Re Zog, la stoltezza dell’ingratitudine – di Francesca Niccolai

Re Zog con il Ministro degli esteri italiano, Galeazzo Ciano

L’ambigua e truffaldina politica del sovrano di Albania nei confronti del suo popolo e dell’Italia.  Breve storia di un rapporto malato che, a quanto pare, nulla sembra averci insegnato.

Di Francesca Niccolai

Re Zog con il Ministro degli esteri italiano, Galeazzo CianoIl 3 luglio dello scorso anno le urne albanesi hanno consegnato una controversa vittoria al leader della destra nazionalista, il musulmano Sali Berisha che, a differenza del suo predecessore, l’ortodosso Fatos Nano, ha sempre manifestato una palese antipatia nei confronti dell’Italia. Il suo primo governo, durato dal 1992 al 1997, coincise con l’esodo di centinaia di migliaia di clandestini sulle coste pugliesi, segnando una fase critica nei rapporti italo-schipetari. Anzi, si sfiorò addirittura la rottura diplomatica, in seguito al crollo delle ‘finanziarie fantasma’ che nel 1997 sprofondò l’Albania in una crisi economica gravissima, determinando la fine del primo mandato Berisha. Il programma politico dell’attuale premier tornato al potere sembra ispirarsi per certi versi a quello di un personaggio del passato, il sovrano albanese Ahmet Zogolli, detto Zog (1895–1961) che regnò, anzi dominò per più di un decennio sul Paese delle Aquile, complicandone non poco i rapporti con l’Italia.
Figlio di un bajraktar (capo tribù di montagna), Ahmet Zogolli nacque in uno sperduto villaggio del Mati, area tribale musulmana e non urbanizzata del nord-est dell’Albania. Una rivolta paterna contro il governo ottomano –ispirata a motivi puramente fiscali- fece di Ahmet un ostaggio di lusso a Costantinopoli, dove il giovane crebbe a contatto con gli intrighi di corte e apprese il tratto caratteristico della sua futura politica, quello di porre i suoi avversari gli uni contro gli altri.
Rientrato in Albania, Zog si distinse durante la Prima Guerra Mondiale come elemento destabilizzante. Le sue bande del Mati guerreggiarono per tutti e contro tutti, alleandosi di volta in volta con serbi, turchi e austro-ungarici: soltanto gli italiani lo ebbero sempre nemico. Esasperati dall’atteggiamento di questo “astuto gangster albanese” (definizione affibbiatagli nel 1915 dal principe Windisch-Graetz) gli austriaci lo costrinsero infine a un “soggiorno obbligato” a Vienna, dove Zogolli trascorse due anni d’intensa vita mondana. Rimpatriato al termine del conflitto, ricoprì incarichi ministeriali nel giovane Stato albanese, rifondato nel 1920 dopo la fragile indipendenza conseguita nel 1913. Ministro dell’interno da marzo a novembre 1920, governatore di Scutari fino al 1921 e comandante in capo delle forze armate albanesi nel 1921-1922, si attirò le antipatie del partito riformista, composto da nazionalisti e democratici, guidato dal vescovo ortodosso Fan Noli. Sostenuto da una classe politica conservatrice formata da bajraktar, bey (signori feudali musulmani) ed ex funzionari ottomani nostalgici delle tradizioni politiche e spirituali turche, ma soprattutto grazie alla forza dei suoi guerrieri del Mati, Zogolli si autoproclamò primo ministro nel 1922. Nel 1924, una rivolta promossa da Noli lo costrinse a fuggire in Jugoslavia, donde rientrò sei mesi dopo con l’appoggio delle truppe russe bianche presenti a Belgrado. Rovesciato il governo di Noli, Zogolli riprese il potere, deciso a non lasciarselo più sfuggire.
Dati i suoi travagliati trascorsi, Zog aveva dunque avuto modo di formarsi tanto alla scuola politica ottomana quanto a quella europea. E nel 1925, una volta divenuto presidente della Repubblica, egli avrà modo di imprimere alla sua politica –‘occidentale’ nei principi, ma decisamente ‘orientale’ nella sua traduzione in opere- un’impronta molto particolare.
Il fascismo intensificò la dispendiosa politica di ‘colonizzazione’ economica precedentemente avviata dai governi liberali per proseguirla fino al 1939, allorquando Roma decise di inglobare definitivamente il Paese delle Aquile. Quando Zog assunse la presidenza, tutti i progetti economici e di sviluppo infrastrutturale dipendevano dai finanziamenti italiani: situazione che trovò espressione formale nei Patti di Tirana del 1927. E proprio in seguito al trattato, nel 1928, Zog si auto proclamò “re degli albanesi”. Fu infatti col denaro italiano che egli “organizzò” l’elezione dell’assemblea costituente deputata a offrirgli la corona. Istituita una monarchia costituzionale su vecchio modello italiano, il neo monarca mutò il proprio nome, che suonava troppo turco e islamico, in Zog (‘uccello’), sostenendo perfino di discendere dal mitico eroe medievale Skanderbeg. L’abolizione della repubblica e l’autoproclamazione di Zog – “un uomo che al bene della nazione anteponeva i suoi particolari interessi”- destò tra gli osservatori fascisti non poche preoccupazioni. Da Roma si levarono duri commenti in direzione del nuovo re, uomo “testardo, astuto e freddo”, accusato di utilizzare il potere “come un rullo compressore” utile per eliminare i suoi rivali politici.
