di Guido Mariscotti
S.E. Rev.ma Il Card. Angelo Bagnasco nella sua prolusione al Consiglio permanente della CEI di gennaio 2008 ha affermato:
“….Davvero il posto di lavoro non può essere messo in ballottaggio con la vita e il vero progresso non può tollerare condizioni di lavoro tanto rischiose da compromettere ogni anno la salute e la vita di un elevatissimo numero di cittadini. Sono drammi che le nostre comunità parrocchiali conoscono uno ad uno, e a cui i nostri sacerdoti sono vicini”.
Gli incidenti e le morti sul lavoro costituiscono oggi, una nuova emergenza in Italia.
I dati del 2° rapporto dell’Associazione nazionale mutilati ed invalidi del lavoro (Anmil) parlano di un morto ogni sette ore con circa un milione di incidenti l’anno circa.
Se è vero che dagli anni ’60 a metà degli anni ’80 i morti sul lavoro sono scesi da oltre 4000 a 1500 l’anno, tuttavia la situazione sembra essersi fermata ad uno zoccolo duro che appare insuperabile.
Eppure la legislazione italiana fin dal 1994 e ancor prima, con il D.Lgs 626/94 si era dotata di una buona legge che metteva al centro, il rispetto della vita della persona coniugando sicurezza ed organizzazione del lavoro, obbligando i datori di lavoro alla valutazione dei rischi in una logica partecipativa che si proponeva di coinvolgere tutti i soggetti interessati.
Il testo unico D.Lgs. 81/08 integra la legge 626/94.
Precisa gli obblighi dei datori di lavoro, l’importanza dei controlli (pensiamo al lavoro nero e agli appalti al più alto ribasso) e del coordinamento fra i vari soggetti (ispettori, Asl, vigili del fuoco, ecc.ecc.), la formazione e la prevenzione, l’istituzione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, gli incentivi e gli aiuti alle imprese che lavorano rispettando le leggi della sicurezza.
Non bastano però buone leggi, occorre una cultura della sicurezza sul lavoro diffusa come patrimonio di ogni persona.
Occorre investire in informazione e formazione anche nelle piccole e medie imprese che rappresentano in Italia oltre il 90% delle aziende.
Convincersi che la sicurezza conviene: conviene alla persona che lavora, conviene all’impresa, conviene alla collettività.
È necessario liberare le ingenti risorse economiche presso l’Inail, per la formazione nei posti di lavoro, per la formazione nelle scuole e per il sostegno alle famiglie colpite da incidenti gravi o da morti sul lavoro (le rendite attualmente sono del tutto insufficienti).
Quante famiglie, quanti sacerdoti e comunità cristiane sono ogni giorno coinvolti e travolti da questi drammatici eventi nella loro cura pastorale e nel delicato quotidiano accompagnamento.
“Occorre andare oltre l’emotività, sentendo la responsabilità pastorale di promuovere la vita in ogni momento, preoccupati di un lavoro dignitoso per ogni persona e solidali con chi troppo spesso è dimenticato e ulteriormente umiliato nel non vedere soddisfatti i propri diritti.”
Come afferma MONS. PAOLO TARCHI direttore Ufficio nazionale Cei per i problemi sociali e il lavoro
In Italia di lavoro si muore.
Troppo spesso giornali e tv ci annunciano nuovi infortuni, purtroppo mortali.
Di fronte all’emergenza sicurezza, sono stati ripetuti i richiami del Papa, dei Vescovi e del Presidente della Repubblica sul valore della vita prima di tutto.
La situazione non è cambiata, anzi oggi registriamo un leggerissimo miglioramento dal punto di vista degli infortuni non mortali; ma questa tendenza al miglioramento non è tale da far supporre un’inversione di tendenza.
La questione è che il lavoro è ancora considerato sostanzialmente una merce, anche se, in questo caso, la ‘merce’ non è un prodotto, ma una persona con la sua dignità.
È evidente che ci sia una questione di cultura del lavoro sia da parte del datore del lavoro sia del lavoratore.
