Di Alberto Rosselli

TURANISMO E PANTURANISMO

Tra identità e ideologia

 In epoca contemporanea, il termine Turan – antico nome con il quale i persiani chiamavano la regione asiatico-centrale, e da cui deriva turanismo e panturanismo – oltre che a designare peculiarità linguistiche ed etniche tipiche delle popolazioni stanziate in questa vasta area geografica, ha assunto non soltanto un significato etnico e culturale, ma anche “ideologico”.

Nei testi sacri zoroastriani iraniani dell’Avesta, l’aggettivo turya fa riferimento agli avversari dello zoroastrismo, anche se apparentemente non esisterebbero marcate differenze etniche tra i turya e gli arya citati nelle suddette scritture. Alcuni linguisti fanno derivare Turan dalla radice indo-iraniana tura (forte, veloce), mentre altri la collegano all’antico termine iraniano tor (scuro, nero). La somiglianza tra le parole turya e türk viene considerata accidentale dalla maggioranza degli studiosi che dubitano circa il fatto che turya stia ad indicare, in epoca pre sassadine, il popolo turco. Nel poema epico medio persiano Shahnameh, il termine turan (“terra dei Turya”, al pari di Eran, cioè Iran,“terra degli Arya”) fa riferimento ai popoli confinanti con la Persia orientale, cioè agli abitanti dell’impero kushano, entità statuale del I–III secolo d.C. i cui confini si estendevano dall’attuale Tagikistan al Mar Caspio, all’Afghanistan e alla valle del Gange.

A partire dall’inizio del XX secolo, la parola Turan venne sempre più spesso utilizzata dagli occidentali e dai turchi per indicare genericamente l’area geografica corrispondente all’Asia Centrale. Gli etnologi e i linguisti europei dell’epoca romantica (in particolare quelli tedeschi, ungheresi e slovacchi) erano soliti utilizzare il termine turaniano per designare popolazioni che parlavano linguaggi uralo-altaici. Anche se, attualmente, questa accezione non viene ancora completamente condivisa dalla comunità accademica. Anche se a livello popolare è tuttavia diffusa la teoria secondo la quale sarebbe da attribuire un’origine comune agli idiomi utilizzati dalle popolazioni turche, mongoliche e ugri.

Le scoperte effettuate in questi ultimi anni grazie agli studi sul DNA hanno fornito una nuova teoria circa il significato etnico di Turan. Secondo i lavori pubblicati nell’aprile del 2004 dall’American Journal of Human Genetics, almeno il 70% di finnici, il 49% di sami, il 53% di udmurt, il 35% di lettoni, il 41% di lituani, il 20% degli evenchi della Siberia orientale, l’80% di yakut, il 47% dei buryat, il 40% di chukchi e circa il 60% di inuit occidentali porterebbero nel loro corredo cromosomico il così chiamato aploide N3, peculiarità che dimostrerebbe l’appartenenza ad un unico ceppo risalente a circa mille generazioni fa.

Per quanto concerne le interpretazioni date dagli studiosi europei, le parole turan e turaniano designerebbero, infine, anche una particolare “mentalità” (indice evidentemente caratteriale e ‘culturale’), cioè quella nomade, tipica delle popolazioni centro-asiatiche. Un’interpretazione in sintonia con quella zoroastriana di turja che non è principalmente una designazione linguistica o etnica, ma piuttosto un appellativo con il quale – come già accennato – venivano chiamati gli infedeli, cioè i popoli nemici di Zoroastro.

Secondo quanto riportato nel 1868 da J. W. Jackson in The Iran and Turan sulla Anthropological Review, dietro la “mentalità” turaniana si celerebbe addirittura un ancestrale e congenito ‘istinto’ di tipo razzista. “Il turaniano – sostiene infatti Jackson – è la personificazione del potere materiale; esso rappresenta l’individuo muscolare. Tutta la società turaniana è d’altra parte fondata sul mito della forza. Pur non essendo un selvaggio in senso lato, il turaniano sarebbe comunque un ‘barbaro’. E pur non vivendo alla giornata come una bestia, esso non possiede né le doti morali né quelle intellettuali che caratterizzano altri gruppi etnici”. “Il turaniano – prosegue lo studioso –  sarebbe in grado di applicarsi con profitto sul lavoro e di accumulare risorse, ma risulterebbe tuttvia incapace di elaborare  concetti superiori [non ben chiariti, N.d.A.], come è d’uso invece per l’uomo caucasico. Esso risulta  carente a livello sentimentale ed etico ed è più incline all’acquisizione della conoscenza pratica che non all’elaborazione di idee».

