Stile spirituale, mistica politica e razza dello spirito

Al fine di sgombrare il campo da facilissimi equivoci, sarà bene operare qualche precisazione in merito alla nozione di “razza”, in generale e presso J. Evola; a tal fine, si procederà a una comparazione con un autore parzialmente ascrivibile all’orientamento di Evola, F. Schuon.

Laddove, com’è noto, il razzismo “biologico” si pose in linea col positivismo e il darwinismo (di cui rappresentava l’espressione “sociale”), quello “spirituale” implica in essentia l’ineguaglianza degli uomini, non fondata su dati biologici o persino su autoreferenziali, scientisti “quozienti intellettivi”, ma su possenti (e oggettive, sebbene non “oggettivabili”) “tensioni spirituali”. In altri termini, secondo questo punto di vista la razza interna è lo spirito “manifestato”, quindi l’espressione “qualitativa” della natura umana”.

Certamente, la parola, nella prospettiva di Schuon (e a fortiori di Evola), individua una determinata “Weltanschauung spirituale”, sebbene nel primo essa costituisca una categoria afferente alla “mistica pura”, nel secondo ad una sorta di “mistica politica”. In vista della costruzione dell’“uomo nuovo” e sulla base di una prospettiva “metapoliticamente tradizionale”, Evola tentò di “orientare” dall’interno il fascismo italiano e di “rettificare” il nazionalsocialismo tedesco: senza riuscirvi, nel caso del fascismo essendo generalmente poco considerato da un atteggiamento politico “pragmatico” (anche se Mussolini approvò le sue tesi sulla razza), nel caso del nazismo risultando addirittura osteggiato.

Schuon utilizza spesso il termine “razza”. Ad esempio, in The Feathered Sun il metafisico elvetico scrive questo poetico passo, che costituisce una sorta di “summa programmatica” del testo, interamente dedicato ai pellerossa: “Questo grande dramma [degli Indiani d’America, n.d.r.] può esser definito come la lotta […] tra la civiltà urbana (nel senso strettamente umano e peggiorativo del termine, con tutte le sue relazioni con l’artificio e il servilismo) e il regno della Natura considerato come l’abito solenne, puro e illimitato dello Spirito Divino. Ed è da questa idea della vittoria finale della Natura (finale perché primordiale) che gli Indiani traggono la loro inesauribile pazienza malgrado le sventure sofferte dalla loro razza; la Natura, di cui loro stessi si sentono l’incarnazione, e che, al tempo stesso, è il loro santuario, finirà conquistando questo mondo artificiale e sacrilego, perché è l’Abito, il Respiro e la Mano stessa del Grande Spirito”i.

L’estratto da Schuon sintetizza anche altri temi che ineriscono, direttamente o no, alla questione della “razza”: in primo luogo, il conflitto tra urbanesimo (artificio) e natura (autenticità “originaria”, per l’appunto “primordiale”, cui quindi è destinata la vittoria “finale”), significativamente intesa non quale “creato” ontologicamente distinto quasi per iatum dal Creatore, ma per l’appunto come “abito solenne, puro e illimitato dello Spirito divino”ii, “santuario”, “respiro” e “mano” del “Grande Spirito”. Si potrebbero qui suggerire analogie con la Prakṛti indù (come “forza motrice primordiale”) e con la Vergine, tanto cara a Schuon. In un’ottica sociologica, si può anche ricordare che certo pensiero tedesco del tardo Ottocento opponeva per diametrum Gemeinschaft (“comunità” naturale, basata sul sentimento dell’appartenenza a una stirpe e a un suolo: a una sacra terra “madre”, per l’appunto) e Gesellschaft (“società” artificiosa, razionalmente e contrattualisticamente fondata), Normaltypen di organizzazioni sociali inconciliabili e “divaricatesi” successivamente alla Rivoluzione Industrialeiii.

In secondo luogo, il dramma storico dei pellerossa interseca (trovandovi una sua giustificazione “suprastorica”) una visione metafisica della “natura vergine”, apparentemente in contrasto con il Cristianesimo (certamente con le sue derive “razionalistiche”, per non parlare di quelle “occidentaliste”), che vi introduce quasi ab origine lo “strappo” del peccato: ma, se pensiamo a ciò che rappresenta la Vergine nella tradizione cristiana di Oriente e di Occidente (nel suo attributo cattolico di “Immacolata”, oltre che nelle sue relazioni con la natura, esemplificate dai suoi molteplici titoli connessi ad elementi naturali e fenomeni atmosferici), si intuisce come lo iato tra le due tradizioni, su ciò, si possa quantomeno ridurre, e non di poco.

