Scriptorium – Recensioni. Rubrica quindicinale di Cristina Siccardi

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La porta della fede. Quando ragione e amore s’incontrano di P. Serafino Lanzetta FI. Un saggio teologico che dà risposte esaustive ai mille dubbi che oggi si affastellano nella mente di coloro che non ricevono più risposte certe dalla maggior parte dei pastori della Chiesa.

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O tutto o niente. Con la fede si può ottenere il Tutto racchiuso in Dio, come dimostrano i Santi, senza fede l’uomo vaga insicuro per vicoli e labirinti ignoti, senza navigatore satellitare che conduce al traguardo. Padre Serafino Lanzetta FI afferma con rigore e fermezza: «La nostra vita è segnata dal mistero. O il mistero o il nulla: dobbiamo scegliere. O la verità e quindi la fede, oppure rassegnarci a rimanere a guado, l’intera vita, sui flutti del nostro continuo naufragare. La fede è la porta (cf. At 14, 27) che ci apre il mistero di Dio e con Dio ci dona la ragione di noi stessi, delle cose e del mondo.» (p. 11). È una perfetta sintesi di cosa significhi avere fede, contenuta nell’Introduzione di Padre Lanzetta alla sua nuova pubblicazione (Casa Editrice Leonardo da Vinci) dal titolo La porta della fede. Quando ragione e amore s’incontrano.

Il saggio teologico dà risposte esaustive ai mille dubbi che oggi si affastellano nella mente di coloro che non ricevono più risposte certe dalla maggior parte dei pastori della Chiesa e di coloro che non si accontentano delle aleatorie e vaghe motivazioni esistenziali dettate dalle filosofie moderne e dalla psicanalisi.

Il relativismo fa male alle intelligenze, alle anime delle persone e, conseguentemente, fa male alla salute psicofisica degli individui. La fede è una risorsa di essenziale valore ed è un atto umano, come ricorda l’autore: «non un tuffo nel mare dell’esistenza, dove ci si aggrappa disperatamente a un salvagente, o un cieco girovagare per le strade del mondo credendo di vedere qualcosa quando in realtà non si vede che il buio. L’illusione di vedere sarebbe il conforto della fede, ma la fede stessa sarebbe buio fitto e perciò una perdita di tempo. Per molti è così. La fede è un’illusione. È credere per trovare un conforto in qualcosa. No. La fede è un atto della nostra intelligenza e della nostra volontà mossa dalla grazia, ma un atto che fa parte di noi, che segna la nostra vita» (Ibidem). Finalmente viene detto che la fede non è un incontro, non è un’esperienza, bensì «fa parte di noi». La vita è una realtà seria, la fede lo è altrettanto, non è semplicemente un episodio, un’emozione, un sentimento, uno stato d’animo, ma un’adesione incondizionata e che prende tutta la persona, altrimenti non è fede autentica.

Oggi tutto è esperienza, nell’accezione più superficiale del termine, non più come si intendeva un tempo, ovvero appropriazione di conoscenze o di pratica per farne saggiamente tesoro, bensì sperimentazione di qualsiasi cosa e a qualsiasi età; si vivacchia, ci si lascia trasportare dalla cultura e dalle mode di turno, mentre le esistenze si fanno fragili e squilibrate: senza la fede è disordine, con la fede si acquisisce stabilità ed armonia, da cui si attinge quella pace interiore necessaria ad affrontare anche le battaglie più difficili. «La fede in Dio non è un’opzione irrazionale e volontaristica. Richiede di partire dal fondamento: la ragione e l’amore. La ragione ci dice chi è Dio e l’amore ci fa muovere già verso di Lui, come bene da abbracciare e possedere.» (pp. 11-12). E il dubbio? È un pubblico ministero ai processi che continuamente rivolgiamo a noi stessi e agli altri, alle nostre idee, alle idee altrui? I dubbi sommergono i nostri inquieti e travagliati giorni, loro sono i protagonisti e neppure il Papa li disseca più perché la fede non è più una certezza, ma un optional privato. L’autore punta il dito sul nefasto dubbio: «L’uomo del nostro tempo è angustiato dal dubbio e non si pone più il problema della verità.» (p. 12), il caleidoscopio dei dubbi filosofici, di religione, di quotidianità basate su crinali relativisti si sommano alle sfiducie, alle diffidenze, ai sospetti umani e del Cielo non ci si fida perché di esso non si ha esperienza diretta e personale.

