KAFÈ DOSTO’ – Piacere Fëdor Michajlovič Dostoevskij, cacciatore dei profeti del Nulla

Fëdor Dostoevskij, probabilmente il maggior romanziere della letteratura universale, morì a soli cinquantanove anni dopo aver lasciato un’opera gigantesca, che rischiò di non vedere mai la luce per la condanna a morte decretata per la partecipazione non provata a un complotto anti zarista. La pena capitale venne commutata nei lavori forzati proprio mentre il giovane scrittore era condotto al patibolo, un’esperienza che lo segnò per sempre e ispirò brani dell’Idiota e di Delitto e castigo, due dei suoi capolavori.

La sua grandezza non sta solo nella potenza narrativa – in quella gli fu forse superiore Tolstoj – ma nella profondità del suo pensiero. Leggere Dostoevskij è immergersi nella filosofia, nella teologia, negli abissi della psiche umana, e sperimentare una sorta di ottimismo triste, una religione della sofferenza e dell’accettazione del destino che resta impressa per sempre e si attiva nei momenti più duri dell’esistenza personale, un balsamo che aiuta a sollevare la vita in una sorta di dovere morale e religioso. Dostoevskij è un potente antidoto al nulla, al nichilismo gelido che pervade il tempo che ci è toccato in sorte, riconosciuto nella temperie della sua Russia.

In tutti i romanzi e racconti, a partire dal primo, Povera gente – che gli valse gli elogi del mondo culturale dell’epoca – lo scrittore mostra un fondamento del suo mondo interiore, la compassione per la sofferenza di chi è fragile, degradato, incompreso. La relazione di Dostoevskij con la realtà è religiosa nel senso che non può fare a meno di immergersi nel dolore altrui, viverlo come proprio in totale identificazione, con amore insieme carnale e spirituale.

Ogni dolore merita lo sguardo del Crocifisso, che condivide le nostre sofferenze. Dostoevskij sembra dirci, attraverso personaggi come Sonia – l’ex prostituta che redime Raskolnikov in Delitto e Castigo, costringendolo ad accettare e amare il castigo per l’omicidio senza movente dell’usuraia – che non c’è attitudine più umana che sacrificarsi per il prossimo fino all’esaustione. Un compito che rasenta la santità. Lo scoraggiamento, l’accidia, sono peccati in senso religioso ed umano. “È peccato scoraggiarsi. La vera felicità consiste nell’eccesso di lavoro fatto con amore”.

La straordinaria capacità di penetrazione psicologica, lo scavo profondo dei moventi e dei gesti di innumerevoli personaggi, la loro complessa umanità, lo rendono superiore ai romanzieri del suo e di altri tempi, come Cervantes, i cui eroi sono in fondo idealtipi, stereotipi. L’opposto di Dostoevskij è un contemporaneo, il francese Emile Zola, con la sua disperazione atea, creatore di personaggi completamente abbandonati, prigionieri di un’angoscia mai consolata, mai rischiarata dalla speranza.

Dostoevskij offre al lettore la sua passione per Gesù – il personaggio che aleggia quasi in ogni pagina – sostenuta dall’avvertenza: chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà (Marco, 8-35). Un umanesimo legato alla durissima esperienza carceraria, alla familiarità con la malattia – soffrì di epilessia per tutta la vita – alla povertà che lo costrinse spesso a scrivere disperatamente, sfruttato dagli editori, all’esperienza diretta degli aspetti più bassi dell’animo umano. Fu un giocatore compulsivo e descrisse quell’esperienza nel Giocatore, capolavoro scritto in poche settimane per pagare debiti di gioco.

La lettura del gigante russo è un antidoto al nichilismo anche per la sua capacità di dare sangue all’umanesimo, declinato nell’empatia con ogni singolo essere umano, anche il più abietto. Il prigioniero dello Zar, nel gelo siberiano, aveva diritto solo a un libro, la Bibbia, ma ne ricevette altri clandestinamente. Lesse e si impregnò di Erodoto e Tucidide, Plinio e Flavio Giuseppe, testimone della vita storica di Gesù, Plutarco e Kant. Studiò la patristica e i vangeli, riletti innumerevoli volte.

L’esperienza carceraria ispirerà una delle opere più crude di Dostoevskij, Memorie della casa dei morti, la descrizione di un’umanità dolente, degradata, prigioniera non solo delle sbarre, ma delle peggiori abiezioni morali. Neanche l’universo concentrazionario, tuttavia, spegne la vena di speranza, antidoto contro il nichilismo di ogni tempo.

Non pochi personaggi scaturiscono dall’osservazione carica di “pietas” dei compagni di prigionia. Anche tra i peggiori criminali, suggerisce, si può trovare un sentimento, una scintilla positiva. In fondo, è il messaggio di Dostoevskij, se l’uomo è quello che è, è perché Dio stesso lo ha posto sull’orlo dell’abisso.