Da questo punto di vista, si può anche fare riferimento all’importanza della prassi della “contemplazione della natura” (theoría physiké) nella prima Patristica (ad esempioi in Origene, Evagrio, Gregorio di Nissa). Nella tradizione pellerossa, caratterizzata da un “primordialismo” che non si ritrova così esplicitamente nei tre grandi monoteismi, è evidente che la natura, nel suo aspetto “vergine”, costituisce una autentica “teofania”: ciò che non pare in contrasto, per l’appunto, in specie con la prima Patristica orientale (contra, in particolare, l’”agostinismo”iv e certo tomismo).

In terzo luogo, la razza, in Evola (e a maggior ragione in Schuon), non è tanto e solo un dato biologico (o anche “psicologico”), ma costituisce uno stile spirituale, che può essere difforme nelle espressioni “esterne” ma anche, talora, convergere sul piano della “prassi” presso soggetti o ambiti qualificati (oltre che, in teoria, nel contesto della “pure metaphysics”), pure afferenti a universi spirituali apparentemente incomponibili.

Secondo Evola, “La ‘razza dello spirito’ è una cosa diversa [rispetto a quella “dell’anima”, n.d.r.], perché riguarda la forma non più dell’atteggiamento rispetto al mondo sensibile, storico e sociale, ma dell’atteggiamento di fronte al mondo divino e sovrasensibile: il punto di riferimento non è più la vita, ma quel che sta di là dalla vita. Riguarda dunque anche la forma e lo ‘stile’ delle vocazioni spirituali, nel senso più alto e severo del termine. Come il mondo del costume, del pensiero, dell’arte e della psicologia individuale e collettiva ci mostra degli ‘invarianti’, cioè dei comuni denominatori, delle uniformità tipologiche che noi riportiamo alle ‘razze dell’anima’, così il mondo dei culti, dei miti, dei simboli, dei riti, delle vie di realizzazione ascetica, mistica o iniziatica è suscettibile di una discriminazione, che ci riporta a un dato numero di forme spirituali primordiali e originarie. Anche all’interno di una data religione vi sono modi di concepire il divino e i rapporti esistenti fra esso e l’uomo. E in questa diversità che si tradisce la ‘razza spirituale’: essa appartiene, per così dire, alla direzione verticale (verso l’alto), cosi la ‘razza dell’anima’ riguarda invece la direzione orizzontale (il mondo intorno a noi, l’ambiente)”v.

In tal senso, fatti i dovuti distinguo, il “primordialismo” di Schuon può essere dunque accostato alle tesi di Evola. Soprattutto, quest’ultimo afferma che, se la “cultura” pellerossa – costituita di “razze fiere con un loro stile”, dotate di “qualcosa ‘di aquilino e di solare’” – avesse avuto la meglio sulla “civilizzazione” statunitense, “il livello della civiltà americana sarebbe stato probabilmente più alto”vi: ciò da cui si deduce la tesi della “superiorità” del pellerossa “tradizionale” sull’uomo bianco “degenerato” (ovvero della “civiltà” pellerossa sul “crogiuolo americano”), le cui originarie qualità “solari” si sono trasformate, per il tramite di indebite commistioni e della “necessità” dei cicli storici, in esiziali difetti.

In questa prospettiva, pure, ogni razza produce una “civiltà” (nel senso tedesco di Kultur), essendo latrice di una specifica, essenziale “forma spirituale”. Sul piano della “personalità”, di conseguenza, non si dà una dignità astratta o “naturale”; esistono, invece, tante “dignità funzionali” che, nella loro gradazione gerarchica, fondano una armonia “metasociale”, specchio dell’armonia “cosmica”: un “ordine”, la cui espressione “metapolitica” più compiuta, in Occidente, è lo Statovii, in cui si realizza, sul modello platonico, una configurazione gerarchica il cui imperium è affidato a una “razza” (un “ordine”, per l’appunto, fondato sul “genio”) di “sapienti”.