Detto questo, in questi ultimi anni, anche in Europa (Ungheria, in Finlandia ed Estonia), il panturanismo è stato riscoperto e abbracciato come dottrina positiva, soprattutto da alcuni partiti nazionalisti. Non di rado, infatti, il termine turaniano viene usato per indicare una forma di più vasto e omnicomprensivo nazionalismo pan-altaico, un movimento transnazionale che includerebbe popoli apparentemente dissimili, ma che discendono da un comune ceppo, come appunto i baltici, gli ungheresi, i turchi, i manciuriani, i giapponesi, i coreani e, ovviamente, i popoli dell’Asia Centrale.

 Il Panturanismo come specifica dottrina politica

Il panturanismo venne formulato come dottrina nella seconda metà del XIX secolo in Europa dall’orientalista, linguista, etnologo ed esploratore ebreo ungherese Arminius Vambery (1832-1913). Docente di lingue orientali dal 1865 al 1905 presso l’Università di Budapest, Vambery pubblicò numerosi testi nei quali riportò anche le sue esperienze di studio compiute in Asia. Va ricordato che il movimento turaniano (inteso anche come raggruppamento etnico) – in lingua turca Tûran cemiyti, e in lingua tartara Turan cämğiäte – era nato invece nel 1839 in seno al popolo tartaro.

Secondo la dottrina Vambery, la “nazione” turca non poteva essere limitata entro i confini anatolici in quanto la preponderante maggioranza dei popoli centro-asiatici era turcofona poiché vantava la stessa origine di quella anatolica proveniente anch’essa dall’antico Turan, area geografica e linguistica di cui abbiamo già parlato. Ragione per cui, secondo lo studioso magiaro “i popoli turchi avrebbero avuto diritto di formare una grande entità politica compresa tra i Monti Altai e il Bosforo”.

Ma a questo punto occorre però rammentare che, secondo diversi studiosi, Vambery – che fu agente al servizio del governo britannico impegnato, a partire dalla metà del XIX secolo, nel tentativo di bloccare un’espansione russa in direzione dell’Afghanistan, della Persia e dei Dardanelli (mossa che rientrava nel ‘Grande Gioco’) – avrebbe avuto per così dire i suoi interessi nel sostenere la tesi panturanista. Tesi che, nel 1894, venne anche ripresa dall’orientalista e linguista francese David Léon Cahun (1841-1900), in occasione della sua partecipazione e consulenza alla stesura dell’importante trattato di cooperazione economica e militare franco-russo del 18 agosto 1892.

Tra la seconda metà del XIX secolo e l’inizio del XX, il panturanismo si sviluppò ulteriormente trasformandosi in una vera e propria corrente di pensiero che trovò molti adepti non soltanto in “Tartaria” o in Anatolia, ma anche – come si è accennato – tra talune popolazioni europee e asiatiche che vantavano antiche radici turaniane. Nel 1910, nacque la Società Turaniana Ungherese e nel 1920 l’Alleanza Turaniana d’Ungheria, seguita poi, nel 1921, dall’Alleanza Nazionale Turaniana giapponese (divenuta nel 1930 Società Turaniana Giapponese). Fino ad arrivare – come abbiamo avuto già modo di spiegare – ai giorni nostri, con la nascita spontanea di movimenti turaniani bulgari, prussiani, estoni e finlandesi.

Come si è visto, a differenza del panturchismo, il panturanismo non comporterebbe l’unità delle sole genti che risiedono entro i confini dell’attuale Turchia, ma quella di tutti i popoli turco-altaici. E proprio per questa ragione non pochi studiosi sono soliti sovrapporre il termine panturanico a quello panaltaico.

Tra i più noti sostenitori della teoria panturanica vi furono Ahmet Ağaoğlu (1869-1939, uomo politico, giornalista e scrittore turco), Yūsuf Akçuraoğlu (1879-1933, scrittore, pubblicista e uomo politico turco) e la scrittrice turca Khalide Edip Adïvar (1883-1964).

