Racconti per l’estate – Se quel pittore a Vienna…

Ricognizioni presenta ai suoi lettori un “Racconto per l’Estate”, di cui è autore il nostro collaboratore Paolo Gulisano, appassionato studioso della Letteratura dell’Immaginario. Tra le varie branche di questo tipo di narrativa c’è l’ucronìa (detta anche storia alternativa, allostoria o fantastoria), un genere basato sulla premessa generale che la storia sarebbe potuta andare diversamente, in seguito a un avvenimento magari apparentemente insignificante. Si dice la storia non si fa con i “se”, ma talvolta è interessante provare cosa sarebbe potuto succedere alla modifica di una variante degli avvenimenti. Un corso alternativo rispetto a quello reale.
È ucronìa domandarsi, ad esempio, cosa sarebbe successo in Europa, se l’Impero romano fosse sopravvissuto fino ai nostri giorni, se l’Impero bizantino non avesse subito l’invasione islamica, se l’impero ottomano avesse superato l’ostacolo austriaco e si fosse espanso e stanziato nell’Europa centrale ed occidentale, se la Rivoluzione francese non fosse scoppiata, se Napoleone avesse vinto a Waterloo, se i Confederati avessero vinto la Guerra di Secessione americana, e così via.
Tra i maggiori scrittori di ucronie ricordiamo Philip K. Dick (La svastica sul sole), Harry Turtledove (i cicli di Invasione e Colonizzazione), Robert Harris (Fatherland). In Italia, ricordiamo Guido Morselli con il suo magnifico Contro-passato prossimo dove immagina che l’Italia venga sconfitta dall’Austria nella Prima Guerra Mondiale, determinando un effetto domino geopolitico che cambia completamente la storia del mondo. Gulisano si cimenta con questo genere narrativo con un racconto breve, che tuttavia fa pensare.
Buona lettura.

IL PITTORE

Vienna, 20 aprile 1944
Vienna si era svegliata in una splendida giornata di primavera. Il sole illuminava i palazzi del centro città, rendendoli ancora più mirabili di quanto già non fossero. Le strade si erano già animate di persone che andavano al lavoro; i tram sferragliavano rumorosamente, e i locali erano pieni di avventori. Tutta la città esprimeva quella gioiosità per la quale era famosa in tutto il mondo.  Mi fermai in un Caffè sulla Tivoligasse per una abbondante colazione. Potevo ammirare la splendida sagoma del Castello di Schoenbrunn. Tirai fuori dalla tasca della giacca e controllai le credenziali di giornalista per la conferenza stampa. Era tutto a posto. Mi guardai riflesso in uno specchio del locale, e vidi un giovane di trent’anni, biondo, robusto.

Attesi le 11, l’ora fissata per l’incontro, girovagando per la città. Mi trattenni a lungo a pregare nella Cripta dei Cappuccini, dove riposano gli Imperatori della Casa di Asburgo che guidarono con saggezza l’Impero. Proprio con la sua caduta, nel 1918, erano iniziati i gravi problemi dell’Europa e del mondo, problemi che avrebbero potuto essere anche più gravi se non fosse stato… qui arrestai il mio pensiero, per non cadere nel peccato di superbia, il peccato più grave e terribile, quello che aveva condannato mio fratello.

Era giunta l’ora, e mi incamminai verso il Museo Albertina. La magnifica costruzione settecentesca offriva all’ingesso un grande manifesto, che annunciava quella che avrebbe dovuto essere la mostra dell’anno, dedicata a uno dei più grandi pittori del mondo, nativo dell’Austria. Il nome Moncheü campeggiava fuori dal Museo, ma anche sui manifesti che si vedevano in città. Anche se da anni l’artista viveva negli Stati Uniti, l’Austria era orgogliosa dei successi di questo suo figlio, e in occasione del suo cinquantacinquesimo compleanno aveva voluto omaggiarlo con una grande mostra antologica ospitata in uno dei palazzi più importanti di Vienna. Per il vernissage del pomeriggio erano attesi lo stesso giovane sovrano Otto, e il cancelliere tedesco Adenauer, dal momento che Moncheü aveva anche profondi legami con la Germania.