Raskolnikov, in Delitto e castigo, si confessa a Sonia; ne L’idiota i personaggi raccontano il loro peccato peggiore, quello che li definisce come persone, poiché la natura del male che abbiamo dentro e che ci costituisce, ci rende unici: persone. Per uscire dalla tomba del nostro peccato, per sfuggire all’inferno interiore, dobbiamo confessare. Non c’è redenzione senza confessione, il castigo non redime se non c’è riconoscimento, presa d’atto dolorosa del male commesso. La salvezza è una possibilità offerta a tutti, ma non è gratuita: passa attraverso l’ammissione della colpa e la giusta espiazione, che Sonia, a sua volta redenta dalla vita di prostituta, chiede a Raskolnikov. Nell’Eterno marito, il tradimento è ben conosciuto, ma il marito burlato aspetta, pretende la confessione del rivale.

Il romanzo giovanile Il sosia, acerbo ma di alto valore psicologico, affronta il tema dello sdoppiamento, della follia, nella vicenda di un uomo che incontra il suo doppio, con il suo stesso nome. In tutta l’opera di Dostoevskij non troviamo un solo grande uomo. Il regno dei cieli appartiene ai poveri in spirito, alle persone apparentemente comuni. L’ universo dei personaggi dostoevskiani è popolato da persone ordinarie. Eppure, nessuno è uno qualunque, una pedina intercambiabile nel gioco della vita. Ciascuno possiede uno specifico profilo psicologico; nessuno è uno stereotipo, neppure la sordida, avida usuraia Alena Ivanovna, vittima del delitto di Raskolnikov, neppure le mille figure in movimento nella sterminata Russia.

Lo colse alla perfezione Stefan Zweig, scrittore della finis Austriae. “Estranei nel mondo per amore del mondo, irreali per la passione della realtà, i personaggio di Dostoevskij sembrano dapprima semplici. Non hanno una direzione precisa, non hanno una meta visibile: come ciechi o come ubriachi barcollano per il mondo. Sono sempre spauriti o intimiditi, si sentono sempre umiliati e offesi”. Come il titolo di un romanzo che descrive la decadenza della nobiltà e tratteggia con aspro realismo le umane miserie.

Dostoevskij non crede nella psicologia in ascesa, non stila classifiche, non riempie le caselle delle categorizzazioni, non appone le etichette di una scienza generica: è interessato all’unicità di ogni anima. È questo che lo rende ostile al nichilismo nascente, rappresentato nel personaggio di Bazarov in Padri e figli di Ivan Turgenev, nonché nell’accidia e nell’inazione senza barlumi di Oblomov, l’antieroe immobile di Gonciarov.

Contemporaneo alla nascita del marxismo, Dostoevskij dal primo momento ne divenne uno strenuo nemico. “Il marxismo ha già rosicchiato l’Europa. Se non arriviamo in tempo, distruggerà tutto”. Altrettanta diffidenza manifestò nei confronti del vuoto, indifferente individualismo liberale, portatore di un sottile contagio dello spirito. Il nichilismo dei suoi Demoni, alla fine, è responsabilità dei padri, la generazione assente che non ha saputo e voluto trasmettere nulla, impegnata ad inseguire il successo, il denaro, il potere, i vizi dietro lo schermo della rispettabilità.

La sua opera guarda sempre al bene assoluto; lascia nell’anima una dolce malinconia, la sensazione di un inseguimento della virtù. Un’altra caratteristica è l’incoerenza degli uomini e delle donne di Dostoevskij. Incoerenti in quanto persone concrete che vivono e vestono panni, in cui convivono continuamente sentimenti contraddittori. Sono consapevoli della loro dualità, sospesi tra bene e male, vizio e virtù. Fanno le cose senza volerlo davvero, negandosi ad esse con tutte le forze, tentati allo stesso tempo da Dio e da Satana, deboli come ognuno di noi dinanzi al male.

La verità, umana troppo umana, sta nelle parole di Medea nelle Metamorfosi di Ovidio. “Video meliora proboque, deteriora sequor“, vedo le cose buone e le approvo, ma seguo le peggiori. Simile è la sprezzante rivendicazione di Stavrogin, il Demone per eccellenza, motore del romanzo più inquietante di Dostoevsky. “Posso, come ho sempre saputo, sentire il desiderio di fare una buona azione e sono anche soddisfatto di farla. Ma sono altrettanto spinto dal desiderio di fare il male e provo piacere nel farlo”.