All’inizio del Novecento, Ahmet Ağaoğlu, uno dei capi del movimento nazionalista turco, fondò i giornali Vita e La giusta via, pubblicò numerose opere sulla riforma della società e dello stato turchi, e in seguito fece parte del Comitato Unione e Progresso e del Movimento dei Giovani Turchi, diventando poi membro della Grande Assemblea Nazionale. Insieme con Yūsuf Akçuraoğlu, un tartaro-turco del Volga, egli si batté per l’ideale panturanico, ma le sue speranze rimasero disattese dopo la morte del leader ottomano Enver Pascià (1922) di cui parleremo più avanti.

Yūsuf Akçuraoğlu, emigrò ancora fanciullo a Istanbul dove studiò presso la locale Scuola di Guerra. Esiliato a causa della sua attività politica giudicata sovversiva, aderì anch’egli al movimento dei Giovani Turchi. Rientrato in Russia, egli continuò a fare propaganda proselitismo fra le comunità tartare della regione di Kazan e della Crimea. Nel 1903, pubblicò l’opuscolo I tre modi della politica, un’opera ritenuta fondamentale per la comprensione del movimento panturanico. Nel 1908, in seguito alla concessione della costituzione da parte del sultano turco Abdul Hamid II, entrò a fare parte della Grande Assemblea Nazionale. Khalide Edip Adïvar concretizzò invece il suo impegno politico soprattutto attraverso la narrativa. Il romanzo Il nuovo Turan (1912), ispirato al dibattito sul panturchismo o panturanismo, fu uno dei primi e più significativi esempi di letteratura politica del primo Novecento. Nell’autunno del 1918, alla caduta dell’impero ottomano, dopo una breve adesione alla Lega Wilsoniana, Khalide Edip Adïvar si unì al movimento nazionalista capeggiato da Kemal Atatürk che ella seguì in Anatolia in concomitanza con lo scoppio del conflitto greco-turca del 1920-1922. Esperienza che in seguito ella descrisse nel romanzo La camicia di fuoco (1923).

 

Già a partire dai primi del Novecento, la Germania del kaiser Guglielmo II cercò di strumentalizzare il panturanismo soprattutto in funzione antibritannica: politica che Berlino perseguì poi con ulteriore determinazione con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Per la precisione, tra il 1914 e il 1918, la Germania utilizzò ampiamente sia la retorica panturanista che quella panislamica per minare la solidità dell’impero coloniale inglese, senza tuttavia ottenere i risultati sperati, tra questi anche una generale sollevazione dei sudditi musulmani dell’impero britannico.

Il Panturanismo e il Movimento dei Giovani Turchi

All’inizio del XX secolo, il panturanismo, inteso come ideologia nazionalista, venne abbracciato dal Movimento dei Giovani Turchi impegnato nell’opera di modernizzazione e rafforzamento dell’ormai traballante impero ottomano. L’intento dei Giovani Turchi e di altre sette nazionaliste ottomane  era quello di ‘occidentalizzare’ e ridare compattezza etnico-religiosa e politica all’impero e – contrariamente a quanto era stato tentato dai sultani tra il XIV e il XVII secolo – di estenderne nuovamente i confini in parte ad ovest, cioè verso i Balcani e l’Europa, ma anche in direzione delle regioni centro-asiatiche del mitico Turan.

A questo proposito, lo scienziato della politica Samuel Huntington, nel suo noto libro, Lo scontro delle civiltà, avvalora e giustifica di fatto questa ambizione, indicando proprio nella Turchia “il possibile stato-guida del mondo islamico, soprattutto centro-asiatico”. Eventualità, questa, che se dovesse verificarsi, potrebbe allontanare l’Anatolia dal Vecchio Continente. Pur continuando a rivolgersi principalmente all’Europa, il primo ministro turco Erdogan sembrerebbe intenzionato a giocare una difficile partita su due tavoli, per preservare gli interessi filo-occidentali di parte dell’élite di governo, per non scontentare il “ventre” islamico del Paese e per non mettersi contro l’esercito, custode del laicismo ataturkista. Da una parte egli desidera, infatti, continuare a puntare su Bruxelles, mentre dall’altra egli lavora per trasformare il suo paese in un nuovo “califfato panturanico” moderno (si consideri il sostegno da lui dato nel maggio 2007 alla candidatura presidenziale di un elemento legato all’ala religiosa governativa, il ministro degli Esteri Abdullah Gul, fortemente avversato dai militari), ma al contempo sensibile nei confronti delle revanches del variegato mosaico islamico mediorientale.

