noi stessi/qualcosa e avvicinarlo a Dio (Es. 25, 1-22) perché è Lui solo che può rendere santo/sacro.

È possibile pensare la guerra con verità? Forse no, vista la retorica nella quale facilmente siamo portati a cadere. Un discorso di verità sulla guerra può partire solo da una vera riforma che io faccio di me, che non è ripiegamento su me stesso, ma il primo gradino necessario perché chi mi è vicino possa avere lume e coraggio per iniziare a fare lo stesso.

Prendo me stesso e cerco di avvicinarlo a Dio, la modalità è ininfluente. Posso aggirare la retorica della guerra se ingaggio una battaglia in primo luogo dentro di me contro l’incantamento3 della mia immaginazione perché l’intelletto non soccomba e inquini il linguaggio.

La guerra, esperienza profondamente umana, rimane un inganno interessato. Devo innanzitutto smascherarne le dinamiche che albergano dentro di me; comprendere fino a che punto sono spinto da qualcosa di diverso da quella che mi sembra la semplice sopravvivenza; fino a che punto riesco a rispettare i confini, dentro di me, tra verità e menzogna, giusto e ingiusto, e quali barriere nella mia mente lo impediscono.

Infine, se il livello della mia libertà interiore mi dà la capacità minima e la forza di distinguermi dalla massa (sia politica che ecclesiastica), qual è la mia capacità di rispondere in modo responsabile alle mode intellettuali, politiche e religiose.

Il compito ascetico che c’è affidato può togliere il respiro, ma previene la retorica e apre alla possibile conoscenza della verità. Non bisogna scoraggiarsi, ricordiamo la logica del sacrificio: la sua grandezza non sta in quello che possiamo fare noi, ma nel fatto che uno dei doni più grandi che Dio ci ha offerto è la capacità di avvicinare noi stessi a Lui4.

In momenti turbolenti, che potrebbero preludere a una guerra, la mente subisce un impatto destabilizzante e diventa urgente l’opera di bonifica della memoria per poter pensare in modo trasparente proprio la guerra; i pozzi dell’aggressività prima che negli altri sono dentro di noi e solo conoscendoli e frequentandoli, forse, è possibile un discorso di verità sulla guerra.

Le parole di Serra nell’Esame raccontano di un uomo che si è interrogato in modo mai banale sul suo essere nel mondo: “La polemica della guerra — la guerra, insomma — ha cambiato i gruppi, non le fisionomie nè le persone. Son rimasti tali e quali, in fondo: nè meglio nè peggio. Sono unite adesso, e si divideranno domani, secondo le diversità che il consenso e la cooperazione di un momento non può cancellare. Questo non piace. Si vorrebbe che fra i compagni di un’ora e di una passione restasse qualche cosa di comune in eterno. E non è possibile. Ognuno deve tornare al suo cammino, al suo passato, al suo peccato”.

*** *** ***

Quali potrebbero essere i ferri del mestiere di un cristiano di fronte all’incombere di una guerra, a un atteggiamento (a un bisogno?) neppure troppo larvato di mostrare i muscoli? Noi cristiani dovremmo essere pronti. Da alcuni anni siamo già in guerra perché ci stanno cadendo addosso bombe a grappolo lanciate in modo chirurgico sulla Fede dalla Sede da cui meno potevamo aspettarle.

Scrive Renato Serra (Lettere, 1914) pensando alla situazione politica immediatamente precedente la I guerra mondiale a proposito di quelli che definisce “i maghi del disordine” bravissimi tutti a mettere ogni cosa in subbuglio e sconquasso e repentaglio, inettissimi o addirittura alieni da introdurvi ordine o misura.

Come uomini (cristiani) siamo un impasto, a volte impervio, di tensioni e tentazioni, la nostra mente spesso è in stato di allarme perché l’esistenza si fonda sull’instabilità.

Un grande cristiano, il Venerabile Beda (Ɨ 735), affermava5: “la Chiesa cattolica sparsa in lungo e in largo per tutto il mondo, formata nel suo stesso capo Gesù Cristo, si è fortificata sempre di più, non col resistere ma col sopportare” (non resistendo sed persistendo).

La prima (e forse l’unica) vera guerra da affrontare, però, è nel nostro mondo interno; sopportare implica che, pur ridotti a guardare la nostra ombra, incapaci per lo più di scorgere un angelo che ci liberi da quel carcere di parole6 che è stato costruito al posto della Fede, pur avendo l’impressione di aver a che fare con un lutto non elaborabile, tuttavia riusciamo a rimanere saldi.

Durante la prima guerra mondiale papa Benedetto XV, uomo di poca prestanza fisica, testimoni lo ricordano con una voce féssa, non ebbe timore di intaccare la propria reputazione personale e seppe definire la guerra con parole iconiche che la qualificarono per sempre: l’inutile strage. Un sasso in piccionaia che irritò molti, anche tra i cattolici.

Durante la seconda guerra mondiale Pio XII, forse l’ultimo che si considerò un servo della Chiesa e non il suo padrone, fu ancora considerato un punto di riferimento molto aldilà delle sue effettive possibilità e ciò non gli fu mai perdonato.

Tutto questo è scomparso per sempre, e forse è un bene; quello con cui ci stiamo confrontando noi cristiani non solo nel mondo, ma soprattutto nella chiesa, sono macerie di un cedimento da cui provengono parole che sono poco più che condoglianze.

NOTE

1 Cfr. Lev Tolstoj, Che fare dunque?, Fazi 2017. Dare con amore a chiunque Dio ponga sulla nostra strada.
2 Il Signore parlò a Mosè e disse: Di’ ai figliuoli d’ Israele che mettano a parte per me le primizie: le riceverete da tutti quelli che spontaneamente le offriranno.
3 Secondo la lezione dantesca incantamento è fuggire dalla realtà, fosse pure per il più nobile tra gli esercizi, quello dell’amore (Dante, Rime, 9).
4 I Paralipomenon (Cronache), 29, 14 Chi son’io […] tue sono tutte le cose e a te abbiamo dato quelIo che dalla mano tua abbiamo ricevuto.
5 Sermone 70 per la festa di Tutti i Santi
6 Act 12, 7 Ed ecco che sopraggiunse un Angelo del Signore e in quel luogo rifulse la luce e percosso Pietro nel fianco gli disse: Alzati, presto! E caddero dalle sue mani le catene.

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