Straordinaria è la capacità introspettiva del grande russo. Dà i brividi la riflessione del principe Myshkin, l’Idiota che tale non è, piuttosto un uomo del tutto sincero, sensibile, votato al bene e per questo incomprensibile. Celeberrima, quasi metafisica l’esclamazione secondo cui la bellezza salverà il mondo, un monito per noi, prigionieri di un tempo in cui il brutto dilaga e non è neppure percepito come tale. Altissima, autobiografica è l’esperienza della morte imminente posta sulle labbra del più indifeso dei suoi personaggi. “A chi sa di dover morire, gli ultimi cinque minuti di vita sembrano interminabili, una ricchezza enorme. In quel momento nulla è più penoso del pensiero incessante: se potessi non morire, se potessi far tornare indietro la vita, quale infinità! E tutto questo sarebbe mio! Io allora trasformerei ogni minuto in un secolo intero, non perderei nulla, terrei conto di ogni minuto, non ne sprecherei nessuno!”.

Myshkin non è pazzo né idiota: il suo male è l’epilessia, che produce esperienze estreme, squarci mistici. Per bocca del principe, Dostoevskij parla ai lettori, li guarda fissi negli occhi e pronuncia frasi tra l’allucinazione e l’esperienza mistica. “È venuto da me, Dio esiste. Ho pianto e non ricordo niente altro. Voi non potete immaginare la felicità che noi epilettici proviamo il secondo prima di avere una crisi”.

Simile è la febbrile allucinazione di Ivan Karamazov, il più tormentato dei tre figli (più il bastardo Smerdjakov gonfio di invidia e legittimo rancore) di Fedor Pavlovic, “un tipo strano, come se ne incontrano alquanto spesso: non solo il tipo d’uomo abietto e dissoluto, ma anche dissennato; di quei dissennati, però, che sanno sbrigare brillantemente i loro affarucci, ma a quanto sembra soltanto questi”. Ivan accetta di vivere senza valori morali, randagio, autosufficiente nell’amoralità, in preda a crisi di onnipotenza, inquieto, eppure mai nichilista fino in fondo.

Sua è la narrazione onirica del Grande Inquisitore. Come il sonetto dell’Infinito da solo assicura fama imperitura a Giacomo Leopardi, il Grande Inquisitore è un immenso pezzo di genio letterario oltreché un trattato di filosofia morale e della storia, il vertice dell’opera di Dostoevskij. Gesù, il redentore in cui Ivan non crede, torna sulla terra, ma un vegliardo cardinale, l’Inquisitore, lo arresta per farlo uccidere. “Sei tu? Sei tu? Non rispondere, taci! E poi, che cosa potresti dire? So anche troppo bene quel che diresti. Ma tu non hai il diritto di aggiungere nulla a quel che già dicesti una volta. Perché sei venuto a infastidirci? Io non so chi tu sia né voglio sapere se tu sia proprio Lui o gli somigli, ma domani ti condannerò, ti brucerò sul rogo come il più empio degli eretici”. La colpa di Gesù è di aver voluto portare la libertà a un’umanità incapace di usarla. Perché sei venuto a infastidirci? Resta la domanda inevasa del potere di ogni tempo dinanzi alla libertà, al pensiero, alla verità.

Una prova giovanile assai suggestiva è il racconto Le notti bianche, la storia delicata dell’incontro tra una giovane sfortunata, Nastenka – uno dei mille personaggi umiliati e offesi, vivide figurine in movimento – e un uomo solitario a cui risveglia l’amore e il desiderio di vita. La ragazza richiama in lui la volontà di staccarsi da un mondo di fantasie tetro e illusorio, ma dopo quattro notti l’incanto finisce e l’uomo torna nella sua tana di solitudine.

Lascia senza fiato, si scolpisce nell’anima il personaggio di Kirillov, l’altro Demone, l’uomo che vuole dimostrare l’inesistenza di Dio attraverso il suicidio, simbolo di nichilismo assoluto, al di là del bene e del male. Il presente ha oltrepassato i Demoni: pulsioni di morte senza un’idea, una causa, morte senza amore, la vita come vizio assurdo. Il rimedio di Dostoevskij è una tenace speranza, poiché “l’Essere c’è e può perdonare tutto e tutti”. Come scoprirlo? Con qualcosa che lo scrittore, il filosofo, svela a chi dispera, sordo, cieco, muto o indifferente: “un solo filo d’erba, un’ape dai fili d’oro, testimoniano d’istinto il mistero divino”. Un inno alla vita e alla bellezza che salva.

Quanta distanza dall’ incipit angosciante delle Memorie del sottosuolo: “io sono un uomo malato. Un uomo cattivo, un uomo sgradevole. Forse ho mal di fegato”. Nessun benessere materiale, nessuna felicità tra scienza e ragione, tanto meno da teorie religiose che propongono mielosi ideali di fratellanza. Ma c’è una via d’uscita, la speranza che si fa strada oltre il nulla: il mal di fegato è fisico, lo spirito può, se lo vuole, restare puro. È la lezione appresa nel gelo della prigione siberiana che fu a lungo la casa di Dostoevskij, con due unici amici, un cane tignoso e un’aquila ferita.

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