Per meglio gestire le finanze albanesi, l’Italia fondò nel 1928 la Banca Nazionale d’Albania e costituì il gruppo finanziario SVEA (Società per lo Sviluppo Economico dell’Albania), che procurò al governo schipetaro un prestito di 70 milioni di franchi oro destinati ad opere pubbliche (strade e porti) e agricole. La SVEA finanziò la costruzione dello scalo di Durazzo – la ‘porta’ dell’Albania e quindi dei Balcani- ricavando da una landa paludosa una rada bene attrezzata; l’Ente Italiano Aziende Agricole istituì, tra Durazzo e Tirana, un sistema di fattorie modello, bonificando ettari di territorio e convertendoli in campi di mais e frumento. Ed anche il comparto della manifattura del tabacco venne adeguatamente sostenuto ed incentivato. Dal canto loro, la Società Italiana Miniere, con sede a Valona, monopolizzò di fatto la produzione del bitume, e le Ferrovie dello Stato ottennero preziose concessioni sul petrolio di Kuçova e dell’intera valle del Devolli. Il Sud dell’Albania si ritrovò rapidamente trapunto di impianti estrattivi – parte dei quali a tutt’oggi funzionanti – da cui apposite condutture, facenti capo ad un oleodotto di 82 chilometri, incominciarono a convogliare l’oro nero sulla città portuale di Valona. Secondo i costruttori, che avevano già pianificato l’attività dell’impianto fino al 1960, l’opera del Servizio Minerario sarebbe riuscita a coprire il 50% del fabbisogno nazionale di benzina.
Nel 1926, l’Italia aveva raccolto un’Albania strangolata da un deficit endemico, risollevandola grazie al prestito SVEA e ad un ulteriore prestito a rate di 100 milioni di franchi oro, senza interessi e senza data di rimborso, rimessa al giorno imprecisato in cui lo Stato di Zog avesse goduto di un’entrata di 50 milioni di franchi oro.
In cambio, Roma non ottenne nulla, o quasi. I fondi affluiti in Albania furono largamente utilizzati per acquistare da paesi terzi e non dall’Italia, come invece auspicato da Roma. Anziché importare solo merci italiane, nel 1931 Zog stipulò un’intesa doganale privilegiata col Giappone, che divenne il secondo Pese esportatore in Albania.
La grande depressione americana del 1929 sconquassò l’Albania che, nonostante i lauti prestiti italiani, basava buona parte della sua forza finanziaria sulle rimesse degli emigranti trasferitisi negli Stati Uniti. Zog non riuscì mai a saldare i suoi debiti con la SVEA e, quando Mussolini tentò di prendere le redini del paese, chiedendo l’unione doganale e i monopoli su zucchero, telegrafi ed elettricità, il sovrano assunse un atteggiamento di sfida. Nel 1933, egli ordinò che tutte le spese nazionali fossero tagliate del 30%, tranne ovviamente le sue personali, che si aggiravano sul 2% del bilancio di stato e includevano, tra l’altro, ben 150 sigarette aromatizzate al giorno e svariate migliaia di lire perse sui tavoli da poker. Per cercare di affievolire l’influenza italiana sulla popolazione albanese, Zog decretò anche la chiusura delle scuole cattoliche. E di conseguenza, Mussolini strinse i cordoni della borsa e congelò i prestiti, aggravando ulteriormente la già disastrosa situazione finanziaria albanese. Il braccio di ferro fra il Duce e Zog terminò nel 1935, quando quest’ultimo ottenne tre milioni di franchi oro per pagare gli stipendi degli statali, in arretrato di sei mesi, “concedendo” in cambio la riapertura delle scuole cattoliche.
