Settant’anni di vita non sono, per una rivista, un traguardo da poco, particolarmente in tempi – come l’attuale – di comunicazione usa e getta. “Il Borghese” c’è arrivato. Con tutte le difficoltà dettate dal mutare degli orientamenti e dei contesti politici, con qualche pausa e più di un “acciacco”, la rivista-simbolo della destra italiana, uscita, per la prima volta, a Milano, il 15 marzo 1950, ci consegna una storia importante, imprescindibile per comprendere i complessi itinerari delle destre italiane e insieme le trasformazioni del nostro Paese, dagli Anni Cinquanta al Terzo Millennio.

Alla base della nuova pubblicazione c’è il genio comunicativo d insieme l’inquietudine intellettuale di Leo Longanesi, intellettuale raffinato, disegnatore e grafico, organizzatore culturale e politico in senso lato, scopritore di talenti: un anticonformista per partito preso.

“Il Borghese”, lanciato grazie al sostegno finanziario dell’industriale Giovanni Monti, nasce come il contraltare “da destra” di una certa intellettualità radical-liberale, voce di un’Italia “contro”, “nostalgica” non tanto di un Regime, quanto di uno stile e di valori opposti all’emergente volgarità di massa, al facile democratismo, al progressismo dei costumi, ai “voltagabbana” della cultura, sempre pronti – per dirla con Ennio Flaiano – ad accorrere in aiuto del vincitore, ieri fascista, oggi antifascista.

Da qui il nome della testata, sfrontatamente alternativa alle mode correnti e al proletarismo emergente: “Fino a cent’anni fa – scriveva Longanesi – nessuno restava offeso a sentirsi chiamare ‘borghese’; borghese era un titolo, una condizione onorevole che nessuno rifiutava; i borghesi non si credevano ancora aggettivi dispregiativi della storia, ma sostantivi, nobili, validi, gloriosi sostantivi. Poi la parola ‘proletario’ li sommerse. Cinquant’anni di polemiche, di insulti, di risse, di sangue costrinsero i borghesi a soffiarsi il naso nella loro bandiera”.

Segnato dalla grafica del suo inventore, originariamente stampato su carta ruvida color paglierino, insieme raffinato e un po’ retrò, “Il Borghese” non può essere considerato semplicemente un periodico neofascista. Come ha scritto Mario Tedeschi, succeduto, nel 1957 a Longanesi, nella direzione della rivista, esso voleva essere “un giornale conservatore”, intendendo per conservatori coloro che vogliono “conservare la libertà in vista di un domani migliore”.

In realtà “Il Borghese” fu questo e molto di più. La testata, nella sua lunga esistenza, riesce a raccogliere il meglio della cultura anticonformista (dal neofascismo alla destra cattolica, con la sua polemica postconciliare, dal conservatorismo prezzoliano al liberalismo) rappresentata da una brillante leva di giornalisti e intellettuali. Basti considerare le firme del primo numero (Giovanni Ansaldo, Indro Montanelli, Giovanni Spadolini, Ernst Jünger, Alberto Savinio, Henry Furst, Giuseppe Prezzolini) a cui – tra gli altri – si aggiungeranno: Giano Accame, Giovanni Artieri, Piero Buscaroli, Piero Capello, Mino Caudana, Luciano Cirri, Carlo De Biasi, Enrico Funchignoni, Alberto Giovannini, Francesco Grisi, Giovannino Guareschi, Piero Operti, Camillo Pellizzi, Claudio Quarantotto, Fabrizio Sarazani, Ardengo Soffici.

Cultura e non solo. Negli anni la rivista si segnala per l’aggressività delle inchieste contro la dilagante corruzione democristiana e per la polemica anticomunista (dal “Rapporto sul comunismo in Italia”, inchiesta di Tedeschi, pubblicata nel 1954, con cui si denuncia la fitta rete di società commerciali del Pci, al vero volto del socialismo filocomunista, svelato, alla fine degli Anni Sessanta, alle caustiche cronache di Gianna Preda). Nel dicembre 1965 un’intervista di Gianna Preda a Giorgio La Pira, esponente del cattolicesimo progressista, provoca le dimissioni di Amintore Fanfani da Ministro degli Esteri e una crisi di governo.

Il sodalizio Tedeschi-Preda, che segna senza soluzione di continuità gran parte dell’esperienza de “Il Borghese” si caratterizza anche per l’attenzione ai fenomeni di costume, in un’Italia in forte trasformazione, che consuma – come scrisse Tedeschi – “gli ultimi scampoli dell’ordine e del benessere, residuo del Regno e del Fascismo il primo, frutto della ricostruzione il secondo”. Parole e verità oggi vietate.

Erano, quegli anni, il dono d’un tipo di regime, il centro-destra, che nel 1960 sarebbe caduto e che attualmente viene ricordato e descritto alle giovani generazioni come una versione democristiana della ditta­tura mussoliniana. Forse perché, negli anni fra il 1950 ed il 1959, i treni ancora arrivavano in orario.

Fecero epoca le fotografie, con didascalia, inserite al centro della rivista: immagini vere ed impietose del moralismo imperante e della politica di Palazzo, con quell’attardarsi sui ministri con le dita nel naso, sui deputati addormentati in Parlamento, sulle amenità e le procacità di un’Italia in trasformazione.

Negli “anni di piombo” anche “Il Borghese” pagò la sua appartenenza politica. Tedeschi, diventato nel 1972 senatore del Msi, fu tra i promotori di Democrazia Nazionale, scissione, in chiave “moderata” del Msi. L’operazione non ebbe successo e venne penalizzata dagli elettori. La rivista durò comunque fino alla scomparsa di Tedeschi (8 novembre 1993).

Dopo vari passaggi di proprietà ed esperienze di breve periodo, “Il Borghese” ha trovato, nel 2007, un più stabile assetto societario, grazie alle Edizioni Pagine di Luciano Lucarini, con Claudio Tedeschi, proprietario della testata, nel ruolo di direttore responsabile: una Storia che continua, segno di una grande tradizione culturale e giornalistica da rivendicare con orgoglio, a settant’anni dalla sua prima uscita.

2 commenti su “Un “Borghese” grande grande”

  1. Bellissima rivista che ho seguito dal 70 al 90. Ancora tengo gelosamente alcune copie. Rivista scritta bene, coraggiosa, che sapeva riflettere arguzia e autonomia di giudizio con un po’ di spazio anche ad una pungente ironia. Non ho mai più ritrovato quello stesso spirito.

  2. Io la ricordo bene, adolescente: un mio zio colonnello la leggeva. Ho ricordi bellissimi, bellissimi: ci ho visto, nei primi Settanta, le prime donne nude, riprodotte per polemica contro la modernità. Le mie prime seghe, che bei ricordi….

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