La sala adibita alla conferenza stampa era gremita, e io mi accomodai tranquillamente in fondo. Quando Moncheü fece il suo ingesso, ci fu un grande applauso. L’artista sembrava impacciato, sorpreso. Era rimasto l’uomo timido e un po’ fragile di nervi che avevo incontrato oltre trent’anni prima, quando era poco più che un ragazzo. Aveva ancora i capelli nerissimi, portati lunghi, fino alle spalle, un vezzo che evidentemente aveva acquisito col tempo. Anche i baffi appuntiti erano ancora neri, con qualche screzio di grigio. Il successo non lo aveva troppo cambiato, ma appagato sì. Accanto a lui sedeva sua moglie Sarah, tenendolo per mano. Come noto, l’artista non aveva avuto figli, ma il suo matrimonio era stato solido e felice. Tirai un profondo sospiro di sollievo. Tutto era andato bene.

Lo sguardo con cui scrutava i presenti era intenso, sembrava cercare di carpire i loro sentimenti, le loro emozioni. Le mani gli tremavano leggermente. Mi chiesi se fosse emozione, o un inizio di Parkinson. Il colorito della pelle era più abbronzato di un tempo. Sapevo che negli Stati Uniti viveva sulla costa del Massachussets, e sicuramente stava spesso sulla spiaggia. Tra le sue opere più importanti c’era una splendida “Marina di Nantucket”, l’isola dalla quale un tempo salpavano le baleniere, e dove è ambientato l’inizio di Moby Dick. I ritratti invece non erano mai stati il suo forte, anche se recentemente il Presidente Roosevelt ne aveva voluto uno da lui.

Mentre il Direttore dell’Albertina inanellava i ringraziamenti e faceva le presentazioni, sfogliai il catalogo della mostra. C’era il meglio dell’opera di Moncheü, realizzata con prestiti di diverse gallerie, da New York a Berlino, e di privati. Era un vero e proprio omaggio alla carriera, un percorso artistico che – riflettei – aveva probabilmente già espresso il meglio del suo talento.

Il Ministro della cultura prese la parola, iniziando dopo i ringraziamenti a ripercorrere le tappe della carriera dell’artista, che lo aveva portato ad affermarsi a livello mondiale, venendo soprannominato il Principe dell’Acquarello, innalzando questa tecnica popolare a livelli di sublimità. Lo confrontò con Albrecht Dürer, con Monet, con Cèzanne, con Picasso.

A questo punto, il Ministro ringraziò due anziani gentiluomini che sedevano in prima fila, il commerciante Samuel Morgenstern, e l’avvocato Josef Feingold, che avevano sostenuto fin dagli inizi, con lungimiranza, il giovane artista appena uscito dall’Accademia di Belle Arti di Vienna, e cedette quindi la parola al Direttore dell’Accademia stessa.

Qui i miei pensieri presero a divagare, e a immergersi nei ricordi.

*** *** ***

Quel 7 ottobre 1908 era una giornata molto diversa a Vienna. Il cielo era scuro, nuvole piene di pioggia gettavano la loro ombra cupa sulla città. Mi trovavo nella chiesa di san Michele, ancora chiusa ai fedeli. Guardavo la statua del Principe della Milizia Celeste, e pregavo di non fallire nella mia missione. Mi trattenni a lungo, poi uscii prima che i frati aprissero per la prima Messa del mattino, e mi avviai lentamente verso l’Accademia. Mi aggiustai il soprabito. Dovevo abituarmi alla forma umana che avevo preso, quella di un uomo corpulento di sessant’anni.

Camminavo piuttosto lentamente, un po’ zoppicando, dal momento che questa forma umana era affetta da artrosi. Mi dissi che doveva andare bene. La mia missione era stata autorizzata dal Comandante Supremo, ma mi aveva avvertito che non sarebbe stato facile. Il Nemico sapeva. In qualche modo sapeva. Ovviamente non era a conoscenza dei dettagli della questione, ma sicuramente era intenzionato a mandare all’aria i nostri piani. Ero nel distretto di Innere Stadt, ed ero entrato nel magnifico Ressel Park, quando lo vidi, mentre percorreva uno dei vari sentieri del parco.

Improvvisamente girò il capo verso di me, e anche lui si rese conto della mia presenza. Dopo pochi secondi, fummo uno di fronte all’altro. Il parco a quell’ora era ancora deserto, ma un eventuale passante sarebbe sbigottito di fronte allo spettacolo che stavamo dando: due uomini di una certa età, identici, – avrebbero pensato a due fratelli gemelli – vestiti con abiti uguali.