Siamo così stati posti, con l’avvallo della Chiesa, dentro ad un centro commerciale di idee e religioni, dove ognuno può scegliere ciò di cui pensa, non di aver bisogno, ma di aver voglia in quel momento. E, alla fine, non sceglierà proprio nulla, perché quei prodotti snaturati, ammassati, privati di chiara identità naturale e soprannaturale, mercificati dal rumore senza sosta e dal consumismo, intossicati dalle menzogne e dagli inganni, non avranno nulla di qualificativo e qualitativo da dire. Così l’uomo, lasciato solo e senza guide sincere, rimane, con le sue false umiltà, nei suoi sconvolgenti dubbi, privo di pace e di serenità. L’autore del saggio, tanto chiaro quanto rigoroso e fondato, cita il beato Cardinale John Henry Newman: «Diecimila difficoltà non fanno un solo dubbio» (J. H. Newman, Apologia pro vita sua, c. 5, ed. M.J. Svaglic, Oxford 1967, p. 210, citato dal CCC n. 157, in ibidem), ma anche Chesterton, il quale sottolineò la patologia di cui oggi soffriamo, l’umiltà usata in condizioni sbagliate:

«Si pensava che l’uomo dovesse dubitare di se stesso e non dubitare della verità. Questo è stato esattamente rovesciato. Oggigiorno la parte di un uomo che un uomo asserisce è esattamente quella parte che non dovrebbe asserire, se stesso. La parte di cui dubita è esattamente la parte di cui non dovrebbe dubitare, la ragione divina. Huxley predicò un contenuto di umiltà così da imparare dalla natura. Ma il nuovo scettico è così umile che dubita se può imparare. […] La vecchia umiltà era uno sperone che preveniva l’uomo dal fermarsi; non un ago nel suo stivale che gli preveniva di andare avanti. La vecchia umiltà rese l’uomo dubbioso circa i suoi sforzi, ciò che poteva farlo lavorare duramente. La nuova umiltà rende l’uomo dubbioso circa i suoi obiettivi, ciò che gli impedirà completamente di lavorare» (G. K. Chesterton, Orthodoxy, The Week-End Library, London 1934, pp. 53-54, in pp. 12-13). Magnifica anche la conclusione a cui giunse Lewis, perfetta per i nostri esasperati soggettivismi, dominati dall’emotività ondivaga:

«Gli umori cambieranno qualsiasi punto di vista ha la tua ragione. Lo so per esperienza. Ora che sono cristiano ho degli umori per cui l’intera cosa sembra molto improbabile: ma quando ero ateo avevo degli umori per cui il Cristianesimo appariva estremamente probabile. Questa ribellione degli umori contro il tuo vero io viene in ogni caso. Questo è il perché la fede è una virtù necessaria: se non insegni ai tuoi umori come andar via non potrai mai essere né un buon cristiano né un buon ateo, ma solo una creatura che va avanti e indietro, con il suo credo dipendente dal tempo e dallo stato della sua digestione. Di conseguenza si deve esercitare l’abito della fede» (C.S. Lewis, Mere Christianity, Harper Collins, Londra 2002, pp. 140-141, in p. 17).

La profondità di questo testo, ricco di riflessioni e considerazioni impastate di ragione e di fede, risulta essere sia piattaforma per iniziare un sano percorso spirituale, sia base per comprendere i mali che affliggono il mondo occidentale. Padre Lanzetta ci dice che è sempre più difficile nascere ed è sempre più facile morire. Questo è un fatto, una verità sotto gli occhi di tutti, pensiamo al genocidio perpetrato legalmente con gli aborti oppure all’eutanasia, auspicabile da parte di alcune parti politiche. Con il decrescere del PIL decresce anche la nostra capacità di essere uomini, mentre si accrescono i cinismi, le crudeltà, le insensibilità, i suicidi, i delitti più efferati che la cronaca ci presenta. La crisi economica non è che la cartina di tornasole della crisi di valori e di principi su cui si sosteneva l’Europa cristiana. «Ci troviamo di fronte a un nuovo ordine economico mondiale provocato dal crollo delle nascite in Occidente, dalla globalizzazione accelerata che ha decolonizzato troppe produzioni in Asia, dividendo il mondo tra Paesi consumatori e non produttori e Paesi produttori ma non ancora consumatori. Il nuovo scenario attuale è dovuto in sostanza alla crescita consumistica a debito, insostenibile, nel mondo occidentale (E. Gotti Tedeschi, Solidarietà tra le Nazioni. Stati Uniti ed Europa insieme per vincere la crisi, in «L’Osservatore Romano», del 20 gennaio 2012, p. 1, in p. 44).