Da buon “brigante del Nord”, Zog considerava, infatti, l’Italia come il mezzo per ottenere unicamente concreti vantaggi finanziari (soprattutto personali), senza tuttavia sentirsi in alcun modo debitore. A conti fatti, egli incarnava, portandolo alclimax, l’atteggiamento storico degli albanesi nei confronti degli altri Paesi, soprattutto quelli dai quali dipendevano economicamente. Nella sua paradigmatica relazione con Mussolini, Zog esemplificava il tipico atteggiamentoschipetaro verso lo ‘straniero’, sempre sospettato di avvicinare lo staterello balcanico in maniera interessata e rapace. Al tempo stesso amico e nemico, capriccioso e condiscendente, il monarca tese sempre a difendere – anche nelle maniere meno corrette – la sua autonomia dalle crescenti ingerenze di un Mussolini del quale, in ogni caso, non poteva fare a meno. Per questa ragione egli si offrì alla protezione di tutte le potenze concorrenti dell’Italia, allacciando perfino relazioni con l’Unione Sovietica e tentando di creare una sorta di alleanza tra Stati balcanici, quasi a compensare i continui ricorsi ad aiuti esterni. Durante il suo regno, Zog tentò incessantemente di destabilizzare le relazioni italo-jugoslave, prassi politico-diplomatica che tuttavia travalicava i limiti della sua effettiva e modesta abilità. Ciononostante, quando egli rimaneva a corto di fondi, non si faceva scrupolo a battere cassa a Roma. D’altro canto, senza i finanziamenti italiani per lui sarebbe stata la fine. Zog riteneva, tuttavia, che il denaro fornitogli dall’Italia non rappresentasse un pegno d’amicizia o di un’alleanza su basi cooperative, bensì un semplice compenso dovuto affinché egli non ostacolasse con il suo agire sgangherato e truffaldino le ambizioni di Mussolini nei Balcani. E strano, ma vero, il Duce accettò, seppure obtorto collo, questo irritante atteggiamento, sovvenzionando  a più riprese il malgoverno del sovrano.
Nel 1938, gli investimenti italiani in Albania ammontavano a 280 milioni di franchi oro, a fronte di un bilancio statale che a malapena raggiungeva i 28 milioni. Il capitale italiano costituiva e si identificava nella totalità dell’industria del paese che, tuttavia, non superava il 3,9% del prodotto interno lordo. Oltre a ciò, l’Albania non si rivelò mai lo sperato sbocco lavorativo per la manodopera italiana. L’arretratezza gestionale, burocratica, economica ed infrastrutturale del paese non favoriva infatti l’inserimento di manovali e tecnici provenienti da realtà produttive più avanzate; senza considerare che i lavoratori italiani – che lo stesso console a Tirana, Valeriani, ebbe modo di definire “mediocri”- pretendevano stipendi elevatissimi. Esclusi dal mercato locale, i circa 1.200 italiani trasferitisi nel Paese delle Aquile vissero dunque in buona misura dell’assistenza da parte dei Consolati. D’altra parte le uniche richieste da parte albanese nei confronti del Consolato italiano riguardavano non tanto la mano d’opera ma “l’inoltro di cameriere giovani e belle da introdurre in locali pubblici e privati”, richieste che ovviamente non furono mai prese in considerazione. Quale altra ‘colonia’ – ci si domanda – si sarebbe mai permessa di avanzare proposte di tal fatta al paese dominatore – e nel caso dell’Italia neppure dominatore, bensì meramente finanziatore?
Ma ritorniamo al denaro ‘sprecato’ dall’Italia fascista in terra di Albania. Tra il 1925 e il 1939, Roma versò nelle profonde casse albanesi qualcosa come 1.836.595.253 lire: cifra alla quale bisogna aggiungere le non indifferenti elargizioni da parte della Chiesa cattolica che, vale la pena ricordare, venne sempre osteggiata dal clero locale albanese. Quando, infine, Mussolini comprese che le ingenti concessioni economiche non si traducevano in un proporzionale aumento dell’influenza italiana sul Paese delle Aquile e che anzi, era proprio il dissennato agire finanziario a rappresentare l’effettivo ostacolo ad un buon investimento politico, al Duce non rimase che giocare la carta dell’annessione. Il 7 aprile 1939, dopo una serie di trattative sottobanco tra Zog – che pretese una forte somma per mettersi da parte – ed emissari romani, l’esercito italiano sbarcò a Durazzo, occupando rapidamente e pacificamente l’intero paese.  Così si concludeva la vicenda del “re che vendette il suo Paese”, secondo la definizione di Alessandro Lessona, sottosegretario e poi Ministro delle colonie, che gestì le relazioni italo-albanesi dai Patti di Tirana all’occupazione.
E oggi? L’Italia rimane non soltanto il primo partner commerciale dell’Albania, ma anche il maggiore donatore, con il 30, 3% delle donazioni, seguita dagli USA con il 12,5% e dalla Grecia all’8,5 per cento. Il tutto in cambio di una sostanziale ingratitudine, come quella più volte palesata dal leader Berisha che, pur inneggiando agli USA e disprezzando il nostro Paese, non si tira certo indietro allorquando si tratta di elemosinare forniture ENEL. Errare humanum est, sed perseverare…

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