Significativamente, l’ineguaglianza delle anime umane è attestata anche nel tomismo “ufficiale” (dottrina ormai ignorata dai più). La quindicesima tesi del tomismo recita infatti che l’animaviii, “forma” del corpo e “personalità sussistente”, “[…] viene creata da Dio quando il soggetto che la riceve è sufficientemente disposto ed allora può esservi infusa”ix: dal che si potrebbe anche desumere che le anime, come i corpi che le “ricevono” proporzionalmente, dopo essere state create uguali, sono dotate, all’atto dell’incorporazione, alcune di dignità “superiore”, altre di dignità “inferiore”x.

Tutto il composto umano, quindi – anche il corpo come simbolo che rimanda costitutivamente ad altro, espressione esterna di una “forma” interna: ciò che si oppone per diametrum ai mefitici conati di una postmodernità che disvela sempre più le sue radici “gnostiche” – ha un senso (un significato e una destinazione), in un ordine costituito ab origine di un armonico universo di significati complementari.

1 Citato in esergo a A. Versluis, Sacred Earth (1992), tr. it. Terra sacra. Religione e natura degli Indiani d’America, Edizioni Mediterranee, Roma 2018, p. 5. Citato in esergo a A. Versluis, Sacred Earth (1992), tr. it. Terra sacra. Religione e natura degli Indiani d’America, Edizioni Mediterranee, Roma 2018, p. 5.

2 Corsivi nostri.

3 F. Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft: Abhandlung des Communismus und des Socialismus als empirischer Culturformen, Fues’s Verlag, Leipzig 1887. Significativo quanto afferma l’A. in un passo della sua opera: “mentre nella comunità gli esseri umani restano essenzialmente uniti nonostante i fattori che li separano, nella società restano essenzialmente separati nonostante i fattori che li uniscono” (Comunità e società, Laterza, Bari 2011, tr. it. p. 65).

4 Ad es., un B. Pascal sembra ignorare, nella sua opera, ogni dimensione “spirituale” della natura.

5 Sul problema della “razza dello spirito”

6 L’arco e la clava, op. cit. pp. 40-41.

7 Sul tema dello Stato quale “creazione culturale” di Occidente risulta importante, da un punto di vista “storicistico”, la riflessione di D. Sabbatucci (studioso acuto, ma per altri versi discutibile), Lo Stato come conquista culturale. Ricerca sulla regione romana, Bulzoni, Roma 1975. Della “superiorità” culturale di Occidente (termine, peraltro, oggi sommamente ambiguo) era certo, da un punto di vista “storicistico assoluto, anche E. de Martino, mentre negli ambienti della “destra radicale” si nota spesso una oscillazione tra (implicito) “suprematismo” e “differenzialismo etnico-culturale” (à la de Benoist, per esempio). Sui problemi in oggetto, nello specifico contesto della “scuola storico-religiosa di Roma”, si può vedere il nostro “Storicismo” e “fenomenologia”: Raffaele Pettazzoni e la “scuola di Roma”, in M. Toti, “Un atomo di fuoco”. Forme e dinamiche culturali di Occidente: storia delle religioni, ermeneutica, tradizione, Il Cerchio, Rimini 2019.

8 Secondo S. Tommaso l’anima (qui da intendersi come “spirito”) non è, significativamente, localizzabile in alcun preciso luogo corporeo – ossia, si potrebbe dire, è presente “dappertutto” -: riprendendo S. Agostino (De Trin. 6,6), il “Doctor Angelicus” statuisce che essa “dato [invece] che si unisce [al corpo] come forma deve trovarsi nel tutto e in ogni parte del corpo” (S. Th. I, q. 76, a. 8).

9 S. Th. I, q. 75, a. 2; ibidem, q. 90; ibidem, q. 118; Q. disp. De Anima, a. 14; De Potentia, q. 3, a. 2; S. Cont. Gent., lib. II, cap. 83 ss. Le “24 tesi del Tomismo” furono redatte, al fine di restituire la genuina dottrina di S. Tommaso, da P. G. Mattiussi, e quindi approvate, nel 1914, da S. Pio X.