Mi guardò con tutto l’odio di cui era capace, e questa sua capacità era immensa.
Uriel – digrignò tra i denti il mio nome.
Bael – gli risposi, ricambiando con voce ferma il saluto.
È molto tempo che non ci incontriamo – sibilò.
È vero, ma mi imbatto spesso negli esiti delle tue azioni.
L’uomo che era la mia identica immagine speculare scoppiò a ridere.
E immagino che non ti piacciano! Ma il mio signore è molto soddisfatto di me. Dice che faccio un ottimo lavoro!
Scossi la testa pensando al suo capo, e ai suoi progetti. La sua mente non conosceva riposo nell’ordire inganni, nel desiderare morte e devastazione.
Perché sei qui? – gli chiesi con voce ferma.
– Che domanda idiota! – disse sghignazzando – Cosa credi che ci faccia qui a Vienna? Sarei qui solo per traviare qualche ballerina o qualche banchiere? Non è un lavoro per me!
Qual è il tuo compito? Quali ordini ti ha dato il tuo capo?
Il mio alter ego si infuriò.
Ma sei davvero idiota o fingi di esserlo? Hai capito benissimo qual è la mia missione. Fermare la tua!

Lanciò un grido feroce e spiccò un balzo di oltre due metri impugnando il bastone da passeggio come una spada. Fui pronto a schivarlo, e a mia volta usai il mio bastone per sferrargli un colpo sul collo. Lui fu lesto a rialzarsi. Buttò via il bastone, troppo leggero per servire come arma, e mi si lanciò contro afferrandomi al collo. Iniziammo una lotta furibonda, colpendoci con pugni e calci tremendi.

Solo per un brevissimo istante mi passò per la mente che nessuno dei due – sotto quelle forme – avrebbe potuto prevalere. Mentre eravamo avvinghiati, e mentre nelle narici mi entrava il lezzo vomitevole del suo fiato, mi ritrovai con la bocca vicino al suo orecchio, e gli recitai delle parole che lo fecero prorompere in un urlo terrificante, un misto di dolore e di paura. Cadde a terra stringendosi la testa fra le mani.

Nel frattempo, erano accorse alcune persone che stavano attraversando il parco dirette al lavoro. Un paio di cameriere e un operaio. Osservavano attoniti quella scena dove due uomini identici si fronteggiavano, uno rotolandosi per terra, l’altro sovrastandolo e gridando parole in una lingua sconosciuta e dalla sonorità arcana. Poi, ci fu un grande bagliore, impressionante nella semioscurità del mattino, che accecò le persone che si erano avvicinate. Dopo alcuni secondi, una volta passato il momentaneo accecamento, le tre persone videro un solo uomo allontanarsi in fretta, lasciando il parco. L’altro era sparito.

Le cameriere e l’operaio si guardarono attentamente in giro, ma dell’uomo elegante che si rotolava per terra poco prima non c’era alcuna traccia. 

Il mio cuore di sessantenne batteva all’impazzata quando mi trovai finalmente in Schillerplatz. Mi rassettai il soprabito, mi riavviai i capelli, e lessi la scritta apposta sul grande edificio di fronte a me: “Akademie der bildenden Künste Wien”.

L’Accademia di Belle Arti di Vienna. Salii le scale, e mi trovai nell’aula dove si sarebbero svolte le prove di ammissione all’Accademia. Adesso veniva un impegno altrettanto difficile che affrontare Bael, anzi: certamente molto più impegnativo. Sentivo tutta la responsabilità, enorme, di quello che avrei dovuto fare a breve. 

Fui accolto calorosamente dai due colleghi della commissione esaminatrice che erano già arrivati.

Caro professor Von Haspinger! Siete già arrivato! È la prima volta in vita mia che non vi vedo in ritardo? Forse che state cambiando?
A volte capita, dopo i sessant’anni.
In effetti c’è qualcosa di diverso in voi oggi – fece l’altro collega – forse la voce…
In effetti sono un po’ raffreddato – dissi abbassando la voce.
E quegli ematomi sul volto? Che diamine avete combinato?
Oh, sapete, la mia sbadataggine: ho picchiato contro un armadietto del bagno…
Lo avrete divelto, immagino – concluse il collega un po’ accigliato.

Poi arrivarono anche gli altri membri della Commissione, e quindi, dopo i convenevoli di prassi, iniziarono gli esami.