Preziosa la confutazione che Padre Lanzetta opera nei confronti dei pensatori passati e presenti, artefici della scristianizzazione e della secolarizzazione; in particolare ricordiamo il seminatore di menzogne teologiche Vito Mancuso: «Qui la ragione è negata fino all’estrema potenza e la fede diventa, possiamo ben dirlo, uno scarto della scienza e un bisogno “per il naufragio della ragione di fronte al mare della vita”» (p. 30). Prima di pubblicare il libro L’anima e il suo destino, dove è evidente la messa in discussione di una dozzina di dogmi della fede, Mancuso annuncia il suo scopo esigente: rifondare la fede. «Con Simone Weil è convinto che la fede vada riscritta. Ma in che modo? Egli è assillato dall’idea di libertà, fortemente condizionata dal potere del male nel mondo, dal quale liberarsi lottando per la libertà. In tutto questo trambusto del male che si agita e divide l’uomo, Dio è solo uno spettatore o è piuttosto assente. Mancuso nega la Provvidenza di un Dio creatore, quindi il suo intervenire nella storia (in modo sofistico dice che Dio interviene nell’uomo), perché in pari tempo egli postula la negazione del dogma del peccato originale, come colpa commessa da una coppia originaria e trasmesso per modo di generazione. Quest’autore è un Io dialettico, che non potendosi spiegare perché un bambino innocente debba ereditare una colpa che non ha commesso, ne verifica l’inconsistenza in due bambine, una è una è battezzata e l’altra no, che si divertono, giocano, ridono, mentono, fanno cioè entrambe le medesime cose: da ciò conclude che non c’è colpa originaria (sic!). Il mistero più grande per Mancuso è perché Dio non interviene a preservare i progenitori dal cadere in peccato. E risponde in modo emblematico, con “una doverosa precisazione”, che ci aiuta a tener conto di che panni si riveste il suo pensiero: “Dio non è intervenuto al fine di far nascere la libertà, e che il suo non intervento di allora è il simbolo del suo non intervenire mai nella storia del mondo. Dio non interviene su Adamo quando entra in gioco il serpente, perché Dio non interviene mai sulla scena di questo mondo, al livello naturale di questo mondo. Se Dio volesse intervenire e governare, l’avrebbe fatto lì, in quella scena primordiale dove è racchiuso tutto. Ma Dio vuole la libertà, e per questo getta le nostre anime nel gioco imprevedibile della vita”» (p. 31).

Così Mancuso giunge a dichiarare che ogni uomo se fa il bene è divino, a prescindere da ciò che crede, perché il fondamento stesso, l’idea, è il bene. Il bene è più universale della verità! Il “teologo” Mancuso vorrebbe lui insegnarci che cosa è il vero Cristianesimo, che per lui non è affatto superiore alle altre religioni, facendosi beffe di duemila anni di Santa Romana Chiesa. Fino a quando sarà lasciato spazio a questi studiosi di falsi dei e falsi miti?

Leggere La porta della fede significa fare un bagno di vera umiltà e riposizionare la Santissima Trinità sul suo Trono di Amore e di Giustizia, a differenza della teologia mancusiana e di chi l’ha preceduto nella rivoluzione giacobina e bolscevica operata con disinvoltura nelle speculazioni intellettuali posizionando se stessi sullo scranno della soggettiva e tronfia elucubrazione. Il buonismo di cui si fanno latori i corruttori della dottrina cattolica provoca il soffocamento delle sacre coscienze, dove sono incisi da Dio i dieci Comandamenti. Di fronte a tale crudele e profanatorio soffocamento, che produce una catena ininterrotta di peccati (senza carità) e di disgrazie (senza grazia), il Signore sta solo a guardare? Leggendo questo oggettivo e lucente libro, scritto per amore della Verità incarnata da Cristo e per amore della Sua Chiesa, lo scopriremo.

1 commento su “Scriptorium – Recensioni. Rubrica quindicinale di Cristina Siccardi”

  1. L’esperienza, se così si può chiamare, della Fede vera, è ciò che più ci connatura come creature. L’incontro con Dio esige la nostra adesione di creature di cuore e di ragione. La Fede non può essere limitata ai soli moti del cuore perché, piretoppo, esso è da una parte si ciò che sente l’amore Misericordioso di Dio in Cristo, che si innerva della “rugiada del Santo Spirito” , ma non da solo. Esso è anche, ahimè, ed è bene che si ricominci a dire chiaramente dai pulpiti, la parte che più si presta, permeabile, alla corruzione del peccato originale che esiste in ciascuno di noi da sempre. La vocazione pertanto ESIGE il coinvolgimento della nostra ragione in una scelta di Fede vera. Essa stabilizza il cuore mentre quest’ultimo, per Grazia di Dio, nobilita la ragione. Altrimenti saremmo tutti dei ciechi per mano ad altri ciechi. Inutile rammentare la fine si farebbe…….

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