10 Vi è però da precisare che, nell’insegnamento della Chiesa cattolica, esiste una dignità “remota”, relativa alla natura umana, e una “prossima”, relativa alla persona (che si perde col peccato mortale, e si può riacquistare con il sacramento della confessione, ovvero con la “perfetta contrizione”): sul punto, sembrerebbe, il pensiero “razzista” e il Magistero della Chiesa entrano in un conflitto irresolubile (cfr. supra, n. 3).

1 commento su “Stile spirituale, mistica politica e razza dello spirito”

  1. Il tema relativo alla razza è sempre difficile da trattare, soprattutto perché, in questi ultimi decenni, vi si è abbattuta una censura dispotica e totalmente ideologizzata.

    Pur possedendo alcuni suoi libri (tra i quali proprio “Caste e razze”, SE – Milano 1994), non ho mai approfondito il pensiero di Frithjof Schuon mentre conosco un pochino meglio quello di Julius Evola. L’idea razzialista di Evola fu fortemente influenzata da quella di Ludwig Ferdinand Clauss secondo il quale la capacità di giudizio, la tendenza all’attivismo, il senso eroico, l’attitudine al commercio, la propensione alla spiritualità, etc., non sono appannaggio di una sola razza componente la specie umana ma appartengono a tutte le razze pur esprimendosi attraverso “stili” e livelli differenti.

    Infatti, citando proprio il Clauss: « […] Le proprietà o caratteristiche sono proprie del carattere, non della razza. La razza non determina un particolare inventario di proprietà specifiche, ma il modo in cui esse si rivelano. Quel modo di rivelarsi noi lo chiamiamo: “stile dell’espressione vitale” oppure: “stile dell’anima”. È questo stile che costituisce la natura di ogni animazione razziale ed ha un effetto in ognuna delle nostre esperienze vitali, siano esse profonde, superficiali o quotidiane. L’opinione diffusa che l’anima della razza poggi su queste o quelle caratteristiche, è tanto poco scientifica o tanto poco intellettuale, come quella secondo cui la differenza fra nordici e meridionali sta nel fatto che gli uni vendono aringhe e gli altri arance […]».

    Si potrebbe aggiungere che tutte le razze presentano tanto quote di elementi degenerati quanto altrettante di elementi sani: questo fatto è soprattutto visibile oggi, nel pieno del tentativo di mondializzazione in stile “Open Society”, con persone sballottate qui e lì da una parte all’altra del pianeta e convinte (quando non costrette) a convivere con altre che fino a qualche decennio fa erano lontanissime a livello di usi e costumi. Sia chiaro: l’immigrazionismo selvaggio, la sostituzione etnica, l’appiattimento (pseudo)culturale e ogni tipo di livellamento anche e soprattutto spirituale, sono assolutamente da rigettare; però, vista e considerata la situazione attuale, in special modo europea, con gli – al momento – apparentemente inarrestabili flussi migratori da Sud America, Africa, Medio Oriente e Asia che si riversano nel cd. “vecchio continente” (di nome e di fatto), ci si trova costretti a riconsiderare la questione razziale dato che il volto dell’Europa è ormai cambiato e probabilmente, lo sarà ancora di più nei prossimi decenni. E da questo punto di vista, proprio la tradizione cattolica (assieme all’idea evoliana riguardante la “razza dello spirito”) può essere di enorme aiuto alla convivenza grazie alla distinzione tomista tra quello che dovrebbe essere considerato come concetto corretto di “dignità della natura umana” e quello che dovrebbe essere considerato come concetto sbagliato di “dignità della persona umana”: infatti, la dignità totale-morale o pratica è data unicamente dall’agire della persona (“Agere sequitur esse”) e se questa si comportasse in maniera indegna di un essere umano sarebbe, appunto, priva di dignità. E questo è valido per tutti: bianchi, gialli, neri e rossi…

    Concludo rapidamente scusandomi per la lunghezza del commento e dicendo che, per quanto mi riguarda, oggi, allo stato attuale delle cose, non essendoci più grosse differenze tra persone appartenenti a diversi ceppi razziali, chi sia dalla parte della Tradizione, del patriarcato, della buona politica, del bene comune (non in senso neo tomistico/mondialista/bergogliano) e soprattutto, della Civiltà oltre che, ovviamente, della sanità mentale, è mio amico, fosse anche musulmano, zoroastriano o indù.

    N.B.:
    a scanso di eventuali equivoci: non faccio il tifo né per Putin né per Zelensky…

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