Come ha bene illustrato il professore Alessandro Grossato, docente di Storia ed istituzioni dell’Asia Meridionale presso l’Università di Trieste e Gorizia, oggi come oggi, soprattutto in vista dei nuovi accordi internazionali per la creazione di grandi oleodotti che dovrebbero dirottare l’oro nero dall’Asia Centrale all’Anatolia, la Turchia potrebbe accelerare ulteriormente un processo di penetrazione anche politica e ideologica in quest’area strategica, giocando magari sui disaccordi esistenti tra le altre potenze (Cina, Russia, Stati Uniti): ipotesi che, tuttavia, Erdogan sembra essere intenzionato a dissimulare, soprattutto per non scontrarsi con Mosca.

Pur vantando origini relativamente antiche, il panturanismo rappresenta ancora oggi un fondamentale aspetto dell’ideologia del Milliyetçi Hareket Partisi (o MHP, Movimento di Azione Nazionale), e specialmente della fazione ultranazionalista dei Bozkurtlar (i Lupi Grigi) denominazione che si rifà ad una antica leggenda, quella della lupa Asena, considerata il simbolo dell’antico popolo altaico. Acceso sostenitore dell’ideale panturanico è anche un altro gruppo ultranazionalista e xenofobo, il Nizami Alem (l’Ordine dell’Universo), noto per avere fornito sostegno in funzione anti-russa agli indipendentisti ceceni e per essere legato alle organizzazioni fondamentaliste islamiche libanesi.

Effettivamente, negli anni Novanta, il panturanismo ha giuocato un ruolo piuttosto significativo nell’ispirare i primi capi della ribellione cecena contro il governo centrale di Mosca, anche se in seguito questo movimento separatista ha preferito spostarsi su posizioni jihadiste, legandosi ad organizzazioni fondamentaliste più vicine ai talebani afghani e ad Al-Qaida, la già citata e ben nota organizzazione terroristica di Osama Bin Laden. In precedenza, negli anni Settanta, a scoprire e ad utilizzare in funzione antisovietica lo “spirito panturanico” erano stati gli USA, e nella fattispecie l’entourage del presidente statunitense Jimmy Carter che si fece promotore di una crociata sotterranea a favore della rinascita panturanica: scelta dichiaratamente antirussa, poi perseguita da tutti gli altri leader della Casa Bianca, fino ad arrivare a George Bush senior.

È ormai noto come tra gli anni Settanta e gli anni Novanta del secolo scorso – in concomitanza con l’invasione sovietica dell’Afghanistan e, successivamente, nel contesto della rivolta antimoscovita cecena – la CIA abbia appoggiato in maniera decisa sia i movimenti musulmani panturanici sia quelli jihadisti. E come successivamente la politica filoturanica del presidente George Bush abbia contribuito a rafforzare i legami di amicizia tra Washington e le repubbliche centro-asiatiche, sia in funzione antirussa, sia, questa volta, in funzione antifondamentalista islamica.

A questo proposito, gli americani – stando ai loro convincimenti – avrebbero scelto la carta panturanica (e quindi filoturca) come mezzo per tentare di immunizzare una parte del mondo islamico dal “contagio” di Al-Qaida, impegnata nella lotta armata contro l’Occidente e i governi musulmani apparentemente o realmente filo occidentali (come quelli di Arabia Saudita, Pakistan, Egitto e Turchia). L’intento di Washington era quello di porre un argine (anche attraverso una politica filo panturanica e filo panturchista) ad un fenomeno politico-religioso che nella sua dimensione in quanto transnazionale sembra ormai avviato verso un’evoluzione globalizzatrice, coinvolgendo non tanto le istituzioni governative, ma soprattutto le masse diseredate del multiforme pianeta islam.

 

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