Il terzo fu lui. Entrò con gli occhi bassi, salutando la Commissione sottovoce, tanto che dovettero fargli ripetere nome e cognome. Era già stato bocciato in precedenza, e percepivo il suo timore che avvenisse ancora. Non ci sarebbe stata una terza occasione: avrebbe dovuto rinunciare per sempre a studiare, a formarsi per realizzare il suo sogno di diventare un’artista. Si sedette davanti a noi stringendo nervosamente una cartelletta con i lavori che aveva portato. Avevo di fronte a me un ragazzo di diciannove anni, insicuro, sognatore, nervoso, che era a un bivio della propria vita. Dopo alcuni minuti, uno dei colleghi sembrava avere già pronta la sentenza da emettere.

– Credo caro giovanotto che voi abbiate una troppo rigida impostazione del disegno. Non vedo molto talento nel disegno delle forme umane. Credo che le vostre capacità, che pure non mancano, siano più legate all’architettura, tanto da reprimere la limpida genuinità del tratto – disse con tono piuttosto brusco.

Un altro dei colleghi, con modo più affabile, gli disse che forse l’Accademia non era per lui. Aveva mai pensato, disse, ad iscriversi alla Facoltà di Architettura? Il ragazzo dai capelli corvini stava per alzarsi senza neanche rispondere. Sentii montare dentro di lui la frustrazione e una grande, terribile rabbia. Fu allora che intervenni.

Cari colleghi, ritengo a differenza di voi che in questo giovane ci sia del grande talento. Un germe che deve ancora sbocciare. E questa Accademia è proprio la serra in cui aiutare a far sbocciare dei meravigliosi fiori. Credo che questo studente abbia delle qualità che, debitamente coltivate, faranno di lui un eccellente artista.

I colleghi mi guardarono abbastanza stupiti. Il professor von Haspinger raramente prendeva la parola in questa come in altre occasioni. Era un uomo chiuso e riservato. Ora i colleghi invece ascoltavano una vera e propria arringa difensiva di quel giovane.

Inoltre, mi permetto di contraddire il mio illustre collega che ha definito carenti le doti di ritrattista del nostro candidato. Ho intravisto qualcosa di molto interessante tra i lavori che ci ha portato. Mi permetto di farvi notare questo…

Presi la cartelletta, ed estrassi un disegno, che raffigurava una Madonna col Bambino Gesù. I colleghi rimasero sbalorditi di fronte a quell’acquerello, alla sua straordinaria bellezza. Lo stesso studente rimase a bocca aperta, come se non conoscesse quel dipinto, come se non lo avesse realizzato lui.

Sembra il Canaletto… – mormorò un professore.
Semplicemente straordinario – disse quello che gli aveva consigliato di darsi all’architettura, contemplando il volto della Vergine, raffigurato in un modo che lasciava trasparire una dolcezza, una grazia indescrivibili.
Ma perché non ce lo avete mostrato subito? – borbottò il collega che voleva bocciarlo – Avremmo risparmiato tempo. Bravo Von Haspinger: avete notato con acume questa perla. Giovanotto, potete accomodarvi pure.

Il ragazzo uscì ancora frastornato. Tanto confuso che probabilmente in seguito smarrì il meraviglioso ritratto. Non lo trovò più: chissà dove lo aveva lasciato.

Fu così che ebbe la possibilità di affinare all’Accademia quel po’ di talento che aveva. Il resto è storia, con i successi artistici per il grande pittore che aveva scelto lo pseudonimo di Moncheü. Ora, nella sala del Museo Albertina, non era più il ragazzo che avevo incontrato tanti anni prima, e dentro di me pensai a quello che avrebbe potuto diventare se non fosse entrato all’Accademia. Avevo avuto una spaventosa visione, e avevo chiesto al Re di potere intervenire. Moncheü incrociò il mio sguardo. Chissà se gli dicevo qualcosa. Certamente aveva qualcosa in lui di sensitivo. Mi guardò per alcuni secondi, poi venne riscosso dal Direttore che aveva terminato il suo discorso e che ora gli avrebbe ceduto la parola.

Signore e signori, ho il piacere di presentarvi il grande artista Moncheü, ovvero Adolf Hitler.

Nota dell’autore

Nel Mein Kampf, Hitler scrisse che in gioventù desiderava diventare un pittore professionista, ma le sue aspirazioni furono distrutte dalla bocciatura all’esame di ammissione dell’Accademia delle Belle Arti di Vienna. La rabbia e il risentimento produssero un mostro anziché un artista
Uriel, nella tradizione ebraica, è l’Angelo della pace. Ed è considerato patrono delle Arti.

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