Come credenti, ricordiamo la Dottrina sociale della Chiesa che mette la persona al centro del lavoro, ma, purtroppo, non si vedono mai attuati meccanismi che rendano possibile questa centralità.
In Italia non c’è neppure una cultura della legalità in senso stretto e, quindi, di rispetto dell’applicazione della legge.
Non rispettare il decreto legislativo 626 del 1994 e le successive normative in materia vuol dire violare le leggi, ma difficilmente ci si ricorda di questo aspetto.
In realtà, nel mercato del lavoro la combinazione illegalità e insicurezza costituisce una ‘bomba ad orologeria’, aggravata da certe riforme e da fenomeni come la globalizzazione.
Il tutto condito da una lettura di tipo utilitaristico del lavoro.
Per evitare che la cultura del lavoro decada ulteriormente, serve innanzitutto mantenere alta l’attenzione su questi problemi.
Il secondo passo è fare formazione.
Il decreto legislativo il D.Lgs. 81/08 Testo unico sulle norme di sicurezza sul lavoro viene considerato un costo, ancor di più la formazione aziendale in generale, non solo quella sulla sicurezza sul lavoro.
Il decreto legislativo 81/08 è una legge che tutela la salute dei lavoratori e che necessita di formazione; perciò, riunisce i due punti deboli nella cultura aziendale:
le spese per la formazione e le spese per la sicurezza.
Bisognerebbe, quindi, fare in modo che diventi più facile applicare le leggi, senza dimenticare, ovviamente, che legalità e tutela della vita, comunque, vengono prima di ogni altra cosa.
La semplificazione delle leggi passa anche attraverso la formazione ma non è sufficiente, le leggi devono diventare più attuabili.
A far aumentare gli incidenti c’è anche un’errata percezione del rischio.
La percezione del rischio è una questione centrale, ma anche in questo caso frutto di percorsi educativi, formativi e culturali.
La routine, altrimenti, fa sì che una stessa operazione, la prima volta, sia fatta rispettando tutti i meccanismi di sicurezza, fatta la centesima volta non ci si preoccupa più di mettere neanche il casco.
Quindi serve vigilanza e formazione continua.
Un altro punto dolente è la scarsità di controlli.
Il numero degli ispettori è scarso, rispetto al problema.
Ci sono aziende molto grandi che hanno controlli da parte della vigilanza tutti i giorni, mentre ci sono aziende medio-piccole, dove è più facile l’utilizzo di lavoratori a nero, che non sono prese in considerazione dalla vigilanza e invece sono quelle dove si muore di più.
Infatti, la grande azienda già di suo cerca di evitare gli infortuni perché se c’è un incidente gli si blocca un cantiere per diversi mesi e quindi è antieconomico, così anche gli uffici pubblici applicano le misure per la sicurezza.
È il piccolo e medio privato che non trova convenienza nel rispettare le regole per la sicurezza ed è proprio su queste aziende che si agisce poco.
Il nuovo Testo Unico del Governo potrà dare dei risultati.
Perché si pone l’obiettivo di riorganizzare il sistema della sicurezza in Italia che è sommerso sotto una miriade di codici e di leggi disarticolate e utilizzabili solo dagli addetti ai lavori.
Un piccolo imprenditore di fronte a tutto ciò si ferma.
Bene anche la centralità della figura del responsabile dei lavoratori per la sicurezza cioè della vigilanza interna all’azienda, le misure di formazione e informazione che attraverso finanziamenti dovrebbero essere attivate, il coordinamento di leggi differenti, non ultimo l’aumento degli ispettori, il coordinamento della vigilanza.
Si resta, però, un po’ turbati di vedere le contrapposizioni tra le varie associazioni di imprenditori e il mondo del lavoro sulla questione sicurezza: se c’è una legge che avrebbe bisogno di sintonie è proprio questa. In generale, ci sono ancora passi da fare in termini culturali, di tutela della vita.
Per far ciò, è necessario che non prevalgano le leggi del mercato.
Umanizzare il mercato del lavoro diventa la questione centrale da attuare attraverso leggi, formazione e una cultura d’impresa che faccia del lavoratore il centro dello sviluppo e non un
elemento, fra l’altro nemmeno determinante.